Prenderà qualche iniziativa in questo senso?

Ho già lanciato la sfida al signor Aust, dello Spiegel, intendo ovviamente una sfida verbale in televisione – che lui però ancora non ha accettato. Mi piacerebbe tanto dirgli che non hanno effettuato la minima ricerca, arrivando perfino a falsificare i fatti. Hanno agito così solo per superare Focus. A questo punto non posso fare a meno di domandarmi se lo Spiegel abbia svolto per la Bosnia lo stesso tipo di ricerche che ha intrapreso per lo yeti. So bene che questo modo di procedere non mi procurerà amici, al contrario. Ma spero che la generazione dei più giovani capisca finalmente che i media ci ingannano costantemente.

Il capitolo che apre il libro, nel quale lei per la prima volta incontra il poderoso orso e si rende conto che potrebbe trattarsi dello yeti, è notevole anche da un punto di vista letterario. Questo aspetto è forse legato al suo legame con Christoph Ransmayr? Com’è nata la vostra amicizia?

L’amicizia è legata alla mia ammirazione per lo scrittore Ransmayr: semplicemente perché è in grado di scrivere pensieri che stanno in piedi. Per quanto concerne le sue opere Il mondo estremo e Il morbo Kitahara, non mi sento di esprimere un giudizio, mentre Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre rappresenta perfettamente il mio mondo. E ancora nessuno è stato capace di descrivere con un linguaggio così chiaro il dilemma e il conflitto degli appassionati d’avventura. Ho subito capito di trovarmi di fronte a qualcuno che aveva vissuto sulla sua pelle tutto questo. Allora l’ho invitato a prendere parte a una spedizione e lui ha ammesso di non sapere proprio di cosa si trattasse. Nonostante ciò, abbiamo deciso di incontrarci e ci siamo accorti che ci capivamo molto bene. Ormai ho imparato qualcosa da lui, mentre lui nel frattempo è diventato un alpinista di discreto livello.

Ransmayr ha collaborato al libro sullo yeti?

Nel libro viene citato un viaggio sulle tracce dello yeti che feci insieme a lui, anche se non parlo direttamente dello scrittore. Ransmayr si è preoccupato di leggere il manoscritto e ha apportato alcune modifiche fondamentali. Non esiste lettore migliore di lui. Ha anche espresso la sua opinione negativa sulle foto. Ma se le avessi tolte, mi sarei cacciato nei guai, perché a quel punto mi avrebbero accusato di aver scritto solo un romanzo. E non sono certo un bravo romanziere.

A proposito di foto: pare che Jürgen Schrempp e Jürgen Weber, amministratori delegati di Daimler-Benz e Lufthansa, abbiano potuto visionare le foto dell’orso per primi. Come mai proprio loro due?

Naturalmente non sono stati i primi. Sabine, i bambini e Christoph Ransmayr le avevano viste già molto prima. Ho mostrato le foto a quelli del «Similaun-Kreis» solo perché hanno insistito per vederle.

Rappresentazione dello yeti in una pittura muraria tibetana.

Rappresentazione dello yeti in una pittura muraria tibetana.

E come si è arrivati a ciò?

Una volta all’anno vado in montagna con un gruppo formato da manager e imprenditori tedeschi. Ormai da sette anni. All’epoca ero stato ingaggiato come guida alpina dall’amministratore della McKinsey, la società di consulenza. Nel frattempo abbiamo creato un gruppo omogeneo di dodici o tredici persone, che ogni anno per tre giorni si recano in un luogo sperduto, senza cellulari e guardie del corpo al seguito. Di giorno si cammina e si arrampica, di sera in rifugio discutiamo di grandi temi. Per esempio della disoccupazione, oppure della globalizzazione. Io imparo un sacco di cose e mi stupisco sempre per i punti di vista controversi. L’anno scorso mi hanno chiesto tutti di vedere le foto – i giornali avevano già parlato di Messner e delle foto dello yeti.

Il legame con questi grandi manager è forse dovuto ai corsi per top manager che organizza?

No, non sono corsi per manager. Tengo conferenze, di conseguenza – lo ammetto – vengo considerato uno degli oratori motivazionali di maggiore successo. Ci tengo comunque a dire che Mercedes non mi ha mai invitato; ho tenuto un paio di conferenze in McKinsey, e ho appena finito di prepararne una per Allianz.

Cosa andrà a raccontare agli assicuratori?

Volevano avere da me un nuovo approccio al tema del risk management. Racconterò delle grandi situazioni di rischio di questo secolo, nelle zone più selvagge della Terra: Artide, Antartide, ma anche la tragedia dell’Everest del 1996. A quel punto i manager si domandano come si sarebbero comportati o come affronterebbero una situazione analoga in ambito aziendale.

A proposito di rischio: nel suo penultimo libro Salvate le Alpi lei si scaglia contro il turismo di massa in alta montagna e pretende la conservazione di zone di pericolo. Lo pensa veramente?

Le pongo questa domanda: abbiamo forse noi il diritto di distruggere questo mondo ancora intatto, e questo solo perché lo desiderano le masse? Nessuno è obbligato a camminare in montagna. Se posso arricchirmi interiormente, salgo solo con i miei dubbi e le mie paure. Ma come può accadere qualcosa dentro di me se tutto è tracciato e attrezzato, e se in caso d’incidente posso chiamare l’elicottero col cellulare? La parete nord dell’Eiger non ha più nulla di mitico da quando ogni anno migliaia di persone vanno lì ad arrampicare. Questi assalti in massa privano le montagne della loro forza.

Non si potrebbe interpretare questo fenomeno in senso positivo, come una sorta di democratizzazione?

Un secolo e mezzo fa i club alpini hanno scritto nei loro statuti: «Nostro compito è esplorare i territori alpini e renderli accessibili a chiunque». Questo significa democratizzarli. Vent’anni fa i club alpini tedeschi – chapeau! – hanno cancellato questa espressione e hanno sottolineato che vanno tutelati i valori originari della montagna. Ma l’esplorazione è proseguita – e ha portato alla banalizzazione delle montagne. I club alpini decretano la morte di valori come la grandezza, la vastità, la magnificenza o il pericolo, che sono invece parte integrante dell’alpinismo.

Le sue parole hanno un tono per così dire elitario – e sembrano andare proprio nel senso che Rainer Amstädter, storico austriaco dello sport, nel suo Der Alpinismus, ha rinfacciato ai club alpini conniventi con il fascismo.

Concordo con Amstädter in quasi tutti i punti della sua critica ai club alpini – ma non quando descrive il pericolo come un valore nazista. È ovvio che i nazisti hanno decantato il pericolo, perché volevano preparare i loro ragazzi alla guerra. Ma se, usando un’immagine culinaria, verso questo valore come una «salsa nazista» sulle montagne, le rovino. In questo Amstädter commette un errore, sulla scia del quale i club alpini si sentono autorizzati a dire: «In montagna non devono crearsi situazioni pericolose». Ma a quel punto la montagna non è più montagna, è solo un inganno. L’Everest è tappezzato di tende e corde fisse, depositi di bombole e possibilità di comunicazione. L’aspetto è quello di un parco avventura – solo un po’ più impegnativo e più freddo.

Il best seller di Jon Krakauer, Aria sottile, sulla tragedia del 1996 sull’Everest che portò alla morte di sei alpinisti, mi pare abbia chiarito molti aspetti in questo senso.

È un libro senz’altro fantastico, ed entrambi abbiamo sperato che potesse contribuire a migliorare l’alpinismo d’alta quota. Ma le cose sono solo peggiorate. Ormai c’è chi si reca lì solo per vedere i luoghi dove sono morti quegli alpinisti. Nell’ultima primavera sono salite sulla vetta dell’Everest centodiciotto persone, più che negli anni precedenti. Nei venticinque anni successivi alla «prima» del 1953 sono saliti in vetta una sessantina di alpinisti – credo di essere stato il sessantunesimo. Questo significa che la montagna si è ridotta a un centesimo della sua dimensione e difficoltà, perché in ogni punto tutto è preparato. Ma se si presenta un problema anche piccolo, è una catastrofe. E succederà senz’altro, con decine di vittime.

Il suo prossimo compleanno sarà il cinquantacinquesimo. Possiamo dire che un po’ alla volta anche lei sta diventando vecchio per tutti questi strapazzi fisici?

C’è ancora un’avventura che vorrei realizzare: la storia del Polo Nord, che finora ho fallito. Non mi rimane molto tempo. E poi adesso ci sono anche i bambini. Il Polo Nord ce l’ho in testa, lo ammetto. È come se non avessi passato un esame, sapendo che, almeno in teoria, era alla mia portata. Ma le paure aumentano di anno in anno.

Cosa prevede ancora per il suo futuro, a parte tenere conferenze e scrivere libri?

Mi diverte moltissimo occuparmi dei bambini – adesso finalmente ho il tempo di farlo.

In un’intervista recente lei ha dichiarato di essere diventato molto piccolo e attaccabile, e che si starebbe allontanando sempre di più da tutti...

In effetti – tanto per citare il cantante austriaco Hubert von Goisern – sono «lontano, molto lontano». Lo ammiro molto, fra parentesi, anche se non l’ho mai conosciuto di persona. Gli invidiosi possono essere contenti: sono diventato piccolo piccolo.

Non le sembra di esagerare con l’understatement?

No, non è così. Mi sono spinto troppo in là. Oggi il mio «sogno» è di ritirarmi da qualche parte in una caverna in montagna, a meditare, scrivere e leggere. Ma non posso ancora permettermelo, perché i bambini sono troppo piccoli e devo portare a termine le mie cose: per esempio la realizzazione del museo sulle Dolomiti e le ricerche per un paio di libri. In modo da avere poi tutto a disposizione nella caverna, per terminarne la stesura. Molto lontano, su in montagna, dove potrò trovare la tranquillità.

(Falter, 44/98)

 

 

La stampa ha reagito alla «rivelazione dello yeti» in maniera negativa, se non beffarda. Che esperienze ha raccolto nel corso del suo viaggio di conferenze?

I lettori e gli spettatori che vengono alle conferenze sono entusiasti. Capiscono la storia. In questo caso il pubblico delle conferenze è meno numeroso, e questo dipende dal fatto che le mie conoscenze sono state interpretate in maniera erronea. La stampa ha tentato di mettere in ridicolo la mia scoperta. In questo modo non ha reso un buon servizio nemmeno a se stessa.

Quali sono le sue scoperte sullo «yeti»?

Prima di tutto di tipo zoologico e mitologico. Ho dato una scossa all’immagine dello yeti in Occidente. Con il mio libro voglio chiarire che alla leggenda dello yeti, così come viene raccontata in Himalaya, corrisponde proprio l’orso tibetano, come aspetto, comportamento, abitudini nutrizionali. In Asia il concetto di «yeti» era sconosciuto, l’animale corrispondente aveva una connotazione mitologica. In Occidente non abbiamo creduto alla storia, oppure abbiamo nutrito speranze eccessive. La curiosità degli occidentali derivava dalla possibilità che lo yeti chiarisse la questione dell’evoluzione umana. Negli anni Trenta i nazisti inviarono spedizioni in Himalaya perché interpretarono l’«uomo delle nevi» come un proto-germano, capace di resistere al freddo, e avrebbero voluto mostrarlo al popolo anche per questo motivo. L’immagine è ufficialmente sparita – nessuno pensa più a Heinrich Himmler che usa il termine «uomo delle nevi» –, ma in sostanza è questa la rappresentazione che ci si aspettava anche da me. I miei critici, evidentemente, erano interessati alla speranza inconscia di molti che l’uomo non derivi dalla scimmia. Il desiderio che fra regno animale e regno umano si sia verificato un salto genetico è all’origine del mito dello yeti. Ma nessuno ha ancora commentato queste affermazioni centrali nel libro.

Come ha proceduto nel corso della sua ricerca?

Prima ho dovuto estrapolare la leggenda dai racconti tramandati, per farli collimare, pezzo per pezzo, con l’animale. Poi ho dovuto mostrare l’ambiente selvaggio e ostile, senza il quale lo yeti non avrebbe senso. La ricerca delle tracce è stata molto complessa a causa dei radicali cambiamenti politici avvenuti in Tibet negli ultimi cinquant’anni. Perciò illustro un quadro del Tibet di oggi – politico, economico, ambientale – e racconto il rapporto delle persone con il loro mondo. Ma in Europa porto un’immagine del Tibet attuale, lontana dalla visione di una sorta di Shangri-la nascosto, di regno occulto. Il Tibet di Heinrich Harrer oggi non esiste più, così come il Tibet descritto negli anni Trenta dallo zoologo Ernst Schäfer come oasi di tutela delle specie.

Quali sono i suoi interessi?

Cosa intende per interessi? Mi interessava chiarire. Sono mosso solo dalla curiosità. Quando qualcuno ha cominciato ad affermare che non sarebbe stato possibile salire l’Everest senza bombole, mi sono detto: chi può postulare una cosa simile? Proviamoci, e vedremo se è possibile o meno. Questa è stata la mia reazione. Per quanto concerne lo yeti: un giorno ho visto un essere apparentemente simile alla creatura fantastica di cui mi raccontavano gli sherpa. Quindi doveva esistere un nesso vivente con la leggenda dello yeti, un legame zoologico. Così ho intrapreso delle ricerche sul posto e ho scoperto dove vivono questi animali, li ho osservati e ho confrontato ciò che concordava e ciò che si discostava dalle storie tramandate, nell’aspetto e nel comportamento. Ho letto storie sullo yeti, da Alessandro Magno a oggi, e tutte concordano con la mia soluzione. Quando, nella sua Naturalis historia, afferma che creature mostruose lanciano all’indietro frammenti di pietra con il braccio pendente e la mano non tesa, Plinio fa riferimento a un animale che scava. Era solo necessario leggere con cura ed essere aperti a risposte inattese, senza pregiudizi. Nella mia vita ho imparato a evitare i pregiudizi. In fondo non è stato così difficile chiarire la questione dello yeti, bastava avere il coraggio di «andare controcorrente».

(buchjournal.de, 1999)

Il mito della montagna

La gente mi identifica con la montagna, con i deserti. È naturale, perché ho vissuto molte avventure e ormai sono la rappresentazione vivente dell’«agire al limite».

Spesso durante le mie imprese ho rischiato seriamente di lasciarci la pelle. Ma malgrado ciò non aspiro al ruolo di eroe. Se non fossi una persona assolutamente normale, con i suoi dubbi e le sue debolezze, nella solitudine del deserto e delle vette non avrei imparato nulla. Anzi, probabilmente se non mi fossi mosso con la necessaria prudenza, se non avessi provato paura, sarei certamente morto. Quindi non sono né un eroe né un mito. Nel corso della mia vita avventurosa ho attribuito un significato sempre più importante a valori come il silenzio, la solitudine, la perfezione della natura.

Il ghiaccio dell’Antartide, la notte polare, la vastità del Gobi mi hanno permesso di imparare il rispetto per ciò che sta oltre la nostra capacità di percezione. Nei momenti migliori della mia vita mi sento parte di questo «altro» – e come d’incanto tutti i dubbi si risolvono all’istante. E quando mi impegno in modo deciso in difesa dell’integrità degli habitat naturali, è perché so che sono necessari all’uomo.

REINHOLD MESSNER: L’UOMO CHE SI È ARRICCHITO CON L’AVVENTURA

Ogni romanzo giallo vive della tensione, del rischio affrontato dal protagonista. Alle sue imprese non manca forse questo elemento di stimolo? Reinhold Messner è davvero infallibile?

Non sono certo infallibile. Però non sono ancora andato all’altro mondo.

Nessuno intende rinfacciarle di non essere ancora scomparso in un crepaccio...

... una volta comunque ci sono finito. Ma ho avuto fortuna. Sono un tipo prudente. Una vera Vergine – dal punto di vista astrologico. Un individuo pauroso. Altrimenti sarei morto già da un pezzo.

Fosse andata così, lei oggi sarebbe un eroe immortale, un mito.

Ormai sono troppo vecchio per diventare un eroe.

Cosa la porta ad avvicinarsi di continuo al limite? Ci descriva la sua spinta interiore.

Non è certo l’interesse economico. Le mie spedizioni sono molto costose. Guadagnerei decisamente di più se restassi a casa. La motivazione principale sta in un desiderio irrefrenabile, del tutto simile a una dipendenza, di avvicinarmi di continuo al mio limite: a vent’anni sono state le pareti dolomitiche, verticali. A trenta mi interessavano solo gli ottomila. Ora sono acqua passata. Ma prima di partire per l’Antartide non dormivo per l’eccitazione, proprio come quando ero bambino.

La sua compagna ha paura. Il mondo scuote la testa di fronte ai suoi voli pindarici e i suoi eccessi. È così?

Mia moglie non ha paura. Ma se mi dicesse: non lo sopporto più; sono nervosa; non voglio più restare sola per tre mesi – allora le direi: io lo faccio lo stesso. Altrimenti non sarei più io, soffrirei. Non sono un pantofolaio. In questo caso, la mia compagna non mi riconoscerebbe più. Affronto le cose che faccio come un indemoniato.

Se esistesse un apparecchio in grado di registrare i pensieri, potremmo ascoltare le sue riflessioni nella solitudine dell’Antartide. Cos’è successo dentro di lei in quei momenti?

In effetti avevo con me un piccolo registratore che si avvia quando parlo e si spegne automaticamente. Sapevo che altrimenti non sarei mai stato in grado di riportare a casa le mie riflessioni. In Antartide ho lavorato molto con la fantasia.

Su cosa ha fantasticato?

Non esiste uno schema prefissato: magari penso per tre minuti a mia moglie e poi per altri tre a un’amica; poi, diciamo, cinque minuti a mio figlio e tre minuti all’albero che ho visto da qualche parte quando ero bambino. Ogni giorno devo occuparmi di un solo argomento. E allora i pensieri cominciano a fluire da soli.

Ad alta voce?

In parte, sì. Parlo un po’ fra me e me. Per questo motivo nessuno deve mai camminarmi immediatamente davanti o dietro. Ho paura che mi rubi i pensieri. Le idee migliori – il titolo di un libro o un nuovo progetto – mi vengono mentre cammino. In Antartide ho sviluppato nei minimi dettagli il progetto di un museo.

Qualcuno potrebbe vedere nel suo comportamento un modo di equipararsi alla divinità. Non teme, svelando gli ultimi misteri della natura, di attirarsi la vendetta della divinità?

Non sono blasfemo. Al contrario. Non ho mai svelato i tabu della natura, ma solo costruzioni fantastiche dell’uomo. È l’uomo che si è messo in mente che fosse impossibile scalare l’Everest senza bombole. Non sono nemmeno un distruttore di miti. Io creo i miti. Il mio comportamento è una sorta di «preghiera nella natura». Quando interpreto la natura come divinità oppure la paragono a una forza divina, compio un atto di devozione. È come se andassi in chiesa.

Lei prende e offre. Dal punto di vista finanziario cosa le hanno fruttato le sue avventure?

È facile stimare il mio patrimonio. È sotto gli occhi di tutti. Castel Juval vale sicuramente qualche milione di marchi. Io l’ho pagato centomila marchi. Poi ho speso circa duecentomila marchi per la ristrutturazione. Il progetto è mio. In fondo è quello che ho studiato.

Nella biblioteca di Castel Juval. Non mi sono mai accontentato dell’azione.

Nella biblioteca di Castel Juval. Non mi sono mai accontentato dell’azione.

Mi sembra che la dote della rinuncia le sia del tutto sconosciuta. Riesce ad avvicinarsi alle avventure altrui? Dai loro racconti, oppure da un libro o un film? O deve vivere tutto in prima persona? In questo caso mi sentirei di compatirla.

Bella domanda. Ho venti libri di Sven Hedin nella mia biblioteca. Non li leggo. Ma apprezzo molto Christoph Ransmayr, autore di Gli orrori dei ghiacci e delle tenebre. Quando lo leggo capisco una cosa: questo sì che sa scrivere. Per me leggere un libro di Ransmayr è come vivere un’avventura in prima persona. Questo è il talento dello scrittore che riesce a trascinare il lettore.

Il suo ruolo di «avventuriero» l’ha fatta restare bambino?

Credo di sì. Quello che faccio è un gioco da bambini. E per me è importante. Che si diriga una banca o si costruisca una Mercedes – si tratta comunque di un gioco. Se uno non si diverte è meglio che faccia altro. Non so se sia più importante essere a capo della Deutsche Bank. Per me è importante andare a piedi al Polo.

La rende malinconico, o depresso, pensare che lei, l’«avventuriero», magari morirà a ottant’anni di una morte assolutamente naturale?

Penso che saprò affrontare il salto dall’avventura alla sfida spirituale. Se così sarà, potrei anche diventare molto vecchio senza soffrirne troppo.

(Quick, settembre 1990)

MI RICONOSCO QUANDO SONO AL LIMITE

Le sofferenze possono aumentare la consapevolezza del vivere; le procurano anche piacere?

Non sono un amante della sofferenza. Piuttosto sono un ipocondriaco, come chiunque agisca nell’ambito dell’estremo. Qualunque sportivo molto impegnato diventa ipocondriaco: al minimo sintomo, teme di essersi ammalato. Ma lo riconosco senza problemi. Non sono bravo a sopportare la sofferenza; non la cerco e non mi serve. Se però fa parte della spedizione, trovo un equilibrio. Se posso, cerco comunque di evitarla.

In mancanza di una fede migliore lei crede fermamente in se stesso, come dimostrano tutte le sue imprese. Ma questo non può essere sufficiente perché lei continui a mantenere questo atteggiamento di gioco con la morte, alla quale comunque sfugge. Me lo confessi: di cosa si tratta veramente?

Non sono un uomo di fede. Io non credo, voglio vedere e controllare. E già ora cerco di far capire ai miei figli di non accettare nulla che non possano verificare di persona. In fondo mi sembra di essere diventato adulto nel momento in cui ho cominciato a non credere a quello che mi raccontavano gli insegnanti, e ho deciso di verificare le cose direttamente. Nello stesso modo mi sono comportato con mio padre: a sedici anni ho smesso di accettare passivamente quello che mi diceva. Il mio modo di procedere è: disciplina del rischio, elaborazione dei fallimenti, piccoli passi...

Ma questi elementi da soli non possono certo bastare nelle sue imprese al limite, incredibili e sprezzanti della morte. Non entra in gioco anche una sorta di provvidenza divina?

La questione di Dio è ancora aperta. Ho grande rispetto per Gesù Cristo, perché era un visionario che ragionava in senso politico-sociale e forse addirittura ecologico. Avremmo bisogno di gente del genere oggi. Non ho nulla contro la Bibbia, un libro ragionevole, se non la si prende troppo sul serio. «... siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra...» oppure «gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi...» – affermazioni senza senso. Ma che hanno avuto un seguito. Noi in effetti ci comportiamo come se fossimo il coronamento della creazione, sottomettiamo ogni cosa. E questa è la nostra fine.

Non ha ancora risposto alla mia domanda.

In effetti, non escludo Dio dalla mia immagine del mondo, né ve lo comprendo. Ma non uso la parola «credere». Se definiamo Dio il cosmo al quale apparteniamo – come Goethe –, vuol dire che lo accettiamo come una forza divina. Come le leggi della natura, alle quali mi sottometto. Col cuore e col cervello. Le leggi umane invece sono leggi basse. Sono solo casuali. Posso accettarle solo sul piano della ragione.

Cosa la avvince tanto delle visioni panteistiche di Goethe?

Mi sento molto vicino al suo pensiero. Attraverso l’azione posso capire tutto. Goethe dice: In principio era l’azione! Il Vangelo recita: In principio era la parola. Tutto è divino. Questo è il mio atteggiamento di vita. Che è vicino al buddhismo e a molte altre forme religiose originarie. In questo senso ho una visione religiosa ateistica. Il cosmo, la flora, la fauna e l’uomo sono ugualmente importanti.

Lei cerca il paradiso nelle privazioni, nella solitudine cerca consolazione per il vacuo mondo delle norme borghesi, che tuttavia le permette di realizzare le sue spedizioni...

Sì, questo è vero. Il mio è un gioco. Che però non deve essere giudicato superficialmente. L’uomo assume l’atteggiamento più serio proprio quando gioca. Ci hanno tolto l’abitudine di giocare. Perché dobbiamo guadagnarci il pane con il sudore della fronte. E così torniamo alla religione cristiana.

Già Schiller aveva capito che l’uomo è veramente uomo solo nel gioco...

Giusto, e il lavoro e la creazione sono la cosa più bella che possiamo fare. Quindi il duro lavoro e il sudore della fronte non hanno senso. Quando sono a casa mia e scrivo un libro, quella è la mia vita, e quando sono in giro, lo è altrettanto. Entrambe le cose sono vacanza, recupero delle forze, consumo di energia, spossatezza. Non faccio distinzione fra hobby, tempo libero e lavoro.

E per quanto riguarda il finanziamento delle sue spedizioni?

Ho imparato molto da Joseph Beuys. La sua filosofia, che condivido, sosteneva che se non siamo in grado di prendere i soldi da chi li ha, per indicare un altro modo di vivere, allora significa che non si può modificare il mondo. Guadagno soldi, scrivo libri, vendo la mia immagine, la mia credibilità, che a volte ne patisce. Ma in questo modo costruisco la mia vita. Non mi sposterei mai, neanche di una virgola, dalle mie convinzioni, se dovessi assecondare uno sponsor. Se mi volete mi dovete prendere così come sono.

A volte lei si è esposto alle forze più elementari della natura senza l’ausilio di alcun mezzo derivato dal mondo civilizzato. In Himalaya, in Antartide, nel deserto cinese del Takla Makan. Ci racconti qualcosa dei cambiamenti che si avvertono quando si torna indietro, sia sul piano psichico che su quello fisico. Certamente non si sentirà uguale a prima...

Quando torno dalle spedizioni più difficili sono un’altra persona, è vero. Ma quasi sempre carico d’energia e con le idee più chiare. Quando sto via perdo magari quindici chili e mi sento veramente molto «pericoloso» quando torno indietro. Riesco a pensare meglio, sono più concentrato. Poi, con il tempo, torno a fare tantissimi progetti. Perciò riparto e mi riprendo da questa pressione.

Io penso che solo nelle situazioni estreme l’uomo possa rendersi conto dei suoi limiti e delle sue potenzialità. È d’accordo?

Sì, l’uomo riesce a vedersi in maniera più chiara, non si nasconde più davanti a se stesso, soprattutto riconosce le proprie carenze. Vedendomi molti pensano: ecco, questo è uno che le cose le sa e ha concluso parecchio. Sbagliato. Di me stesso ho sperimentato soprattutto le carenze, le debolezze, i dubbi e le paure. Forse sono superiore ad altri per i tanti fallimenti con cui mi sono dovuto confrontare. Spesso non ce l’ho fatta e le sconfitte insegnano più di qualunque altra cosa. Procedo per tentativi ed errori. Se non avessi mai sperimentato fallimenti e debolezze, non avrei nulla da comunicare agli altri.

Questo lo affermano più di trenta dei suoi libri. Nel frattempo, che lei l’abbia voluto o meno, la sua vita è diventata pubblica e viene valutata in modi molto differenti. Come può un individualista come lei accettare questo aspetto?

Senza troppe difficoltà. L’immagine conta poco. Io ho la mia identità. E mi sforzo di vivere la mia vita. L’immagine viene creata dalla gente. Si scrivono e si dicono un sacco di cose. Se io fossi la mia immagine, mi sarei già ucciso. Ma per fortuna non è così. Posso vendere la mia immagine, ma non me stesso.

Le sue scalate e le sue traversate si svolgono in situazioni estreme, mostrano la transitorietà e l’inconsistenza del desiderio di sfuggire alle carovane di automobili e agli ingranaggi dell’industria, di voler visitare, anche per poco, ambienti naturali incontaminati...

Questa è una buona sintesi di quello che penso. Se ci confrontiamo con gli animali le nostre possibilità appaiono piuttosto modeste. La maggior parte della gente ignora ciò di cui sono capaci gli animali. Un orso polare potrebbe attraversare senza alcun problema tutta l’Artide. Si nutre grazie all’acqua, non ha bisogno né di slitta né, tanto meno, di tenda, non gli serve alcuna logistica. Oppure i pinguini, che possono sopravvivere in Antartide. Noi abbiamo certamente il vantaggio dell’intelligenza e della conoscenza di noi stessi, che tuttavia ci aiutano ben poco a sopravvivere in situazioni avverse.

Cosa intende dire?

L’uomo si è costruito una civiltà gradevole in cui vivere. Ma sempre a spese degli altri, della vegetazione, degli animali, della natura in genere. Vedremo per quanto ancora riusciremo ad andare avanti così. Sono scettico riguardo alla sopravvivenza dell’uomo. Mi sembra che stiamo commettendo un suicidio di massa.

Sulla base di queste premesse, qual è la sua filosofia di vita?

Posso vivere con un occhio al futuro. Quando penso a Castel Juval, mi auguro che possa sopravvivere per alcune generazioni, come opera d’arte completa. Ciò nonostante, l’umanità sta andando a fondo. Penso che la Terra, al contrario, sopravvivrà e si purificherà. Ne sono certo. Più uomini ci sono, più diventano sciocchi, di conseguenza aumenta il loro potenziale autodistruttivo. Il singolo è sempre in guardia. Ma nella massa commettiamo tutti gli stessi errori.

Per quanto tempo il suo fisico sosterrà certe fatiche?

In ambienti estremi ancora cinque anni, al massimo. Non mi resta altro tempo. Per questo motivo ho fretta. È l’unica cosa che mi mette ansia: avere poco tempo a disposizione. Se riuscissi a raggiungere il Polo Nord al primo o secondo tentativo, avrei una chance. Altrimenti dovrò rinunciare. A quel punto mi sposterei lentamente su un piano più spirituale. Potrei ancora andare in alta montagna, e traversare deserti, perché entrambe le cose richiedono soprattutto energie psichiche. Ma alla fine mi ritirerò a scrivere. Ho tantissime idee.

Il chorten all’ingresso di Castel Juval.

Il chorten all’ingresso di Castel Juval.

So che lei pensa solo a se stesso. Tuttavia, cosa risponderebbe se le chiedessero un parere su come arginare la degenerazione della moderna società industriale?

È difficile. Temo non sia più possibile venirne fuori. Temo non sia possibile, per esempio, sottrarci alla manipolazione genetica. Diversamente non saremo in grado di fornire il cibo alle generazioni dei prossimi decenni. Ma vista la ricchezza dei paesi occidentali, si potrebbe pensare a una redistribuzione del lavoro. Meno lavoro, meno guadagni, più tempo per ognuno, per raccogliere energie ed esprimersi in modo diverso e creativo. Il mondo del lavoro che abbiamo creato è fasullo. E la settimana lavorativa di tre giorni per tutti non rappresenterebbe certo un problema con le tecnologie di cui disponiamo in Europa occidentale. In Oriente la situazione è diversa. Ma in Occidente, se vogliamo salvarci, è necessario che ognuno rinunci a una parte dei propri guadagni. A cosa servono due auto, e un televisore in ogni stanza? Il nostro problema è che ci siamo riempiti di oggetti, di informazioni, del cosiddetto intrattenimento, fino a soffocarne. La crisi dell’Occidente è dovuta alla sazietà.

Lei si divide fra il suo castello di Juval, in Alto Adige, Monaco di Baviera e Kathmandu. Pensa che la spiritualità dei popoli dell’Himalaya potrebbe donare più senso alla quotidianità di noi europei?

Quelle popolazioni vivono in maniera totalmente diversa, e rispetto a noi hanno un grandissimo vantaggio: non hanno mai sezionato la natura. La scienza invece ha scomposto la natura, ha cercato di scomporla e ridurla. Un errore fatale. Non ho nulla contro la scienza. Ma quando arriva a smembrare l’immagine globale del singolo tanto da costringere anche lui a incasellare tutto, dalla malattia alla salute – commette un errore. Gli asiatici hanno una concezione globale del mondo. Per questo motivo penso che la cultura asiatica sopravvivrà più a lungo della nostra.

(Lausitzer Rundschau, dicembre 1993)

«LAGGIÙ È LA MIA TOMBA»

Signor Messner, ha un’aria molto pallida.

È logico, sono troppo impegnato. La mia vita è una corsa continua. Scrivere libri, tenere conferenze, Bruxelles e poi Strasburgo, dove vado di continuo.

E dove da alcuni mesi rappresenta i Verdi italiani al Parlamento europeo.

Sì, ma il mio ideale di vita è un altro. Non ho lottato per ottenere questo seggio al Parlamento europeo, mi sono rifiutato due volte di candidarmi per i Verdi, ho sempre detto «no», e se non fosse stato per mia moglie...

... giù in valle la prendono in giro: dicono che è stata la sua giovane moglie a domarla.

Come, scusi? Lasciamo perdere! Certo, se non mi avesse detto: «E fallo, una buona volta! Continui a parlare di politica, datti da fare, allora! Oppure non te la senti?», non ci avrei proprio pensato, magari l’avrei fatto più avanti, intorno ai sessant’anni. Quando ho vinto le elezioni ho capito che non era poi così importante. Per la politica ho dovuto rinunciare a tante cose.

Forse sta proprio qui il problema: a Bruxelles Reinhold Messner non è che uno dei tanti, uno fra seicento parlamentari.

Certo, sono solo una parte di un meccanismo gigantesco. Comunque, che lei ci creda o no, sono capace di sottomettermi. E a Bruxelles, più che a Berlino, Roma, Londra o Parigi, vengono gettate le basi per il prossimo millennio, ed è avvincente esserci.

Lei è orgoglioso di tutti i risultati che ha raggiunto.

La cosa mi lascia indifferente.

Eppure è una bella sensazione, da figlio di genitori poveri...

Si continua a descrivere la nostra come una vita di stenti. Io non ho mai avuto la sensazione che la nostra fosse un’esistenza difficile, che fossimo dei poveracci; certo, le giacche si facevano con i sacchi delle patate. Ma era abbastanza normale. Naturalmente mi domando come siano riusciti i miei genitori a tirare avanti con nove figli. Vivevamo in una casa di cento metri quadri, ma ci stavamo comunque molto stretti. C’era lo studiolo di mio padre, e un po’ di spazio era destinato alle galline che covavano.

Ora invece domina la valle, a Juval, in un castello tutto suo...

Ma va là, non è quello di cui ho bisogno! È solo una responsabilità, la collina, il castello, un vincolo bello e buono. Mio padre non ci è mai voluto venire quassù, diceva che era troppo grande. Se potessi decidere solo per me stesso ci avrei rinunciato già da tempo. Ma non posso farlo, da quando ho dei figli e una moglie che mi ripete: «Di qui non ci muoviamo più».

Castel Juval. La parte superiore, non restaurata, con la torre delle «montagne sacre».

Castel Juval. La parte superiore, non restaurata, con la torre delle «montagne sacre».

E perché dovrebbe?

Perché sono un creativo. Voglio creare opere d’arte globali, e non mi dispiacerebbe riprendere in mano il piccone e costruire qualcosa di nuovo. È una cosa che mi stimola, e per questo motivo sto costruendo un museo sul monte Rite.

Un castello gigantesco, con vista sul ghiacciaio e giù verso la val Senales, sui vigneti.

Ho avuto la fortuna di poter acquistare questa collina. All’epoca i giornali si scatenarono a dire che dovevo essere impazzito: tutti quei soldi per un mucchio di pietre rotte. Sono riuscito a ottenere il castello grazie al mio impegno politico: il proprietario precedente era il fondatore della Südtiroler Volkspartei...

... che da cinquant’anni è il partito dominante nella sua regione.

Sì, purtroppo, ma mi è stato molto vicino sulla questione dei cosiddetti «Dableiber»...

Cioè uno di quelli che durante la Seconda guerra mondiale si sono rifiutati di trasferirsi nel Reich.

Sì, nel 1939 l’ottantasei per cento degli altoatesini votò a favore del trasferimento nel Reich. Volevano abbandonare le loro terre, la loro patria, poi molti di loro sono caduti in Russia. Ma per molto tempo non si è potuto parlare di questa storia, e ancora oggi non è un argomento del quale si discorra serenamente. A molti la verità storica non piace. Si nascondono dietro a bugie ideologiche. Nostro padre ci ha sempre vietato di parlarne. La mamma diceva: «Stai buono, sennò scoppia la guerra!» Mio padre era favorevole al trasferimento. E io ho continuato a rinfacciargli concetti come il patriottismo, la lingua, la tradizione. Ma doveva esserci qualcosa di sbagliato, se tutti erano disposti ad andarsene! E poi per andare da quello là – da Hitler! E visto che continuo a mettere il dito nella piaga, qui mi considerano una Unperson, una «non persona».

Ah!

Non importa, un capro espiatorio ci vuole, lo accetto, sono una specie di Michael Kohlhaas. Ma da quando mi sono dedicato alla politica, le cose sono molto peggiorate: adesso la mia immagine è decisamente negativa. C’è un giornale qui...

... la «Dolomiten-Zeitung».

... che detiene il monopolio. La gente ripete a vanvera quello si scrive in questo giornale. L’intento del proprietario è quello di tagliarmi fuori, da vent’anni. Ma non ce la fa.

Forse lei si prenda troppo sul serio?

No, è così e basta. Non volevo entrare in politica. Mi hanno pregato e scongiurato di farlo. E cosa ne ho ricavato? Ho meno tempo di prima, e ci rimetto pure dei soldi. A causa della politica devo rinunciare a molte conferenze.

Quindi contano i soldi per lei?

Non me ne importa niente. Assolutamente niente. Quello cui tengo è sperimentare le emozioni della vita. Nient’altro.

Molti altoatesini dicono: Messner è entrato in politica...

... per raggiunti limiti d’età, per i soldi, per la pensione. Non hanno capito. Io non ho alcuna necessità di lavorare: Juval è organizzato in modo che la mia famiglia potrebbe ritirarsi lì in qualunque momento e viverci senza problemi. Siamo autonomi. Se domani andrò all’altro mondo, se avrò un incidente in montagna – settimana prossima vado sulle Montagne Rocciose ad arrampicare e girare un film –, qui la mia famiglia se la caverà tranquillamente. La locanda laggiù è di mia proprietà, pratichiamo l’agricoltura biologica, inoltre ho dato in affitto una vigna, tre ettari e mezzo, produciamo ventimila bottiglie all’anno.

Nella famosa guida del Gambero Rosso si tessono le lodi del suo vino.

Già! Non siamo gli unici della val Venosta a essere citati dal Gambero Rosso! Ne siamo molto orgogliosi. Del vino si occupa Martin Aurich, che viene da Berlino. Ho comperato la cascina, c’era qualche albero di mele, era tutto un pasticcio, poi è arrivato questo giovane berlinese e ha detto: «Qui bisogna dedicarsi al vino!» Ho pensato che desse i numeri, mi sembrava impossibile. Abbiamo fatto una scommessa: io gli ho costruito la cantina e un appartamento, e per quindici anni lui mi dà, per l’affitto, trecento bottiglie di vino.

Si sente altruista?

No, ma la cosa che mi rende felice è costruire le cose. Mi fa molto arrabbiare sentire che in giro si dice che io sarei avaro. Non getto il denaro dalla finestra, e quando la gente arriva e mi supplica, dicendomi che vorrebbe fare questo e quello con i miei soldi, allora rispondo: no, non ci sto.

Ha paura che la sfruttino.

Be’, lo fanno costantemente! Lei non ha idea! Gente che è scesa in strada contro di me, che ha spinto perché nessuno mi votasse, adesso mi chiama per dirmi: «Signor Messner, venga! Signor Messner, per favore, scenda in campo per noi! Noi siamo dalla sua parte, signor Messner! Signor Messner! Signor Messner!»

Ma che bello: come se senza di lei non si muovesse niente.

Eh sì, proprio così!

Qualche anno fa lei ha dichiarato: «Io sono il Re Sole!»

Lo ero. Ma adesso non più. Ho perso questo atteggiamento da giovane Sigfrido. Una volta mi ritenevo immortale, io e mio fratello eravamo convinti che non saremmo mai morti. Mai! Abbiamo fatto le cose più folli, e qualcuno dei nostri partner ha perso la vita, ma a noi non è mai successo niente. E un giorno, all’improvviso, se n’è andato anche mio fratello. Sentivo che avrei fatto la stessa fine, non c’era altra via d’uscita. Quella volta sul Nanga Parbat ho solo avuto fortuna. Da allora una cosa mi è chiara: anch’io sono mortale. Da allora vivo obbedendo al motto: mi impegno solo per le cose che mi fa piacere fare. Quello che conta non è ciò che ho, ma ciò che faccio. Mi creda, questa casa è un oggetto. Un’opera d’arte completa. Se avessi investito in azioni il denaro che ho destinato a questa casa sarei infinitamente più ricco.

Con il viticoltore Martin Aurich durante una degustazione.

Con il viticoltore Martin Aurich durante una degustazione.

Mi sembrava di aver capito che non fosse particolarmente attaccato al denaro.

Sì, ma mi serve per le mie attività, le mie spedizioni... Guardi là, dove sono appese le bandierine tibetane della preghiera. Una bella vista. Là c’è la mia tomba, un chorten tibetano, lì deporranno le mie ceneri, un bel punto.

Pensa mai alla morte?

Più di un tempo, del resto ho compiuto cinquantacinque anni. Oggi, quando organizzo una spedizione, cosa che sto facendo in questo momento, ho più paura di una volta.

E allora non si muova.

No, non è assolutamente possibile. La paura della morte, la sete di pericolo è la motivazione ultima – e il desiderio di sopravvivere: di ritornare da quel mondo nemico dell’uomo. Ritornare dall’Antartide, ritornare dall’Everest: questo è il bello. Darei qualsiasi cosa per rivivere quei momenti. Ma non mi piace ripetermi: ritornare dall’Everest per la seconda volta non dà la stessa sensazione. In Himalaya non posso fare più niente. I momenti veramente forti sono possibili solo se affronto l’ignoto.

Potrebbe combattere in una guerra.

No. Non intendo impiegare la mia creatività contro altri. Varco la soglia di un mondo ostile all’uomo, al quale mi espongo totalmente. E mi prendo tutte le responsabilità. Ecco perché credo che quanto si svolge oggi sull’Everest è una buffonata. Il cosiddetto fit-for-fun. Chi sale ossessionato dalla sicurezza non avrà mai successo, non troverà quello che cerca e desidera con tanta disperazione: l’esperienza dell’Everest, la fama che alpinisti come Hillary, o George L. Mallory, hanno regalato alla montagna...

... Mallory, che nel 1924 perse la vita sull’Everest.

Sì, io non ho avuto questa «fortuna». E i sostenitori del fit-for-fun puntano a questo tipo di «onorificenza», ma non la otterranno. Mentono a loro stessi.

Non la capisco.

No? Oggi salgono a frotte, è una buffonata. È una vacanza senza senso. Già seicento sono saliti in vetta – che senso ha ancora tutto questo? Solo una gran confusione, una pseudo-avventura, la fine.

Quest’estate, in diretta televisiva, è stata salita la nord dell’Eiger. Potevamo sentire il battito del cuore degli alpinisti, il loro respiro, la loro gioia.

È una sciocchezza totale. E pure noiosa. È alpinismo degli anni Cinquanta. Mi ha solo seccato molto che Stern abbia scritto che è la parete più difficile delle Alpi! Che stupidaggine. Lo era una volta, quarant’anni fa; oggi non rientra nemmeno fra le cinquecento pareti più impegnative delle Alpi. Perciò in televisione e su Stern questi chiacchieroni fanno molto rumore, e invece sono solo stupidaggini.

Solo perché l’idea di salire non è stata sua?

No. La vera impresa al limite vive del fatto che faccio mia una sfida e porto a termine qualcosa che fino a quel momento nessuno ha mai osato. Quindi non c’è un’organizzazione logistica. La situazione è veramente pericolosa. E io cerco di cavarmela. Vado a fondo con la mia barca? Mi arrendo alla mia infinita paura, ai dubbi? Alla fine tutto si riduce a un problema di tipo emotivo: so che, se riesco ad arrivare almeno a metà, una sensazione positiva mi aiuterà a essere più forte della morte. Se arrivo a metà, e poi in vetta, il successo mi riporterà giù.

Molti muoiono in discesa.

Per la maggior parte muoiono in discesa. O perché non hanno raggiunto la vetta, oppure perché sono sovraffaticati o semplicemente troppo vecchi.

Questo è anche il suo problema.

No. Per anni ho sofferto perché nella mia testa sapevo ancora perfettamente come affrontare una montagna. In seguito ho capito che non avrei mai saputo ritrovare le prese individuate dai fratelli Huber, attualmente i migliori arrampicatori al mondo. Per me le montagne diventano più grandi. Sono una sfida nuova. Che tuttavia non sono tenuto ad affrontare. Come alpinista mi sono tirato indietro e ora ho anche una scusa: faccio politica. Ma questa è solo una fase della vita. Sto lavorando al progetto di una spedizione, un grande progetto – ma non intendo parlarne adesso.

Raccontare storie la diverte, comunque?

Raccontare cose vere, sì, andare a fondo delle cose. Ma l’arte che mi è veramente congeniale è tenere conferenze, dal vivo, senza preparazione. Sono un buon oratore. Mentre parlo sono in grado di formulare i concetti in maniera rapida, è una dote che mi è sempre appartenuta, fin da bambino. Un tempo mio padre teneva conferenze in vari paesi, lo accompagnavo sempre e così mi sono abituato molto presto a raccontare storie davanti a un pubblico.

E dato che la cosa la diverte continua anche a scrivere libri?

No, scrivere è una tortura, ma è ciò cui tengo maggiormente. Anche se scrivere è l’attività meno redditizia, il lavoro pagato peggio, tagliare la legna conviene di più. Ma per me scrivere ha un ritorno sul piano emotivo. È un’attività che mi consente di giocare. Mi consente di dominare il mondo. Durante l’estate ho scritto un libro...

Si riferisce a La seconda morte di Mallory.

... sì, l’inglese che nel 1924 è scomparso sull’Everest e che è stato ritrovato il 1º maggio 1999, una mummia di ghiaccio. Ho scritto la sua storia in tre settimane, diciotto ore al giorno, non riuscivo a fermarmi, stavo lì nel mio studio, ho scritto a mano, come sempre, senza computer.

Il libro parla di lei.

Sono in molti a dirlo. Non è corretto. Non ho mai incontrato Mallory, ma posso dire che lo considero un amico. Mallory avrebbe scritto il libro esattamente come me. Lo conosco molto bene. Solo che lui è come l’Everest: il «più grande». Io non ho questa fortuna, perché io non sono morto sull’Everest, nel momento opportuno.

È questo l’elemento tragico della sua vita?

Provi un po’ a pensare chi sono io veramente. Sì, ho camminato accanto a Mallory. Sono stato Mallory, per tutto il tempo. Una notte mi sono svegliato con la sensazione: adesso ho capito perché quello là in alto è uscito dalla tenda alle sei di mattina. Voleva farlo, voleva andare, ed è andato troppo avanti, e naturalmente sarebbe tornato indietro, se fosse arrivato in vetta. Ho provato il gelo, la paura, e ho capito che la morte non era affatto tremenda. Che era piuttosto un momento salvifico. E sono sopravvissuto a questa morte.

(Tagesspiegel, dicembre 1999)

UNO FA TEATRO, L’ALTRO METTE IN SCENA SE STESSO.

Entrambi, per così dire camminano lungo una cresta affilata. Peter Radke, affetto da osteogenesi imperfetta,
e lo sportivo estremo Reinhold Messner

Signor Messner, riesce a immaginarsi una vita su una sedia a rotelle, senza i suoi ottomila?

RM: No. Inimmaginabile. Avere un handicap sarebbe per me la situazione più difficile da affrontare, più difficile di qualunque cosa abbia affrontato finora. Leggermente handicappato lo sono anch’io. Mi sono fracassato un calcagno e ho solo tre dita dei piedi intatte. Non sarebbe però corretto definire questi problemi un handicap. Quando invece vedo lei, signor Radke...

PR: Certo, stare sulla sedia a rotelle non è facile. Ma non mi sento handicappato in modo particolare. Si è handicappati quando si vorrebbe fare qualcosa che non si riesce a fare. A me non interessa salire un ottomila. Perciò non è rilevante sapere se sarei o meno in grado di farlo. Non mi interessa nemmeno arrivare ai limiti dell’esistenza, come fa lei. La sua è una vita da funambolo, perché non si spinge verso un limite qualunque, ma a un limite che non andrebbe assolutamente oltrepassato. A rischio della vita.

RM: Il problema non è la morte, ma la possibilità di morire. Per noi tutti la morte è un momento difficile. Vogliamo evitarla. Quindi la mia arte consiste nell’evitare la morte.

PR: È un gioco molto rischioso. Mi domando se è necessario essere buddhista per osare arrivare a questi limiti.

E perché mai?

PR: Come cristiano non sono autorizzato a mettere in gioco la mia vita così, come se niente fosse. Come ateo penso che non ci sia nulla nell’aldilà, quindi devo cercare di ottenere il massimo finché sono qui. Se però credo nella reincarnazione, questa mia vita attuale non è più così importante. Infatti potrò rivivere in altra forma.

RM: Io non sono buddhista. Piuttosto panteista. Natura e vita sono per me l’elemento «divino». Quando affronto una spedizione cerco di dare il massimo per sopravvivere. La sopravvivenza è uno degli istinti più forti. Più difficile è la mia impresa, più mi comporto in maniera istintiva e animalesca. È così che ritorno alle origini. A quel punto non vale più nessuna legge, né cristiana né giudaica né buddhista. L’unico aiuto importante è quello che serve per sopravvivere.

Nonostante tutto lei mette in gioco la sua vita.

RM: La vita è un gioco. Solo che io mi metto in gioco totalmente. Ma non prendo le cose alla leggera. Non butto via niente. Solo chi non ha una meta si uccide. Provi a spedire un aspirante suicida sull’Everest. Dopo due giorni non lo sarà più. Avrà imparato la gioia di vivere, perché avrà dovuto mettere in gioco la propria vita.

PR: Lei desidera tornare alle origini. Ma che probabilmente sono molto diverse da come se le immagina.

RM: Certo! Diventare uomo fa parte della mia spinta interiore, in realtà la meta è la via. Non la vetta, non il risultato.

PR: In teatro avviene la stessa cosa. Spesso sono più importanti le prove della rappresentazione. Si tratta di un processo creativo.

RM: Forse semplicemente mi interessa tornare indietro. Vivo in un mondo assolutamente ostile all’uomo. Sono esposto ai pericoli più terrificanti. Quindi vivo il rientro nel mondo civilizzato come una sorta di rinascita.

PR: Perché non se ne va nel deserto, e basta? Non è indispensabile arrivare ai confini del possibile!

RM: Se non mi avvicino a questo confine non posso tornare indietro veramente. Aver vissuto per un certo tempo come su un altro pianeta è e resta un’esperienza molto forte.

PR: Non voglio escludere a priori che anch’io un giorno metterò in gioco la mia vita. Non così, per il gusto del rischio. Bensì perché mi sta a cuore una cosa, tanto da arrivare a prendere questa decisione. Da questo punto di vista svolge un ruolo importante la responsabilità, responsabilità nei confronti degli altri, del mio pubblico. È ovvio che il teatro serve al mio divertimento. Ma è altrettanto chiaro che desidero trasmettere un messaggio.

Signor Radke, di recente lei ha subito una tracheotomia per essersi affaticato troppo in teatro.

PR: È stato all’inizio dell’anno. Avevo un contratto a Zurigo. Dopo l’ultima rappresentazione, all’improvviso non sono più riuscito a respirare. Per otto giorni mi hanno tenuto in coma farmacologico. Per tutto il tempo ho sofferto di allucinazioni. Certo, è stata un’esperienza al limite. Ma che non vorrei mai ripetere. È stato opprimente, una specie di incubo. Ma nemmeno quello che lei, signor Messner, vive alle alte quote, deve essere un’esperienza serena, immagino.

RM: Infatti, non c’è gioia in quei momenti. Tornare indietro, invece, è meraviglioso. Allora vale la pena di farsi carico di tutti gli aspetti sgradevoli, le preoccupazioni, le sofferenze e le paure.

PR: La sua impostazione è molto egocentrica. Mi domando se lei sia in grado, in assoluto, di assumersi la responsabilità per altri. Con il suo lavoro potrebbe costituire allo stesso modo un cattivo esempio e quindi mettere in pericolo la vita di altri.

RM: Ho sempre messo in guardia tutti da me stesso. Non posso aiutare chi non ascolta i miei consigli. A ogni modo non ritengo che la differenza fra noi sia così grande. Per lei il teatro è la sua forma espressiva. Lei porta questa arte alla perfezione estrema. E proprio questo ci rende simili. L’uomo autodeterminato, che dà il meglio e il tutto di sé, quindi l’artista, è il modello da seguire. Io vedo me stesso più come un artista che come uno sportivo.

PR: Ma un artista ha bisogno di un pubblico. Altrimenti lavora in un ambiente vuoto.

RM: Nella natura selvaggia non mi serve il pubblico. Vado in scena nella solitudine assoluta. Sull’Everest non c’era spazio per il pubblico, c’era solo l’infinito.

PR: Quando sto sul palcoscenico ho qualcosa da dire e ho piacere che qualcuno ascolti. Nella sua definizione di artista lei diventa l’unico spettatore di se stesso.

RM: È vero. È di secondaria importanza quello che gli altri ne ricavano. Non devo rendere conto a nessuno. Chi deve rendere conto non può essere un artista.

La cosa che vi unisce è il fatto che entrambi cercate di vivere con intensità. E di realizzarvi in questo modo di vivere.

PR: Sì. Non intendo avvolgere la mia vita nella bambagia, solo perché possa vivere qualche giorno di più. Voglio morire con la sensazione di aver fatto e realizzato qualcosa fino in fondo. Devo comunque valutare cosa significhi per gli altri quello che faccio. Senza dubbio non posso anteporre le mie esigenze a quelle di mia moglie. È come se progredissi lungo una cresta. Nonostante ciò penso che sia necessario impiegare nella maniera più sensata le capacità di cui disponiamo. Chi vuole conservare la propria vita dovrà perderla comunque.

Cosa significa per lei «sensato»?

PR: Esercitare un’influenza positiva sugli altri. Il proprio impegno può liberare forze delle quali non si immagina nemmeno l’esistenza.

RM: Ma non dobbiamo continuare a domandarci cosa sia bene e male. Chi decide di queste cose? È molto più importante porci degli obiettivi. Solo quando siamo mediocri e non pretendiamo nulla la vita è inutile.

PR: Lo penso anch’io. Si può esercitare un’influenza sugli altri se si è convinti di se stessi e se si sfruttano appieno le proprie possibilità.

Quanto libero si sente in questo processo?

RM: Ognuno decide della propria libertà. Io mi piego alla mia fissazione. Essere liberi, però, significa anche non aver più niente da perdere. Nemmeno un nome.

PR: Io non mi sento affatto libero. Sono come un’insegna appesa fuori da un negozio. E questo è anche un peso. Sono considerato un esempio e perciò non posso fare tutto quello che voglio.

RM: La sua naturalezza nello stare lì seduto mi dimostra che su una sedia a rotelle non si è necessariamente prigionieri. Lei non è libero, signor Radke, perché si pone traguardi ambiziosi e perché il mondo esterno le pone traguardi ambiziosi. Inoltre lei ha ottenuto molto, quindi ha anche molto da perdere. Lo stesso vale per me.

Lei cos’ha da perdere?

RM: I figli, il patrimonio, un nome, la credibilità.

PR: L’influenza. L’influenza che esercito è strettamente legata al mio ruolo. Se non rispondessi più in pieno al mio ruolo, la mia influenza non sarebbe più tale. Infatti esiste anche un altro istinto oltre a quello della sopravvivenza: l’istinto del potere. Perdere il proprio potere è una cosa negativa [ride].

Lei teme di perdere il potere con il passare degli anni?

PR: Non mi fa paura la vecchiaia. È uno dei vantaggi dell’essere artista. Se non si arrugginisce, si può essere creativi anche in età avanzata. In un’occasione il regista Tabori disse che la gente come me è la dimostrazione che lo spirito può vincere sulla materia. Anche lei, signor Messner, ne è la dimostrazione.

RM: È vero. Anche per me l’età non è un problema. Anzi, mi fa quasi piacere invecchiare. Ma se non riesco più a salire l’Everest è inutile che ci vada. A quel punto è meglio che impieghi le mie forze per altro. Mi piacerebbe fin da ora eliminare la zavorra. È stato bello ristrutturare una fortezza. È stato bello salire i quattordici ottomila. Ma il possesso non mi interessa. Ogni forma di possesso – avere un nome famoso, avere la conoscenza, ricchezze – è fondamentalmente noiosa. Quello che mi mantiene in vita e mi arricchisce sono le mie visioni, è ciò che creo in questo istante.

PR: Se rinunciasse a qualsiasi cosa farebbe proprio quello che ha sempre fatto: spingersi al limite. La incuriosisce sapere cosa c’è oltre il limite?

RM: È solo quando si è al limite che dentro di noi nasce il rispetto per l’infinito. Ciò che è impenetrabile e irraggiungibile ci affascina enormemente. Il mistero aumenta con la ricerca.

Quindi lei cerca un’esperienza religiosa?

RM: No, è lei che mi viene incontro. Ogni volta che sono in cammino, nel silenzio e nel vuoto.

PR: Rispetto a lei io vivo molto più legato all’hic et nunc. Ciò che si colloca oltre il confine per me non ha assolutamente rilievo. Mi interessa riempire la mia vita di senso qui e ora. E poi la morte mi fa paura. Quello che viene dopo invece mi è indifferente. Potrebbe non esserci niente, mi va bene lo stesso. E se c’è qualcosa, voglio sentirmi la coscienza pulita di aver svolto il mio ruolo in maniera dignitosa. Non sono alla ricerca del dopo.

Perché vive bene in questo mondo?

PR: Mi sento al sicuro, lo ammetto. La morte non mi mette ansia. L’ho già provata una volta, come per chi viene dichiarato clinicamente morto. Ero in un tunnel e vedevo una luce. La luce divenne sempre più chiara. Ho capito che quando sarebbe stato tutto bianco sarei morto. E ho provato un grande desiderio che tutto diventasse bianco. Ma non avevo paura. A un certo punto il nero ha avuto il sopravvento. Mi sono svegliato in preda a una forte tachicardia.

RM: Io credo che morire sia una sensazione piacevole, come immergersi in un mondo più luminoso. Ma la paura di aver paura di morire ci trattiene. Per fortuna! Ho una famiglia, delle responsabilità. Ciò nonostante ogni volta che rimetto in gioco la mia vita, salgo una montagna o vado in un deserto, mi spingo al limite delle mie possibilità di sopravvivenza. Poi mi sento più tranquillo, più equilibrato.

Non la inquieta immaginare cosa ci sia al di là?

RM: Affatto. Perché l’aldilà è aperto ed è fantastico.

(Chrisma, novembre 2000)

«GLI OSTACOLI MI FANNO CRESCERE.»

A proposito della vecchiaia e della morte

Signor Messner, nella sua autobiografia La mia vita al limite afferma: «Ho viaggiato molto per poter finanziare la mia vita, ho raccontato delle mie spedizioni in libri e conferenze». Lo fa ancora oggi. Perché non si limita a godersi la vita?

Io me la godo, la vita. Ma la mia vita è fatta proprio di questo, inventare e realizzare. Dopo aver concepito e sviluppato un’idea – una salita, la ristrutturazione di Castel Juval, un nuovo museo –, la questione per me è risolta, e passo a occuparmi dell’idea successiva. Ovviamente posso tenere conferenze anche su progetti già realizzati, come in questo periodo, ma anche in questo caso traduco nella pratica un’idea inedita: la conferenza multimediale. Un giorno anche questa esperienza si chiuderà, e mi dedicherò ad altro.

Riesce a immaginare di non fare niente, un giorno?

Magari un giorno sì, ma attualmente non riesco a pensare di restare inattivo.

Nella sua autobiografia lei definisce un «orrore» dover mangiare un gelato con una ragazza, perché non sarebbe altro che perdere del tempo prezioso...

... ma ciò nonostante una moglie l’ho trovata, che riesce addirittura a vivere con me [ride]. Per fortuna non ha mai preteso di andare a mangiare un gelato! Se mi avesse posto di fronte alla scelta le avrei detto: «No, non ci vengo».

Lei è un tipo irrequieto?

Assolutamente no. Molti dicono che comunico una sensazione di grande tranquillità. Il fatto è che ho trovato un modo per essere felice, mettendo in pratica idee e progetti. Da un po’ di tempo non faccio che pensare al museo. Lavorare alla sua realizzazione mi procura una grande gioia, perché incontro degli ostacoli. Maggiori sono le resistenze, maggiore è il successo finale. Non mi interessano le imprese prive di contrasti. Sono gli ostacoli che mi fanno crescere.

Lei intraprende così tante iniziative perché teme che il pubblico si dimentichi di lei e delle sue imprese?

In questo momento mi interessa che la gente mi ricordi, perché mi fa piacere vedere le sale conferenze gremite di pubblico. Ma in realtà la cosa mi lascia indifferente. I miei progetti non devono essere per forza ragionevoli – come alpinista, in fondo, sono un conquistatore dell’inutile. Non mi interessa la gloria eterna.

Veramente non le importa molto di quello che pensa la gente?

Mi spingo a dire che con la mia morte il mondo sparirà. In questo senso è del tutto irrilevante sapere cosa resterà di me dopo la mia scomparsa. Molti hanno pensato che il progetto del museo avesse origine dal desiderio di realizzare un monumento a me stesso. Non è vero. Per me è importante essere vivo adesso. Ma non ho alcun interesse a restare vivo oltre la mia morte.

Dopo la sua morte resteranno i suoi libri...

Di ogni secolo sopravvivono due, tre scrittori, e io non sarò certo fra questi. Non nutro questa ambizione. Non sono uno scrittore in senso classico, mi definirei piuttosto un bardo. Torno a casa e racconto. Cerco di descrivere esperienze maturate in situazioni estreme, tutto qui.

Così modesto?

Devo ancora scrivere il libro più completo. Mi piacerebbe fare ancora un’esperienza forte e poi descriverla in maniera molto più dettagliata rispetto a come ho fatto fin qui.

Ha mai provato a tradurre in poesia un’esperienza vissuta?

Ho tentato anche questa impresa, ma sono giunto alla conclusione che fosse più ragionevole lasciar perdere [ride].

Lei sostiene che non la spaventa il fatto di essere dimenticato. La spaventa l’idea della morte, invece?

È interessante notare le immagini che appaiano al mio occhio interiore nelle situazioni estreme. Una volta, la notte prima di salire un ottomila, sognai di diventare grandissimo, un gigante. Vale a dire che nel sogno non anticipo la mia scomparsa, dal momento che mi trovo davanti al nulla. È come se mi estendessi, finché il mio essere non si dissolve.

Davanti a un bronzo dorato a fuoco dell’eroe leggendario tibetano Gesar Ling: un pezzo eccezionale della mia collezione.

Davanti a un bronzo dorato a fuoco dell’eroe leggendario tibetano Gesar Ling: un pezzo eccezionale della mia collezione.

Come interpreta questa immagine?

Non so interpretarla. Non sono lo psichiatra di me stesso, cerco solo di descrivere ciò che ho vissuto.

Questo significa che lei non ha paura del nulla.

Non ho paura della morte, ma del morire.

Della sofferenza?

No. La morte è un fatto reale. Mi riferisco allo stato dopo il morire, dove non c’è più percezione sensibile. Ogni uomo sa che morirà, e non credo che questo pensiero preoccupi nessuno. Tuttavia abbiamo paura dell’atto di morire, del processo che ci conduce dalla vita alla morte. In altri termini: non abbiamo paura della morte perché è una cosa certa. Temiamo il morire perché non sappiamo cosa ci aspetta.

Come reagisce di fronte a queste paure durante le sue imprese?

Servono solo allenamento fisico e mentale. Se prima di un’impresa mi sveglio con la paura di morire, mi tranquillizzo dicendo: non sono ancora nel pieno dell’impresa, sono ancora vivo e non ho nessun motivo di aver paura. La cosa difficile è partire, staccarsi da un mondo sicuro, dal «nido».

In cosa consiste la sua prossima grande sfida?

Mi sono appena gettato alle spalle una storia – la traversata del deserto del Gobi – e ho fatto esperienze molto interessanti sull’invecchiamento. Mentre ero nel deserto, rivedevo la mia infanzia, anche durante il giorno, come se sognassi a occhi aperti. È certamente un sintomo dell’invecchiamento. Invecchiare è la mia prossima grande sfida.

Le pesa invecchiare?

So che non potrò più fare determinate cose: la vista e la forza muscolare diminuiscono, la forza creativa si appanna. L’invecchiamento è l’esperienza del proprio limitate. Da un lato sono preparato a questo evento. Condurre una vita come la mia significa proprio imparare a riconoscere i propri limiti. D’altro canto ho anche esaurito le mie possibilità, ho spinto sempre più in là la linea di demarcazione fra possibile e impossibile. E a questo punto il limite mi viene imposto dall’esterno, in maniera molto più decisa rispetto a prima.

Invecchiare è un’esperienza al limite?

La più importante che dobbiamo affrontare. L’esito è positivo solo se interpreto l’invecchiare come una possibilità per aprirmi a nuove esperienze.

Lei si definisce un seminomade. Per descrivere la sua vita, non sarebbe adeguata anche l’immagine del mago? In fondo lei sparisce per un certo periodo dal mondo civilizzato, per poi farvi ritorno.

Una bella immagine, ma non del tutto adeguata. Infatti, quando salgo una montagna non scompaio a me stesso. I miei figli hanno una percezione diversa: per loro sì, scompaio. Non sanno se sono ancora vivo e quando tornerò a casa. Io invece so se sono ancora in vita e quando farò ritorno. E so anche che dopo tutto tornerà come prima. Per me i ragazzi non scompaiono, mentre io scompaio per loro. Questa è la grande ingiustizia della mia vita nomade.

A Venezia, per l’ottantesimo compleanno di mia madre, mancata nel 1995.

A Venezia, per l’ottantesimo compleanno di mia madre, mancata nel 1995.

Lei descrive il mondo borghese come limitato e insopportabile. Cos’ha davvero contro questo mondo, visto che anche lei aspira alla sicurezza?

Io sono una persona ordinata, quindi in questo senso potrei definirmi un classico borghese. Ma non condivido le concezioni morali e le regole borghesi. Si va in chiesa perché si deve andare in chiesa; si lava la macchina al sabato perché al sabato si lava la macchina. Si accetta il mondo così com’è. Al contrario, io credo nell’individuo che si autodetermina, che fa ciò che vuole, e che si assume in prima persona la responsabilità della propria vita senza delegarla allo Stato.

Parla da politico.

No. Non sono mai stato un politico vero e proprio. Intendevo solo dire: Stato e Chiesa cercano di toglierci la libertà. E noi cittadini spesso e volentieri glielo lasciamo fare.

(Tagblatt, ottobre 2004)

LA MONTAGNA SI SGRETOLA.

Reinhold Messner, l’alpinista più estremo dei nostri tempi, dice la sua a proposito di tragedie e fortuna,
del venir meno delle forze e del suo futuro
di «alpinista della domenica»

Ormai ha quasi sessantun anni. È appena uscito il libro sulla sua recente esperienza nel deserto del Gobi, dove si legge: «L’ultima sfida che ancora mi resta da affrontare è invecchiare». Anche lo sportivo estremo comincia a sentire l’età che avanza?

Eccome, me ne rendo conto soprattutto quando affronto qualcosa di difficile. Per quasi venticinque anni ho coltivato il sogno di attraversare da solo il deserto del Gobi. Quando finalmente l’estate scorsa mi sono trovato a intraprendere questo viaggio di duemila chilometri, mi sono reso conto di non essere più in grado di farlo. Sono troppo lento, troppo vecchio, troppo impacciato per farcela. I miei sensi non lavorano più come una volta. Intendevo attraversare il deserto senza particolari ausili, quindi senza automobile e senza tanti bagagli. Pensavo sarebbe stato più facile! Ho dovuto constatare che non sono più in grado di camminare così rapidamente. Per percorrere un certo tratto ho dovuto portare con me più acqua del previsto – ma è stato faticosissimo! Nel tratto più difficile ho dovuto trasportare più di quaranta chili, dei quali trenta di acqua potabile. A trentacinque anni salivo le montagne con un peso come quello sulle spalle! Nel 2004 ho superato con grande fatica l’ultimo ostacolo, i monti Altai – vent’anni fa sarebbe stata una passeggiata!

Quindi lei, che è sempre andato alla ricerca del limite, ha fallito proprio per i suoi limiti?

Sì. Non ho più la resistenza e la capacità di sopportazione di prima. Mi rendo conto dei miei limiti e della mia fragilità. Adesso so che non potrò mai più affrontare di nuovo un’impresa così impegnativa.

Come vogliamo definire questa sua ammissione? Un atto di modestia?

Non so se «modestia» è il termine giusto. Riconosco che sto diventando vecchio, fragile, lento, impacciato. Che poco alla volta mi sto sgretolando. Come il deserto, che altro non è che una montagna sgretolata.

Questa constatazione la riempie di rabbia?

No. L’ho accettata, non senza fatica. Forse per me è più difficile accettare di diventare vecchio rispetto a chi non ha passato la vita a salire le montagne più alte e a traversare l’Antartide.

Cosa l’affascina dei deserti? Forse il fatto che un deserto è diametralmente opposto a una montagna?

Il deserto non è l’opposto della montagna. È una montagna polverizzata.

Lei scrive: «Nulla mi ha aiutato ad arrivare alla consapevolezza come i paesaggi e la loro corrispondenza nella mia anima». In questo senso, quindi, il deserto è l’emblema del disfacimento che incombe?

È così: la montagna è per me una sfida visibile. Al contrario, non posso catturare il deserto con uno sguardo. L’orizzonte oscilla davanti ai miei occhi, si confonde nella calura, arretra a ogni passo. Il deserto è una metafora bellissima della nostra età – il perdersi, il dissolversi. Invecchiare non è altro che un dissolversi – alla fine non ci saremo più. La nostra consapevolezza si dissolve. Non sono un filosofo, ma l’immagine del granello di sabbia nel deserto paragonato all’umanità che sparisce, rispecchia molte delle mie idee.

C’è qualche aspetto della vecchiaia che attende con piacere?

La cosa gradevole è che non devo più dimostrare niente. Non devo produrre, devo solo aggiungere. Non devo cercare la sicurezza economica. Non ho una pensione, ma non ho paura di non potermi mantenere in vecchiaia, sono un agricoltore autosufficiente. Possiedo così tanta terra da produrre da solo, con l’aiuto dei miei collaboratori, il mio vino, la mia frutta, la mia verdura e la mia carne.

A chi ha dovuto sempre dimostrare qualcosa? A lei stesso?

No. Vede, questo mondo avventuroso, nel quale sono entrato molto presto, è un mondo a sé. Qui l’importante non è lo scontro diretto, come per i maratoneti o i ciclisti del Tour de France: non lottiamo nemmeno contro la nostra vigliaccheria personale.

E invece?

Ci inventiamo delle sfide e desideriamo tradurle in pratica: quello che facciamo non ha alcuna utilità. Serve più al gioco e all’arte che non allo sport. Nell’ambiente sono in tanti a pensare: Solo io so fare una certa cosa, gli altri non hanno mai avuto il coraggio, la capacità organizzativa o anche solo l’idea di farla. È un gioco meraviglioso, fare qualcosa che nessuno al mondo è capace di fare.

Si potrebbe parlare anche di assurdità o follia. Un gioco che sta fra lo sperpero e l’autodistruzione. Come ha reagito la famiglia alla sua volontà di mettere a repentaglio la vita – a un certo punto ha detto basta?

Certo. Ma negli ultimi dieci, vent’anni le spedizioni davvero pericolose si sono costantemente ridotte. Vivo da vent’anni con la mia compagna, Sabine, abbiamo tre figli, Magdalena di diciassette, Simon di quattordici, Anna di quasi quattro. Da quando sono padre mi sono esposto a meno rischi, oppure mi sono tirato fuori con più facilità dalle situazioni più impegnative, perché ho una responsabilità maggiore rispetto a prima. Quando ho affrontato l’Everest da solo non avevo figli. Potevo permettermi di essere più «sfacciato».

Come mai ha aspettato così a lungo per il progetto estremo del Gobi?

Nel 1995 ho avuto un incidente e mi sono distrutto un calcagno. È stata tutta colpa mia, di notte sono salito sul muro di cinta del castello, al buio e sotto la pioggia. Eravamo senza chiavi, non riuscivamo a entrare, i bambini avevano freddo, così ho deciso di scavalcare il muro. L’avevo già fatto parecchie volte. Ma improvvisamente sono scivolato, nel buio non sono riuscito a vedere dove sarei atterrato saltando. Sono rimasto bloccato cinque anni, invalido. Sono stato in clinica e ho dovuto usare le stampelle per molto tempo.

Nel 1999 lei ha varcato la soglia del Parlamento europeo come deputato.

Uno dei motivi è stata la mia invalidità. Durante i cinque anni che ho trascorso quasi sempre seduto, la situazione si è risolta al novantanove per cento. Per questo motivo mi sono sentito pronto ad affrontare nuove avventure, e così non mi sono più ricandidato. Ho pensato che il Gobi fosse ancora alla mia portata.

In molte parti il libro è un riassunto della sua vita. In un punto lei si domanda come mai finisce sempre per esporsi a situazioni di pericolo: «Mi spingo volontariamente fino a una condizione di rischio estremo, di possibile sconfitta, per poi apprezzare di nuovo il valore della vita». È questo il nocciolo del suo essere, l’aspetto più intimo di Reinhold Messner?

Sì. Sono giunto a questa consapevolezza molto tardi. Non saliamo una montagna per raggiungere la vetta, ma per tornare fra gli uomini. Qualche critico osserva che non ci sarebbe alcun bisogno di salire, così non sarebbe nemmeno necessario tornare indietro. Si resterebbe sempre in mezzo agli uomini...

La differenza sta nell’intensità del sentire?

Giusto. Solo se prima mi sono trovato in un mondo ostile il ritorno si trasforma in una rinascita. Che mi regala la sensazione di vivere la vita come un dono. Io ho il diritto, forse anche il dovere di riempire questa vita con le mie capacità, le mie caratteristiche e la mia energia. Ogni ritorno è come un’iniezione di energia, una rinnovata voglia di vivere.

In alcune occasioni lei ha affermato, di ritorno da una spedizione in montagna, di avvertire il bisogno irrefrenabile di fare sesso. È vero? Sesso come atto metafisico, come traduzione pratica della gioia di vivere?

Nei miei libri scrivo senza misteri ciò che vedo, sento, provo, penso e faccio. Se evito un argomento o voglio tacere qualcosa, il libro non riesce bene. È vero, dopo la discesa voglio fare sesso. Condivido la sua interpretazione della pulsione sessuale: dopo l’istinto della sopravvivenza si tratta della pulsione più intensa. L’istinto di conservazione serve alla sopravvivenza del singolo. La pulsione sessuale serve alla sopravvivenza del gruppo, cioè dell’umanità. È un istinto innato.

Lei ha dedicato questo libro alla sua bambina più piccola: «Per Anna che deve sapere che uomo è suo padre». Cosa si nasconde dietro questa frase?

Ho dedicato un libro a ognuno dei miei tre figli. A Magdalena il libro sull’Antartide, a Simon La seconda morte di Mallory. In origine questa dedica recitava: «Per Anna che deve sapere chi era suo padre». Che avrebbe fatto pensare che non sarei mai tornato dal Gobi. Invece ce l’ho messa tutta, e così l’ho modificata. Con questo voglio anche dire che sono andato nel deserto ben consapevole dell’impegno che mi assumevo, l’impegno di tornare. Non ho il diritto di sparire nel deserto.

Reinhold Messner diventerà un «alpinista della domenica»?

Proprio così. Lo sono già. Non ho più capacità particolari, solo molta esperienza. Però ho trovato una sfida nuova, un compito che posso fronteggiare anche invecchiando: un museo della montagna. Forse il mio subconscio ha elaborato l’idea di questo museo nel momento giusto. Se quindici anni fa mi avessero chiesto se ero interessato ad aprire un museo, avrei risposto: «Mai!» Magari il museo è una scusa per non dover tornare ancora una volta sull’Everest o nel Gobi. Una scusa di fronte a me stesso.

Come dobbiamo immaginarci questo museo?

Il progetto prevede cinque edifici. Quello centrale sarà a Bolzano, poi ci saranno quattro edifici-satellite in altrettanti luoghi, che si occuperanno di ghiaccio, roccia, popolazioni di montagna e montagne sacre. Quest’ultimo argomento è trattato a Juval, nel castello dove passiamo l’estate. L’intero complesso costituisce il museo della montagna, il cui scopo è descrivere cosa succede all’uomo quando si confronta con la montagna.

Si dice che il museo sia il suo quindicesimo ottomila...

Mah, in realtà mi costa molto più di tutte le mie spedizioni messe insieme. Ho collaboratori e amici, interpello esperti e consulenti, perché in effetti sono un dilettante. In Alto Adige si è subito scatenata l’ostilità contro la mia idea di museo. Continuavano a ripetere che non ce l’avrei fatta. Ho trovato molte resistenze, ma proprio per questo quando il risultato è arrivato la gioia è stata grande. Da quindici anni ho in mente cosa voglio fare, e questo progetto riempirà il resto della mia vita.

Logo e nome dell’MMM.

Logo e nome dell’MMM.

Adesso fa l’accompagnatore in una specie di viaggio tutto-compreso «Intorno al Nanga Parbat».

Organizzo questi viaggi tutto-compreso ogni due, tre anni, quando mi devo recare da quelle parti. Questa volta vado per via di mio fratello, e di alcuni progetti sociali che ho attivato laggiù. Nella valle Diamir ho costruito una scuola per una cinquantina di bambini. Ho dato vita a una fondazione che ha già raccolto 125.000 euro. Nel 2002 un terremoto ha raso al suolo due paesi ai piedi del Nanga Parbat, gli orfani sono stati tanti, una situazione terribile. Ora ho ottenuto dal presidente l’autorizzazione per la ricostruzione dei due villaggi. Questo significa che acquedotto, scuole e case saranno ricostruiti in una zona con minore rischio sismico. È per questo motivo che devo andare lì.

E già che c’è, si porta appresso un paio di generosi turisti tutto-compreso?

Sì, intendo realizzare un percorso. Ho individuato un periplo del Nanga Parbat, secondo me il percorso di trekking più bello sugli ottomila. E sarò io a guidarlo. Spero che questo sia il primo di una serie. Gli alpinisti aiuterebbero i locali, procurando loro lavoro e cibo.

Lei è mai riuscito a fare una vacanza normale, prenotata in un’agenzia, insomma un viaggio in cui non sia in gioco la sopravvivenza?

Qualche tempo fa mia moglie ha prenotato un viaggio, una crociera nell’oceano Indiano. L’ho preso come un viaggio di lavoro, come tanti altri, con un certo numero di impegni. Alla partenza ero anche piuttosto incavolato finché non ci hanno assegnato la nostra cabina. Ma alla fine ero grato a mia moglie. Normalmente non mi capita di salire su una nave e stare lì a guardare le stelle.

L’ozio pare essere un bel problema per lei. Del resto, se così non fosse non sarebbe certo riuscito a scrivere la bellezza di quaranta libri. Dove e come scrive? Segue dei «rituali» precisi?

Scrivo tutto a mano, perché quando sono in giro non posso fare diversamente. Durante la traversata del Gobi ho tenuto regolarmente un diario e subito dopo il ritorno ho riordinato gli appunti. Non sono capace di scrivere al computer. Sarei troppo lento. Mia figlia maggiore ha trascritto a computer questo libro. La mia segretaria lo rielabora, poi viene dato in lettura.

Non è portato per le tecnologie? Nelle sue spedizioni usa comunque orologi GPS, e il suo sito è piuttosto ben fatto.

Non me ne occupo direttamente. Non sono un esperto in questo campo. Io fornisco solo l’input.

In quale campo si sente una vera nullità?

In tutto. Solo come camminatore non sono un dilettante. Ho tentato di darmi da fare in un sacco di non-mestieri. Anche l’arrampicata l’ho imparata solo dai miei genitori. A diciotto anni per la prima volta sono venuto a contatto con i veri «estremi». Tutto quello che so l’ho appreso sul campo, nella natura vergine. Non ho studiato per affrontare le mie esperienze al limite.

In compenso però è un contadino di montagna. Nella sua cascina si producono carne di yak, vino, formaggio. Lei personalmente sa fare il formaggio, mungere una vacca o macellare?

Mungere sì. Sono cresciuto in montagna, mio padre era insegnante, ma ho sempre desiderato raggiungere l’autonomia per quanto riguarda il cibo. Ho due tenute agricole che affitto.

Dopo cinque anni di politica europea che ne è dell’europarlamentare Reinhold Messner?

Fra i motivi che mi hanno spinto ad andarmene da Strasburgo c’era anche il fatto che voglio agire, non parlare. In questo momento sono felice di non essere più lì. Dalle ultime elezioni la costituzione è stata «congelata». Il sentire europeo comune è più che mai debole, la partecipazione alle urne si è ridotta, c’è quasi da vergognarsi. Se non siamo in grado di creare una consapevolezza europea in 450 milioni di europei, tutta la baracca salta. In questo momento mi sembra che il rischio di un esito negativo sia molto elevato.

Per lei è una delusione?

L’Europa comune non si fa finché i francesi pretendono le sovvenzioni per l’agricoltura, i polacchi chissà cos’altro. È necessaria una costituzione per arrivare al più presto a una politica comune. I parlamentari europei non sono stati in grado di far capire questa priorità. Oggi si curano solo gli interessi particolari, mai la globalità.

Ha ancora legami «verdi»?

Mi sono sempre ribellato quando si affermava che Messner rappresentava i «Verdi» italiani al Parlamento europeo. Non ero lì a rappresentarli, sono loro che mi hanno pregato di candidarmi come indipendente. Ho condotto una mia campagna elettorale, perché mi sembravano troppo fondamentalisti, e il mio seggio me lo sono conquistato da solo. C’è mancato poco che non abbandonassi del tutto il gruppo. Sono rimasto solo perché Daniel Cohn-Bendit è diventato portavoce. Mi sembra un politico concreto.

I suoi figli hanno ereditato il suo spirito avventuroso?

Mio figlio Simon sì, le ragazze meno.

Riesce a esprimere a parole quello che i suoi figli le danno? Che spazio occupano in un’esistenza così avventurosa?

I miei figli sono il centro della mia vita. Mi sento a casa solo dove sono loro. Mi muovo insieme a loro. D’estate viviamo al castello e per il resto dell’anno a Merano. È lì che i ragazzi vanno a scuola. I miei figli costituiscono anche la mia assicurazione sulla vita: saranno loro a frenarmi, a impedirmi di fare qualche sciocchezza. Sono loro riconoscente per questo. In questo momento il mio istinto mi dice: non ti puoi permettere di andare all’altro mondo. Ma posso continuare a condurre la mia vita. Non devo starmene a casa, come un pantofolaio seduto in poltrona davanti alla tv. Ognuno di noi dovrebbe fare la vita che ritiene giusta per se stesso. Ma ho la responsabilità dei miei figli, e questo senso di responsabilità è un istinto innato, non un obbligo morale.

Le capita, a volte, che i suoi figli si prendano gioco di lei, che la facciano passare per un dilettante?

Di continuo. Io, per esempio, non so nemmeno nuotare. Vorrebbero sempre insegnarmi quando ci capita di andare al mare. Poi non capisco niente di computer. In generale ho poca dimestichezza con la tecnologia: mia figlia ha studiato la mia nuova macchina fotografica e sarà lei a decidere se sono in grado di usarla o no. Sono troppo stupido e impacciato per impararlo adesso! Ho anche fatto il fotografo, ma con un apparecchio classico, una Leica, ormai è superata pure quella. Si fa persino fatica a trovare le pellicole. Nel giro di dieci anni è cambiato tutto.

C’è qualcosa che le fa veramente paura?

Paura non è il termine giusto – l’età mi ha liberato anche di quella. Oggi per me è molto più facile dire che una certa cosa non la faccio, che rinuncio. Trent’anni fa mi sarei veramente angosciato per un fallimento come la traversata del Polo Nord. Probabilmente avrei riorganizzato tutto e avrei tentato di farlo meglio. Ma adesso non ho più questa necessità. Non ho paura che mi colga di nuovo il desiderio di arrivare ancora una volta al limite.

Questo significa che quindi non ha nemmeno più paura di fallire?

È vero. Mi sono liberato anche di questa paura.

(Berliner Zeitung Magazin, agosto 2005)