Il mio know how a disposizione di tutti
Leadership e risk management
Più di vent’anni fa Herbert Henzler, all’epoca uno dei consulenti d’impresa più conosciuti al mondo, nonché eccellente sportivo, mi spinse a comunicare le mie esperienze, maturate negli ambiti estremi del possibile, ai protagonisti nel campo dell’economia, dell’arte, dello sport e della politica.
Così è nato il circolo dei «Similauner», costituito da almeno una dozzina di top manager e imprenditori. Ci incontriamo una volta all’anno per un’uscita in montagna di un certo impegno, e approfittiamo dell’occasione per discutere i problemi attuali del mondo globalizzato. Questi incontri mi hanno insegnato molto.
Queste conoscenze confluiscono anche nei seminari motivazionali che organizzo con imprenditori di tutto il mondo. È come gettare uno sguardo oltre il sipario, proprio come la mia attività di parlamentare europeo ha migliorato la mia comprensione della politica.
Mi soddisfa molto poter trasmettere ad altri il mio tesoro di esperienze, anche se, come «conquistatore dell’inutile», devo rendere conto solo a me stesso, mentre le persone cui mi rivolgo puntano a un obiettivo. Ciò che ci lega è l’ambizione di dare sempre il meglio.
PERCHÉ, MESSNER, I MANAGER DOVREBBERO ESSERE CONSAPEVOLI DEI LORO LIMITI?
Nel suo libro Un modo di vivere in un mondo da vivere lei si occupa non tanto delle montagne reali che si trovano in natura, quanto, piuttosto, le preme dimostrare come il singolo può trasferire nella sua coscienza le montagne, sotto forma di motivazione, disciplina, coraggio, forza visionaria, identificazione e intuizione – questo per citare solo alcuni dei concetti che ricorrono nel vocabolario del management moderno. Che paralleli individua fra le sue imprese e il lavoro di un manager?
Brainstorming con i «Similauner» al termine della salita dell’Ortles.
Anche se posso parlare solo delle mie esperienze personali, credo che nel territorio estremo delle imprese al limite – ascensioni, attraversamento di deserti o distese di ghiaccio – molti problemi possano essere, dal punto di vista strutturale, paragonati a quelli del management. In entrambi i casi, è importante la questione della leadership, che si distingue per creatività, coraggio, spinta innovativa – che si tratti di motivazione, logistica, strategia, di creare un senso o di stimolare gli altri in vista di un’idea nuova. Certo ci sono alcune differenze: l’esperienza in montagna è più limitata per quanto riguarda la portata delle conseguenze. Nel mio caso, dalle mie decisioni e dalle mie conoscenze dipende solo il fatto se andrò avanti o meno, ma non l’intera impresa. Per me si tratta di sopravvivenza in senso concreto e non «solo» della «sopravvivenza» di un’impresa. Vedo il mio libro come un’offerta: le persone aperte, sveglie possono in questo modo partecipare alle esperienze che ho collezionato personalmente in situazioni estreme e in una fase particolare della mia vita. Non ho una ricetta specifica, ma da una prospettiva inconsueta posso offrire soluzioni a problemi ricorrenti, non necessariamente estremi.
Per esempio?
Camminare come atto meditativo. I dirigenti sottoposti a forti pressioni emotive e mentali spesso partoriscono idee nuove quando per un breve periodo dimenticano il loro lavoro e magari si concedono una passeggiata all’aria aperta, in un bosco, per una volta non fanno nient’altro che camminare, un passo dopo l’altro. All’improvviso riescono a pensare in maniera più chiara e ampia, riescono a guardare dentro di loro, a prendere le distanze e di conseguenza a trarre conclusioni precise per il futuro.
A un suo libro lei ha posto come sottotitolo «Il credo di chi sfiora sempre il limite». Lei ritiene che una persona di questo genere contempli a priori il rischio potenziale delle sue azioni. Lei interpreta il suo modo di procedere come una sorta di insegnamento?
Il mio libro non vuole essere una dottrina, bensì un «inciampo» lungo il cammino costituito dai modi di pensare convenzionali. Senza rischio, avvicinarsi al limite non ha senso. Il rischio ne è parte integrante. Per un imprenditore, ma anche per chiunque altro. D’altra parte, quasi tutti noi preferiamo non contemplare i rischi, assumendo l’atteggiamento dello struzzo che infila la testa sotto la sabbia. Invece la morte è l’ultima conseguenza della vita di ognuno di noi. La vita è «programmata» per terminare con la morte. Solo nel momento in cui accettiamo la nostra morte riusciremo a vivere, a vivere più intensamente. Fra nascita e morte si colloca l’arco del mio sviluppo, e più accetto con chiarezza il fatto di dover morire, più riuscirò a tendere questo arco di possibilità di sviluppo e di conseguenza, a scagliare la freccia della mia esistenza: così quello che otterrò sarà più interessante.
Lei parla di disciplina, ambizione, idee, successo. Non fa mai riferimento ai «risultati», invece. Come mai?
«Risultati» in che senso? Dobbiamo imparare a relativizzare i risultati. Per me non sono così importanti. Mi interessano di più concetti come l’esperienza che deriva dall’insuccesso, o la ricerca della propria via. Arrivo al successo anche se non raggiungo la vetta. A condizione di tornare a casa. Mi domando: chi può dire con esattezza cos’è il successo? Spesso gli insuccessi ci fanno progredire maggiormente sul piano umano. È forse poco?
Come inquadrerebbe la sua salita dell’Everest?
Per l’umanità questa salita non è stata un «risultato», per me sì. L’impresa del maggio del 1978 è stata per me importantissima – la realizzazione di un’idea coltivata per molto tempo. In questo sta anche il mio successo. E dai risultati traggo la mia forza. Mi piacciono energia, disciplina, gioia di vivere, creatività. Pongo l’agire, il fare, il creare al di sopra di ogni altra cosa – anche se le mie azioni possono apparire a un primo sguardo inutili, e in seguito perfino senza senso. Io punto a un ribaltamento dei valori. Spesso i valori che ci vengono forniti «preconfezionati» non coincidono con i miei. La società del profitto mostra segni di cedimento. Vorrei che concetti come «fine a se stesso» e «silenzio» venissero ridefiniti. La vastità, la calma e il gioco. Quest’ultimo è una possibilità di sviluppo per l’individuo, che lo rende capace di prestazioni migliori. Eppure nella nostra civiltà occidentale il concetto di gioco implica una connotazione piuttosto negativa.
Lei si occupa di dirigere eventi «incentive» e seminari per manager. Cosa la stimola in questi incarichi?
A me piacciono le persone che hanno idee, che muovono qualcosa, persone che si mettono in gioco. Fra coloro che pretendono molto da se stessi – non solo in relazione alla perfezione e alla disciplina, ma soprattutto alla creatività –, molti occupano ruoli chiave in campo economico. Queste persone hanno la stoffa per smuovere le montagne. Se negli ultimi trent’anni l’Europa non è stata declassata a un rango inferiore, lo deve innanzitutto ai manager. I politici – a parte qualche eccezione – non sono stati capaci di muovere molto. Non sanno pensare in modo creativo, non se la sentono di prendere provvedimenti impopolari. Il più delle volte si ingarbugliano nel corpo a corpo dei partiti, e nell’orientare le loro scelte sono condizionati dai voti. Nel mondo globalizzato queste strategie possono solo allontanarci dai nostri obiettivi.
Si potrebbe dire che in ogni manager si nasconde potenzialmente qualcuno che ama spingersi al limite? O, meglio, che in ogni manager dovrebbe nascondersi una persona di questo tipo?
Un manager non può avvicinarsi al limite tanto quanto me. Infatti io metto in gioco solo le mie risorse finanziarie, fisiche e pratiche. Un manager, invece, ha la responsabilità anche di migliaia di collaboratori. Se un manager manda a gambe all’aria un’intera azienda, è una tragedia. Io posso muovermi sul filo del rasoio, lui deve essere più cauto, perché per lui la posta in gioco è più alta – la vita di molte persone. Tuttavia più un manager è operativo, più rivela uno spiccato intuito per le situazioni, i pericoli e le decisioni, più potrà rischiare. Una persona positiva e propositiva è quella che ha una percezione infallibile della posizione, della funzione che un collaboratore potrà occupare e che lo porterà a raggiungere i risultati migliori, posizione nella quale avrà anche la possibilità di svilupparsi nel modo migliore. Ognuno di noi deve decidere, tenendo in considerazione il contesto, fin dove può arrivare. Questo vale anche per me. Se sono in una giornata no, resterò, sempre che io sia ragionevole, al di sotto delle mie possibilità di rendimento. E se dovessi essere tentato dall’arroganza, dovrei essere capace di trattenermi. Da questo punto di vista, intuizione e istinto svolgono un ruolo vitale.
Come reagisce di fronte a successo e insuccesso?
Come qualsiasi altro essere umano. Da un lato l’insuccesso frena, dall’altro stimola a ritentare. L’insuccesso riporta sul terreno dei fatti concreti, rende lo sguardo più acuto di fronte alla realtà. Il successo mette le ali, ma alla lunga può condurre a una percezione distorta. Proprio io, che costantemente mi avvicino al limite, posso farlo solo se metto in conto anche l’insuccesso, se considero in modo razionale l’eventuale fallimento di una spedizione tanto quanto il suo esito positivo. Il mio «sistema» prevede solo un numero limitato di errori. Sarebbe un suicidio puro e semplice ignorare la possibilità di un fallimento. Chiaramente alla mia età, con il mio tesoro di esperienze e i miei molti successi, le cose sono più facili. Posso permettermi anche un passo falso. Un giovane, purtroppo, non può fare altrettanto a cuor leggero. In realtà, nel percorso di crescita di una persona gli insuccessi svolgono un ruolo importante tanto quanto i successi. Innanzitutto ti mettono al tuo posto. Il fallimento può anche dar luogo a un processo di apprendimento, ci riporta ogni volta alla nostra dimensione umana. Non esiste l’uomo perfetto, come non esiste il manager perfetto. Sono comunque convinto che siamo dotati di tutte le premesse specifiche necessarie per una certa attività. L’arte sta nello scoprire chi è particolarmente portato per che cosa. Quando una persona svolge un’attività per la quale è portata e riesce a cogliere qualche occasione anche in questo settore, avrà sicuramente successo. In caso contrario, il fallimento è inevitabile.
Le piacerebbe passare dall’altra parte della barricata e recitare il ruolo del manager?
L’idea è piuttosto attraente, ma irrealizzabile. Infatti – anche se si tende a pensare il contrario – nei confronti dei miei interlocutori sarei troppo morbido, troppo indulgente, e forse anche troppo impaziente. Quando ho un’idea, pretendo che gli altri capiscano immediatamente e che la traducano in pratica insieme a me. Io cerco di convincere un gruppo a sostenere la mia azione in toto, cerco di entusiasmarlo, di trascinarlo. Se non funziona, lascio perdere, perché mi pare che manchino le basi per una collaborazione costruttiva. In ambito imprenditoriale non si può agire così. Me lo dimostrano continuamente i miei amici «Similauner».
Il suo motto?
Ne ho parecchi. Da Castel Juval, la mia fortezza, ne ho tratto uno che mi piace molto: Vinciturus vincero, così ha scritto qualcuno nel sedicesimo secolo, sopra una porta: «Predestinato a vincere, vincerò». Forse il suo autore pensava agli dei che determinano la sorte del singolo, e non al singolo che trova in se stesso le motivazioni. A mio avviso, invece, la questione della determinazione dipende molto da noi stessi. Posso agire in modo da essere predestinato a una vittoria. Posso puntare così intensamente alla vittoria da giungere effettivamente al successo.
(FAZ-Magazine, luglio 1994)
«NON SANNO QUELLO CHE FANNO.»
L’«avventuriero» Reinhold Messner a
proposito
di coraggio, paura e manager alpinisti
I «Similauner», fra cui top manager tedeschi come Herbert Henzler, Ulrich Cartellieri e Hubert Burda, affrontano escursioni molto impegnative sotto la guida di Messner.
Messner, lei è coraggioso?
No. Sono un tipo pauroso. In ogni spedizione ho l’incubo dei congelamenti, di precipitare o di morire di sete. Prima della partenza dormo male per mesi. A volte sogno che il fornelletto non funziona. E mi sveglio in un bagno di sudore. Perché se in montagna non funziona il fornelletto, puoi sopravvivere un paio di giorni, non di più.
Mi scusi, volevo parlare di coraggio, non di paura.
Che tuttavia sono legati in maniera molto stretta. Chi non ha paura, non ha bisogno di avere coraggio. La paura è l’espressione del nostro istinto di sopravvivenza. Questo istinto è molto più potente che non, per esempio, l’istinto sessuale, che garantisce solo la conservazione del gruppo. L’istinto di sopravvivenza salva il singolo. Quando affronto una spedizione pericolosa devo tentare di raggiungere un equilibrio fra paura e coraggio. Altrimenti il fallimento è garantito.
E come si fa?
Cerco di prepararmi nel miglior modo possibile, immagino degli scenari: cosa può andare storto, come e dove, e cosa farei in questa situazione? Immagino ogni particolare, in modo che possa essere in grado, se necessario, di riparare il fornelletto a meno cinquanta gradi. La paura mette in luce le carenze nella preparazione. Quindi lavoro su me stesso, fino a eliminare ogni timore.
Che cosa si prova a superare la paura, a dominare il pericolo?
Se sopravvivo a una situazione critica provo la sensazione meravigliosa della rinascita. Prima l’esistenza è qualcosa di banale. Le esperienze positive non derivano dalle paure, bensì dall’essere sopravvissuti a una situazione che mette in pericolo la vita.
Mi consenta – tutto il ragionamento ha qualcosa di esoterico.
Non mi interessa. Trovo la gioia di vivere mettendo in gioco la vita.
Ci vuole più coraggio a guidare un gruppo su un terreno su cui si rischia la vita piuttosto che da solo?
Senz’altro. Quando si è soli le cose sono più semplici da un punto di vista mentale. Posso correre un rischio e mettere in gioco la mia vita. Quando insieme ad altri, nell’ambito di una spedizione, mi avvicino al confine fra la vita e la morte, ogni singolo è certamente responsabile per se stesso. Ciò nonostante, almeno sul piano istintivo, mi sento responsabile anche per gli altri. Non per motivi di ordine morale. A quel punto la morale non ha più alcun valore, ma esiste una responsabilità sociale – e l’istinto.
Cosa caratterizza un leader?
Per guidare un gruppo bisogna godere della fiducia degli altri, in più avere le capacità, l’esperienza, la forza e la conoscenza degli esseri umani. Anche il dono di saper osare. È questo il coraggio del leader. Sono tutti fermi in un punto, nessuno sa come procedere, hanno tutti paura. Finché uno dice: proviamo. In questo modo lui o lei assume il ruolo di leader.
Lei va regolarmente in montagna nelle Alpi con un piccolo gruppo di top manager, i «Similauner». Che parallelismi vede fra i leader dell’economia e gli alpinisti estremi?
Affrontare una salita impegnativa in montagna è una sfida che ci poniamo da soli. Lo stesso accade in campo economico. È un gioco emozionante, produrre la macchina più bella oppure far sì che un marchio sia il migliore al mondo. Entrambe le situazioni presuppongono qualità simili.
Qualche top manager si è poi rivelato un alpinista particolarmente dotato?
Sì.
Chi?
Il più anziano è il migliore...
... l’ex presidente della Deutsche Bank, Ulrich Cartellieri?
Proprio lui, come alpinista è nettamente superiore agli altri, ed è anche il più resistente. Sono tutti d’accordo su questo. Per la sua età, Ulrich Cartellieri svolge un ruolo paterno, in un certo senso. Il più scanzonato è l’editore Hubert Burda, mentre Georg Kofler è senz’altro il più creativo.
Scanzonato, quindi anche amante del rischio?
Sì. Entrambi sono imprenditori, rischiano la loro impresa, se le cose vanno storte. Anche Jürgen Schrempp, amministratore delegato di Daimler-Chrysler, è uno che osa parecchio. Ha molto coraggio. Lo hanno soprannominato Schrempp-parete-verticale. Invece definirei Klaus Zumwinkel, amministratore delle poste, un mediatore. Il boss di Linde, Wolfgang Reitzle, è un esteta. Sempre curatissimo, un arrampicatore elegante. Hanno tutti personalità molto forti, pensano tutti in positivo, e hanno introdotto innovazioni importanti nelle loro aziende.
Cosa imparano i manager durante queste salite? Vogliono diventare più coraggiosi?
Questo deve chiederlo a loro. Penso sia un’esperienza stimolante, almeno credo. In ogni caso è faticosa, richiede un impegno notevole. Non siamo più ragazzini.
Tre mesi fa lei ha compiuto sessant’anni. L’età rende più coraggiosi o no?
No, diventare vecchi non rende più coraggiosi. Ma ci vuole coraggio per sopravvivere all’invecchiamento. È un compito importante. Devo saper riconoscere i miei limiti fisici. Oggi so che non potrò mai più compiere un’impresa come raggiungere il Polo Sud o attraversare il deserto del Gobi. In quelle occasioni ce l’ho fatta per un pelo. Ora lavoro al mio progetto museale. In questo modo intendo raccontare cosa accade quando l’uomo e la montagna si incontrano. È un’impresa che non metterà a repentaglio la mia vita...
... ma potrebbe ridurla sul lastrico.
Forse. Se invece andasse a buon fine intendo dedicarmi a qualcosa di nuovo, per non cadere vittima della vecchiaia, a casa. Non so ancora di cosa si tratterà.
Il coraggio che ci sostiene quando saliamo un ottomila è diverso dal coraggio necessario per opporsi a ostacoli di tipo politico o finanziario – come nel caso del suo progetto museale?
Anche nel progetto del museo riesco a non perdere di vista la componente ludica. Giocando ho sempre avuto successo. Posso anche fallire, ma non sarebbe una tragedia. In montagna la morte è in agguato solo quando si precipita, non quando ci si ritira.
Ha mai perso il suo coraggio?
In montagna, spesso. Già in partenza. Ho avuto paura, non ho nemmeno cominciato, spesso ho fallito.
Che ruolo svolge questo tipo di fallimento, la «ritirata»?
Fallire significa fare un passo indietro, per paura di perdere la vita. Imparo soprattutto dalle situazioni in cui fallisco. Imparo meno quando le cose vanno bene. Dopo i momenti di successo non siamo in grado di capire il perché del successo. C’entra la fortuna, molto più che nelle spedizioni fallite.
La sua decisione più coraggiosa?
È stata allo stesso tempo una decisione sbagliata. Sul Nanga Parbat io e mio fratello non saremmo dovuti andare avanti, dopo esserci incontrati a quasi ottomila metri.
Suo fratello l’ha colta di sorpresa, raggiungendola in salita, appena sotto la vetta. Lei si era allontanato dal gruppo, per arrivare in vetta lungo il versante Rupal. Con i suoi 4500 metri si tratta della parete più famosa e difficile della Terra. All’epoca ancora inviolata.
Saremmo dovuti tornare indietro tutti e due, avremmo potuto e dovuto farlo. Ma in quel momento non sapevamo come sarebbero andate le cose. Eravamo coraggiosi, giovani, entusiasti. Sul tetto del mondo. Sotto di noi una parete di 4500 metri. Abbiamo osato tenere duro.
Il rischio di andare avanti era maggiore del rischio di tornare indietro?
Il rischio di tornare indietro significava rinunciare al successo, quindi rinunciare a portare a termine la parete Rupal! Quella parete costituiva la sfida più importante dell’epoca. Ovviamente, entrambe le soluzioni erano possibili: andare avanti o tornare indietro. Sapevamo che il margine era molto ridotto. Ma abbiamo deciso di andare avanti comunque. L’altra opzione avrebbe significato tornare indietro insieme. Non so se oggi sarei in grado di prendere una decisione di questo tipo. In quel momento la nostra gioventù ci ha permesso di affrontare un rischio così elevato.
Sente di essere stato troppo spavaldo in quel momento?
Forse. Sarebbe stato più ragionevole tornare indietro. Ma capisco che abbiamo osato, che abbiamo reagito in quel modo. Eravamo giovani ed entusiasti. Per la prima volta in quella formazione, a quella quota. E la speranza di farcela era quasi nulla.
Quindi coraggio e stupidità sono parenti stretti.
Sì. Sapevamo che il rischio era estremamente elevato. In questo senso non eravamo certo sciocchi. Solo quando vado in un posto dove non dovrei andare, e lo faccio senza alcuna paura, dimostro di essere stupido. Un manager che prende una decisione senza conoscere nei minimi dettagli la situazione e senza valutare tutti i rischi non è mai coraggioso, è solo negligente. Gli alpinisti convinti che in montagna non ci siano pericoli sono stupidi. Non sanno quel che fanno.
(Wirtschaftswoche, dicembre 2004)
Un percorso politico
La politica mi ha sempre interessato. Prima a livello locale, poi nazionale. In seguito, grazie ai viaggi e alle spedizioni, sono venuto a contatto con i problemi del Tibet, del Caucaso, del Kazakistan e del Nepal. In ogni luogo nel quale sono arrivato ho letto i giornali locali, ho parlato con la gente e ho cercato di capire la situazione dei singoli paesi. Alla fine, come deputato al Parlamento europeo, ho avuto addirittura l’opportunità di contribuire, anche se in modo marginale, alla pacificazione di zone di crisi. Nel 2002, anno internazionale della montagna, ho messo a punto una «Carta dei valori delle montagne d’Europa».
MA LA REALTÀ È IL CAOS
Cosa richiede una forma fisica migliore, la salita di un ottomila oppure un giro come quello che sta facendo in Turingia e Sassonia?
Sono imprese completamente diverse, ovviamente dal punto di vista fisico la prima richiede molto più impegno. Un giro di conferenze invece è più stressante. Per fortuna riesco a recuperare durante le spedizioni.
Lei si è guadagnato la reputazione di solitario estremo, eppure su migliaia di persone esercita una grande autorità. Le costa sforzo, oppure è semplicemente un altro modo per confrontarsi con un limite estremo?
La questione del solitario estremo è solo un pregiudizio. Ho sempre avuto l’ambizione di essere bravo in qualunque disciplina mi cimentassi – prima nell’arrampicata su roccia, poi nell’alpinismo d’alta quota, oggi nelle traversate sul ghiaccio –, ho sempre cercato di fare qualcosa da solo. Per mostrare a me stesso e agli altri che posso farlo, autonomamente. Ma ho compiuto quasi tutte le mie imprese con un partner. Su 3500 salite in montagna, avrò realizzato un centinaio di solitarie.
Lei è altoatesino e cittadino italiano. La Germania del futuro le fa paura?
No. Sono dell’idea che l’Europa possa essere forte solo se unita. Se questo non accadrà la situazione europea sarà molto preoccupante. Dal punto di vista economico e degli equilibri di pace interni. Se non saremo in grado di creare un’Europa unita, dimostreremo di essere poveri. Immagino l’Europa futura come un’unità nella diversità: diverse etnie, stati confederati, cantoni, regioni. Alla fine gli Stati nazionali dovranno cedere il loro potere. Non dobbiamo distruggere gli Stati nazionali, dobbiamo accettarli come «bastone» – ci tengo a sottolinearlo, non come «ponte», perché gli Stati nazionali sono concettualmente sbagliati, da sempre.
L’Alto Adige è una mecca per i turisti. A suo avviso potrebbero esserci delle conseguenze negative sul territorio?
L’Alto Adige è una regione piccola, deve vivere di turismo. L’agricoltura da sola non basta, tanto meno l’industria – abbiamo solo la bellezza della natura. Ma se questo turismo non è cosciente, prima o poi rovinerà il territorio. Già in passato ci siamo incamminati su questa strada. Ogni anno abbiamo sacrificato un pezzetto di terra, abbiamo costruito in maniera indiscriminata impianti di risalita, abbiamo disseminato di strade le alte valli. Bisogna che questa tendenza si interrompa. Dobbiamo fare tesoro del nostro capitale-natura, dobbiamo impegnarci in un turismo di qualità.
In generale, secondo lei cosa dovremmo fare per salvare l’ambiente nel prossimo millennio?
Se nel corso del prossimo secolo saremo capaci di risolvere i problemi ecologici e la questione energetica, avremo già fatto molto. Un compito multinazionale. Che vantaggio traiamo noi occidentali dal risolvere i problemi ecologici, se Stati Uniti, Cina, India e Russia continuano ad appestare l’aria? Per questo ci serve un’Europa unita.
Non crede che sarebbe comunque necessaria un’umanità intatta prima ancora di un ambiente intatto?
Le grandi questioni dell’umanità potranno essere risolte solo su un piano globale. Sul piano economico già tutto il mondo collabora. Ma non è sufficiente. Altrimenti saremo noi a diventare il cosiddetto «terzo mondo».
Pensa che ci sarà una nuova glaciazione?
Forse fra duemila anni. Non sono uno scienziato, ma alcuni dicono che l’attuale riscaldamento anticipi una nuova glaciazione.
Il suo è un atteggiamento catastrofista?
Non è certo questo che farà finire il mondo e tanto meno l’uomo. Ma le cose peggioreranno decisamente: l’umanità commetterà un suicidio di massa. Prima o poi cadrà vittima di un errore madornale – il lancio di bombe atomiche, oppure l’invenzione di sostanze chimiche non controllabili, o l’uso irresponsabile delle fonti di energia. L’uomo scomparirà come tutte le specie di questa Terra che sono diventate troppo forti. I fossili negli strati di roccia sedimentata sono la dimostrazione vivente di questa realtà.
Cosa verrà dopo l’uomo?
Potrebbe trattarsi di un altro essere intelligente capace di autodeterminarsi. La decadenza è iniziata quando l’uomo è salito sul pulpito per annunciare di essere il coronamento della creazione. Siamo così limitati nella nostra capacità di immaginazione che riusciamo solo a figurarci questo mondo. Abbiamo imposto alla Terra il nostro linguaggio, crediamo di dominarla. Ma la Terra non è come noi la vediamo. La Terra ha un’altra realtà. Le leggi naturali sono un’invenzione dell’uomo, una convenzione che ci tranquillizza, ma la realtà è il caos. In ogni caso io mi limito a osservare e a piantare nuovi alberi. Non c’è nulla di più interessante che osservare il tramonto dell’umanità.
(Freies Wort, dicembre 1993)
TIBET – L’UOMO SUL TETTO DEL MONDO
Il pilota che mi accompagna a Lhasa, la città sacra sopra le nuvole, si orienta osservando lo Tsangpo. Il fiume, che da sponda a sponda misura chilometri, fluisce sinuoso nel suo letto che la sabbia rende giallo e, attraversando una gola verde, arriva fino in India, dove prende il nome di Brahmaputra. Sulla sinistra vedo l’Himalaya: deserti montuosi, pareti di ghiaccio, ghiacciai che brillano nel sole. Sotto di me il Tibet.
Sono passati ormai quasi quarant’anni da quando, durante le mie prime spedizioni agli ottomila, ho cominciato a guardare con grande desiderio a questo paese di colline dai colori pastello, nel nord della catena dell’Himalaya, affascinante quanto inaccessibile. La Cina ne aveva fatto un mondo proibito. Quando nel 1980 furono di nuovo autorizzate le spedizioni in Tibet, io ero lì. Al termine di lunghe trattative con Pechino avevo ottenuto l’autorizzazione per una solitaria sul versante nord dell’Everest. Da allora, arrivandoci da ogni direzione possibile, ci sono tornato varie volte – là dove si è più vicini al cielo.
Nessun paese è situato così in quota (fra i 1500 e gli 8846 metri), nessuno è di così difficile accesso: a nord il deserto, a sud la catena montuosa più alta del mondo. Un baluardo assediato da ogni parte, con una propria lingua e una propria cultura, rocca difensiva del lamaismo, un ramo del buddhismo, e di una natura che non conosce uguali al mondo. Sua santità il Dalai Lama, capo spirituale di circa sei milioni di tibetani, ha così descritto la sua patria: «Separati dalla terra, molto vicini al cielo, nell’aria chiara e sottile delle montagne che fa accelerare il battito del cuore e rende più arditi i pensieri, gli uomini raggiungono con maggiore facilità il significato dell’essere».
Atterriamo su un piccolo campo nella valle dello Tsangpo, a due ore di jeep da Lhasa, la città misteriosa nel leggendario paese delle nevi: per secoli meta agognata e oggetto del desiderio di amanti dell’avventura, esploratori e mistici. Fra questi, Sven Hedin, studioso svedese dell’Asia, tentò, indossando le vesti del pellegrino, del pastore, del mercante, e sottoponendosi a fatiche inimmaginabili, di avvicinarsi alla città del dio-re. Senza successo – non riuscì mai a vedere Lhasa.
Il nostro piccolo convoglio solleva una gigantesca nuvola di polvere nella valle del fiume. Sulla pianura arida, grigio-marrone, si innalzano pareti di roccia violetta. Sopra, solo il cielo, di un blu molto scuro. Controluce brillano, come una macchia di colore verde chiaro, i pascoli sui quali svettano i boschetti di pioppi. Qua e là un minuscolo villaggio, bambini che ridono, case coi muri di calce e templi, sui cui tetti piatti sventolano le bandiere colorate della preghiera.
Campo di nomadi tibetani.
Lhasa. Al centro una collina, da dove, come una fata morgana, i tetti dorati splendono nel sole. Il Potala! Una gigantesca fortezza bianca, una magia aerea. Il palazzo del dio-re, fino a quando nel 1959 i cinesi mandarono in esilio in India sua santità, il giovane Dalai Lama. Nove anni prima Mao aveva ordinato di «liberare» il popolo dei tibetani. I conquistatori comunisti seminarono terrore e paura e combatterono contro la religione e la cultura del paese, come se si trattasse di porre fine a una pestilenza. I tibetani furono umiliati e sottomessi, i monasteri bombardati, i monaci torturati, i bambini rapiti. Sul tetto del mondo si perpetrò la sistematica distruzione di una cultura antichissima. L’immigrazione dei cinesi Han contribuì a fare dei pacifici tibetani una minoranza esotica nel loro stesso paese.
La cordialità, la mitezza dei tibetani fonda le sue radici nella dottrina buddhista. Si basa sulla consapevolezza che la vita è sofferenza fino a quando è dominata da avidità, aggressività e ignoranza. Antidoti sono generosità, mancanza di pregiudizi, attenzione e compassione.
Sul Parkhor, l’anello di strade dell’antica Lhasa, i pellegrini girano intorno al tempio Jokhang: uomini imponenti della provincia di Kham, che hanno abbellito la loro acconciatura a trecce con nastri di lana rossa, tibetani di Amdo con i loro copricapo tondi, nomadi del Nord con indosso pellicce di pecora dal cuoio grasso. Il profumo degli incensi e delle lampade a burro penetra nei vecchi vicoli, nei quali riecheggiano le parole Om mani padme hum, la formula di preghiera ripetuta continuamente, mormorata in tono sommesso, melodia di base di tutte le voci.
Una vecchia compie il giro del Parkhor obbedendo alla tradizione. Ogni volta che con la fronte tocca la polvere si rialza a fatica per ributtarsi a terra nel punto in cui le sue mani hanno benedetto la strada. Alcuni pellegrini hanno percorso così l’intero tratto dal loro villaggio fino a Lhasa, magari per più di mille chilometri.
Parallelamente alla distruzione delle tradizioni procede anche la distruzione della natura. Sono sempre più numerosi i cinesi che arrivano in Tibet a disboscare, a depredare il sottosuolo e ad avviare imprese industriali. Là dove si intuisce un’opposizione i militari intervengono duramente.
I tibetani sono sempre stati poveri di libertà. Purtroppo corrisponde a verità ciò che Pechino adduce ufficialmente come motivo per la «liberazione» violenta: prima erano i monasteri che sottomettevano il popolo. Ma il giovane Dalai Lama aveva già avviato il suo paese lungo la via delle riforme, e i cinesi hanno interrotto in modo violento lo sviluppo che aveva fatto nascere qualche timida speranza. Nella mia veste di viaggiatore, di conferenziere e politico mi sono sempre schierato dalla parte delle richieste politiche del Dalai Lama. Naturalmente, per questo ho subito diverse conseguenze spiacevoli da parte cinese.
Dopo essere stato denunciato in un monastero da una spia cinese travestita da monaco e, in un’altra occasione, essere stato trattenuto dalla polizia per una settimana, ho imparato abbastanza bene a cavarmela su questo gigantesco altipiano. Così sono arrivato con i miei mezzi ad Amdo, a Kham e nel deserto del Chang Tang. E proprio là dove i cinesi non osano andare, dove la gente vive il nomadismo come mille anni fa, lo spirito del Tibet è ancora conservato. Ben lontano da ogni strada, da ogni aeroporto e da ogni torre radio vengono costruiti i monasteri, dipinti i thanka e cantati i mantra. È così che ancora si mantiene viva la speranza del Dalai Lama, cioè che lo spirito tibetano possa rivivere partendo proprio da queste fonti, ai margini del paese delle nevi. Spero insieme a lui che il Tibet non sia perduto e che prima o poi risorga.
(Hören und Sehen, giugno 1999)
LA CARTA DEI VALORI DELLE MONTAGNE D’EUROPA
Le regioni montane dell’Europa (sopra i cinquecento metri di quota: Alpi, Appennini, Pirenei, Sierra Nevada, Carpazi, aree di mezza montagna in Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Germania, Svizzera, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Spagna, Portogallo, Alpi dinariche, monti della Scandinavia, Grecia e Bulgaria), oltre al clima, alla varietà geografica e al richiamo come luoghi di cura, di riposo e di svago, presentano strutture socio-economiche simili tra loro grazie alle quali rappresentano un elemento unificante in seno alla UE.
La loro importanza, per la UE di oggi come per quella allargata, non va ravvisata soltanto nei problemi tipici di queste aree, ma anche nei pregi che le accomunano: la funzione di riserve d’acqua e di energia idrica, le loro caratteristiche in quanto ecosistemi, aree di biodiversità, luoghi di riposo, di quiete e di recupero delle energie fisiche, i loro spazi aperti alla fantasia, ricchi di identità proprie e culturalmente diversificate, e infine le loro risorse agricole (razze tradizionali di animali domestici, piante commestibili, aromatiche e officinali ecc.).
Le aree montane rappresentano un terzo della superficie della UE. Oltre alle sfide che affrontano a livello locale, queste zone hanno in comune anche le prospettive di soluzione dei loro problemi.
Va dunque sviluppata una concezione globale e transfrontaliera, rispondente alle esigenze di sostenibilità e in grado di garantire posti di lavoro: solo così sarà possibile difendere le caratteristiche di maggior pregio di queste zone, per assicurare i mezzi di sussistenza alla popolazione locale e garantire aree di sfogo, di rigenerazione e di svago agli abitanti dei centri urbani. La posta in gioco è la salvaguardia delle aree montane come spazi di vita.
Il «decalogo dei valori» delle aree montane, discusso nel 2002, dovrebbe costituire uno stimolo per la creazione, nell’ambito della UE, di condizioni quadro per riaffermare la reale importanza di tutte le zone montane.
1. Le zone montane europee comportano un insieme di piccole realtà paesaggistiche rurali portatrici di un retaggio culturale, configurate e curate per millenni da mani umane, e in talune parti anche magnifici paesaggi d’alta montagna, che in quanto tali rappresentano un valore unico e indivisibile.
2. Il mantenimento e la cura di queste regioni montane va a beneficio di tutti gli europei. In gioco sono infatti la tutela delle acque, la salvaguardia di spazi per il riposo e il tempo libero, la produzione di alimenti sani di elevato valore nutritivo, e infine la difesa di un polmone verde, a vantaggio delle zone vicine ad alta concentrazione abitativa in particolare, e dell’intero territorio della UE in generale.
3. Il presupposto fondamentale e irrinunciabile per tutte le attività necessarie alla salvaguardia del paesaggio rurale montano è la presenza di una popolazione locale stabile, che abbia la possibilità di organizzare e configurare autonomamente e responsabilmente i propri spazi di vita.
4. Per quanto attiene all’alta montagna sopra il limite boschivo, divenuta accessibile al turismo solo dopo l’avvento delle moderne infrastrutture, il valore di queste zone sta nell’ampiezza degli spazi, nel silenzio e nei grandiosi, incontaminati paesaggi. E anche nei rischi che presentano.
5. Questi valori, benché apparentemente privi di ogni carattere utilitario, vanno protetti e non soltanto perché nell’ambito della UE si stanno facendo sempre più rari. È indispensabile salvaguardare l’integrità di questo mondo dell’alta montagna, che rischia di andare irrimediabilmente perduto se non si pone termine alla creazione di infrastrutture. È quindi imperativo fermare la costruzione di nuovi impianti ad alta quota.
6. Non si dovrebbero facilitare ulteriori incursioni in queste regioni d’alta montagna con l’impiego delle moderne tecnologie e infrastrutture. Chi vi si reca facendo uso delle proprie energie, autonomamente e responsabilmente, astenendosi dal lasciare di sé tracce durevoli, impara presto a rispettare il valore della natura incontaminata e a difendere questi spazi a rischio.
7. Solo una politica di insediamenti decentrati, orientata all’uso sostenibile delle aree montane al di sotto del limite boschivo, può renderle raggiungibili, accessibili e percorribili, creando così le condizioni di base per potervi soggiornare, rigenerare le proprie energie e vivere l’esperienza della natura. Per garantire inoltre anche alla popolazione locale una buona qualità della vita è necessario che i percorsi di transito siano concepiti in modo da ridurre al minimo l’inquinamento acustico e le varie forme di contaminazione e nocività.
8. Reinhold Messner ravvisa la chiave della salvaguardia delle sue aree montane in un approccio contestuale, che tenga conto dei problemi della vita locale, della cura del paesaggio nel rispetto del suo retaggio culturale, così come della necessità di difenderlo dall’invasione delle infrastrutture. Sono queste condizioni indispensabili perché a lungo termine la montagna possa rimanere fruibile, anche a scopo turistico. L’abbinamento tra agricoltura e turismo rappresenta la chiave per uno sviluppo locale sostenibile. La cooperazione interregionale delle zone di montagna dovrebbe essere promossa e un’ampia dimensione di autogoverno dovrebbe trovare riconoscimento nelle istituzioni della UE.
9. Solo la difesa del retaggio culturale regionale, dei valori paesaggistici e dell’ineguagliabile bellezza dei panorami alpini possono garantire la sostenibilità alle popolazioni montane e promuovere la loro consapevolezza dei valori che custodiscono, grazie all’identificazione con i propri spazi di vita.
10. Esiste un rapporto di reciproca necessità tra le regioni montane e i centri ad alta concentrazione abitativa. La montagna rappresenta una valida difesa contro le calamità naturali per le aree di pianura e per i centri urbani, a condizione che con il loro aiuto sia salvaguardato il suo equilibrio e garantita la sussistenza delle comunità montane. In un suo documento del 1999, intitolato Prospettive di sviluppo degli spazi europei (European Development Perspective, ESDP), la UE ha stabilito che per uno sviluppo sostenibile l’Europa ha bisogno di una struttura economica e abitativa concepita in vista di un «uso equilibrato dei suoi spazi». Un ulteriore spopolamento delle aree montane, con la conseguenza di una crescente concentrazione della popolazione nelle aree urbane, non può che avere conseguenze negative. Perciò la UE attua le misure necessarie per contrastare uno sviluppo di questo tipo.
La maggior parte delle regioni montane extracomunitarie – che spesso sono situate lontano dai centri cittadini – ha, per le condizioni socio-economiche della popolazione locale, altri problemi rispetto a quelli che conosciamo in Europa. Gli approcci di soluzione che hanno elaborato i modelli europei possono trovare pertanto soltanto in pochissimi casi un’utile applicazione.
(Memorandum per il Parlamento europeo, 2002)
«RESTO NELLA POLITICA»
Al termine della prima legislatura al Parlamento europeo Reinhold Messner (Gruppo dei Verdi) non si ricandida. Nell’intervista Messner parla dei motivi del suo ritiro, fa un bilancio dei cinque anni, esprime le sue opinioni sull’Alto Adige e sui suoi progetti per il futuro.
Lei è stato eletto cinque anni fa al Parlamento europeo, nelle liste dei Verdi. Possiamo dire che la sua marcia attraverso il deserto è iniziata allora?
No, non ho mai pensato di fare il politico di professione. È un ambiente che ha poca attinenza con la vita pratica.
Lei non si ricandida. Frustrato?
I motivi sono diversi. Innanzitutto sono i miei figli a essere contrari. In secondo luogo non posso dedicarmi all’organizzazione dei musei e allo stesso tempo sedere a Bruxelles. Non voglio fare entrambe le cose a metà, al contrario di molti che svolgono due attività e in genere fanno politica. Per garantirsi economicamente il futuro. Per fortuna riesco a cavarmela anche al di fuori del Parlamento. Posso dire la mia riguardo all’Europa, la guerra in Iraq e l’Alto Adige, se mi chiedono un’opinione. Posso essere più o meno convincente. In caso contrario anche l’attività parlamentare sarebbe inutile.
A Bruxelles il singolo non può spostare le montagne, vero?
Qualunque membro del Parlamento che andasse lì affermando di voler cambiare il mondo avrebbe già perso in partenza. Il singolo può fare qualcosa solo se è inserito in un organismo di rappresentanza. Le faccio l’esempio della dichiarazione di appartenenza ai gruppi linguistici: in questo caso un contrasto fra lo Stato italiano e Bruxelles. Decidono il commissario Bolkestein, il ministro degli Interni La Loggia e il governatore altoatesino. Solo componendo questa triade si potrà sperare in un cambiamento positivo.
L’Europa ingloberà altri dieci Stati, lei cosa ne pensa?
Forse l’Inghilterra non entrerà. Al momento non vedo alcuno sviluppo positivo. Se Tony Blair punta a un referendum per motivi populistici – è in gioco una sua eventuale rielezione – la costituzione non si farà. E senza una costituzione europea venticinque Stati non sono governabili. Nel mondo globalizzato nessun paese europeo ha una dimensione tale da consentirgli di prendere una posizione. Messi insieme, invece, siamo abbastanza forti. Dal punto di vista economico, ma anche per quanto concerne i valori: sicurezza di pace, difesa, tecnologie di base, energie rinnovabili, difesa dei consumatori, ambiente.
Un blocco compatto che si pone fra America e Asia?
No, in parallelo ad America e Asia. Non dobbiamo affatto separarci dagli altri oppure tenerli in scacco. Continueremo a collaborare con l’America, ma dobbiamo assumere posizioni indipendenti. Ora è importante che l’Europa elabori una sua politica di difesa autonoma. Non deve più scoppiare una guerra come quella della ex Iugoslavia. Abbiamo bisogno di eserciti di professionisti, per la precisione di truppe formate specificamente in ogni paese della UE. Dobbiamo essere in grado di risolvere da soli i problemi dell’Europa, dobbiamo creare la figura di un ministro degli Esteri comune.
Quali grandi sfide vede nel futuro dell’Europa?
È ovvio che tutti i ministri degli Esteri della UE collaboreranno per delineare la politica estera, l’importante è che si parli con una voce unica. Numero due: dobbiamo prendere una posizione in campo economico. Attualmente perdiamo anno dopo anno posti di lavoro a favore della Cina, per quanto concerne la produzione, e a favore dell’India, per quanto concerne i risultati. Non dobbiamo ergerci contro queste forme emergenti di economia politica. Ma dobbiamo fare attenzione a non passare dalla parte dei perdenti in questo nuovo mondo che si sviluppa a una velocità sorprendente. Fra l’altro, rispetto all’America, in Europa perdiamo ogni anno centomila lavoratori «eccellenti». Un terzo punto è rappresentato dall’ecologia: difesa del consumatore, circolazione, mobilità, tutti campi che vanno organizzati in modo nuovo. Finora in questi settori abbiamo assistito solo a professioni di fede formali. Bisogna lavorare alle energie rinnovabili. Un ulteriore problema futuro è costituito dall’invecchiamento eccessivo della popolazione della UE.
Questa volta i Verdi si presentano con lo stesso programma in tutti i paesi. Il primo partito della globalizzazione?
Si tratta del primo partito globalizzato, anche se limitatamente alla UE. Per i Verdi sono appena stato in Sassonia, in Slovenia, in Polonia. In Germania sono intervenuto varie volte, e anche in Italia continuerò a impegnarmi per le questioni inerenti la UE.
Dove si può leggere il suo «rendiconto»?
Nel mio libro Salvate le Alpi. È in vendita, non viene distribuito gratuitamente. È stato pubblicato nel 2002, l’anno della montagna. Non un fondo di magazzino, bensì un libro politico, tradotto in varie lingue. Se le interessa, se lo può comperare. Lo sa, no? Quel che non costa nulla non ha alcun valore.
Nel triangolo fra politica, economia e montagna, Herbert Henzler, numero uno di McKinsey, mi ha sempre regalato consigli preziosi.
Di quali settori si è occupato maggiormente?
Di tutto ciò che riguarda l’Alto Adige: il tunnel di base del Brennero e la sua iscrizione nel Libro Bianco della UE.
Tunnel di base del Brennero: non sarà una cosa da poco per l’Alto Adige, o sbaglio?
La mia ultima presa di posizione, sotto forma di un’interrogazione posta alla commissione, riguarda proprio questo problema. Questo è il mio «testamento» su questo punto. Il nodo cruciale è come le cose vanno fatte! Non se. Alle mie spalle ci sono molti esperti. In Alto Adige se ne discute assai poco, dato che la SVP collabora con alcuni gruppi d’interesse e si muove in una direzione che alla fine condurrà alla catastrofe, tanto quanto l’autostrada del Brennero. Adesso si tratta di prevedere gli sviluppi dei prossimi trent’anni.
Una critica a chi governa la regione?
No, non ho niente contro il fatto che l’ufficio che si occupa della progettazione del tunnel di base sia a Bolzano. Sono però contrario al fatto che si progetti per i prossimi sessanta, cento, duecento anni senza conoscere prima i contenuti. Nessuna tecnologia d’avanguardia, meglio il traffico misto, con tecnologia del diciannovesimo secolo. E chi sa come si svilupperanno le vie d’accesso e d’uscita? Per eliminare dall’autostrada del Brennero il nostro problema principale, il traffico pesante, c’è una sola soluzione, e va cercata a Bruxelles, non certo a Bolzano. Questo significa che il tunnel va visto come un tratto del collegamento Amburgo-Napoli (TEN) e quindi vanno fissati dei divieti di transito. Come? Il tunnel di base con le sue vie d’accesso e d’uscita viene costruito in modo che, in ottemperanza al regolamento fissato da Bruxelles, il traffico pesante viene convogliato su rotaia a Monaco e abbandonerà la ferrovia a Verona, e viceversa. Non vale la pena di pensare a un trasbordo per la tratta Innsbruck-Franzensfeste. Logistica troppo cara e complicata. Di ciò bisogna convincere i commissari che hanno voce in capitolo nella vicenda. Bisogna che il problema del divieto di transito venga considerato insieme a quello del tunnel Kufstein-Verona. L’ho già detto molte volte al presidente della regione. Non è una richiesta solo mia. Il treno progettato viaggia a 250 chilometri all’ora. Così dicono i piani. Il nostro territorio non può sopportare una situazione del genere. Sarebbe perfino peggiore dell’autostrada attuale. In futuro il problema sarà il rumore, molto più che i gas di scarico.
Ma Bruxelles rappresenta una sorta di gradito «uomo nero» per un partito che deve difendere una maggioranza assoluta?
La SVP ha sempre avuto bisogno di un «uomo nero». Prima era Roma, oggi è Bruxelles. Anche se l’Alto Adige ha ben pochi motivi per criticare Bruxelles. Bruxelles è la nostra base politica. È lì che vengono scritte a caratteri cubitali l’accettazione dell’autonomia e la difesa delle minoranze. Dobbiamo mettere le carte in tavola una volta per tutte e dichiarare chi siamo. Noi siamo altoatesini ed europei, non austriaci, tedeschi o italiani. Io la penso così. In quanto altoatesini di lingua tedesca apparteniamo al gruppo linguistico più ampio d’Europa. L’Italia, tutte le nazioni, non ricoprono più in Europa il ruolo che svolgevano vent’anni fa. Gli unici che rappresentano una vera minoranza da noi sono i ladini.
Con Michl Ebner avete avuto punti di contatto sul piano dei contenuti?
Ci saremmo trovati in accordo su molti punti, se solo Ebner fosse capace di una collaborazione. Non dipendo in alcun modo da lui o dal suo gruppo. Non sono nemmeno disposto a farmi imbrigliare. Se Ebner è convinto di poter dominare l’Alto Adige con il suo monopolio mediatico, mi schiererò sicuramente all’opposizione. Definirei questo atteggiamento una dimostrazione di coraggio civile. Non mi piegherò mai al suo gioco.
A prendere per buono ciò che riferisce il quotidiano Dolomiten, si ricava l’impressione che Ebner si faccia in quattro per l’Alto Adige, mentre Messner non ha fatto nulla o ha combinato solo guai. Quindi è lei che sputa nel piatto in cui ha mangiato?
Penso che Ebner abbia un problema psichico, che soffra di una specie di sindrome del sacrificio. Ha costantemente bisogno di qualcuno che arrechi danni all’Alto Adige, che «sputi nel piatto», che «tradisca la patria», perché questo gli consente di apparire come il grande salvatore della sua terra. In questi ultimi cinque anni si è sempre impegnato per apparire come l’Andreas Hofer dei tempi moderni. È Ebner che spiana il cammino, che salva la situazione. Quindi il cattivo è l’altro. Lui vuole per forza essere il buono. Ha avuto bisogno di me nel ruolo del cattivo, perché così ha acquisito uno status. È uno schema di pensiero medievale, ma permette di capire molte cose. A ogni modo, sono sempre stato io il primo a stabilire un contatto. Ma forse il mio collega non è assolutamente in grado di capire le correlazioni.
Recentemente il Parlamento europeo ha autorizzato un rapporto nel quale si critica la concentrazione dei media, soprattutto nelle mani di Berlusconi...
Questa proposta, che descrive alla perfezione la situazione italiana, è da ricondursi in origine a una mia iniziativa. Dopo mesi di insistenze i Verdi si sono fatti carico del problema. Poi c’è stato un congresso a Bruxelles, al quale hanno partecipato personaggi importanti della politica mediatica. Ne è nata una discussione molto interessante. Nonostante i partiti popolari, che erano contrari perché comprendono al loro interno anche Forza Italia, il movimento fondato da Berlusconi e al quale aderisce fra gli altri anche Ebner, il presidente del Consiglio italiano è stato ammonito. Di conseguenza anche Ebner.
Cosa è cambiato radicalmente in Alto Adige negli ultimi cinque anni, dal punto di vista politico?
Molte cose! La gente comune, la base dell’elettorato, non si lascia più imbrigliare da nessun tycoon dei media. Gli altoatesini ragionano con la loro testa. Sono diventati democraticamente maturi. Possiamo dire che oggi in Alto Adige vigono condizioni quasi democratiche. In questo senso la Volkspartei non è affatto un elemento negativo, deve solo svecchiarsi un po’, deve democratizzarsi al suo interno. Resterà il partito leader. Ma deve imparare ad accettare la concorrenza. Con il trucchetto adottato finora, un giornale alle spalle che toglie dal percorso qualunque intralcio – quindi la doppia posizione di monopolio –, la SVP non se la cava più. Ormai la maggior parte degli altoatesini ha capito quali erano i metodi che venivano adottati da noi.
Ma il Messner intellettuale scomodo, il forward thinker, resterà?
Sì, e resterò anche in politica. Perché continuerò a dire quello che penso. In Europa e in Alto Adige. Le mie esternazioni sono sempre state presentate in maniera distorta agli altoatesini. Se gli altoatesini leggessero direttamente quello che scrivo, forse sarebbero d’accordo con me su parecchi punti, anche se spesso mi sono espresso in modo troppo radicale.
(Burggräflermagazin, aprile 2004)
IL SOGNO DELLA PACE IN PARADISO
Una stretta di mano regala qualche speranza: i governanti di Pakistan e India cercano una soluzione per il Kashmir. Il paese himalayano è un pericoloso focolaio di crisi – e una delle regioni montane più belle della nostra Terra. Ci sono stato parecchie volte. Sia nella parte indiana sia in quella pakistana.
Mentre ero seduto sulla terrazza di un ristorante in una strada di Kapalu, vidi all’improvviso brillare, lontano in direzione nord, nel grigio delle nubi cariche di neve, la vetta di una montagna, candida come una perla. Con il binocolo riconobbi nei contorni di quella vetta ondeggiante la mia meta. Ordinai un’altra birra e controllai che lo zaino contenesse tutto quello che ci serve nel momento in cui decidiamo di lasciarci alle spalle, per una o due settimane, il mondo degli uomini, per affrontare l’ignoto.
Dai tetti di fango delle case edificate nella conca si levavano colonne di fumo; nei vicoli spirava il vento caldo dell’estate. Ma al di là della caligine giallastra si delineavano i contorni di una catena montuosa: il Karakorum, che segue alla catena himalayana verso occidente. Nelle creste di roccia che banchi di nebbia e neve confondevano con il cielo vedevo il confine del mondo. Al di là di Hushe mi inerpicai lungo pareti di granito, lasciandomi alle spalle l’ultimo insediamento nomade, l’ultimo rifugio. Gli abitanti della montagna, che mai per nessun motivo sarebbero saliti in quel mondo di roccia al di sopra del territorio di caccia, mi seguirono con lo sguardo, come fossi un fuorilegge.
È difficile immaginare che questo paesaggio montano, così lontano da tutto, possa diventare un teatro di guerra. Eppure un confine armato divide il Karakorum, al quale appartiene la seconda vetta della terra, il K2: ai suoi piedi si estende l’antico principato del Kashmir, per il quale ormai da sessant’anni si combattono Pakistan e India.
Il campo di battaglia più elevato del pianeta, a seimila metri d’altezza, è il ghiacciaio di Siachen. Lì le temperature possono scendere a meno sessanta gradi; durante le bufere di neve i venti soffiano fino a centosettanta chilometri orari. Qui nessuno è vincitore: nove soldati su dieci periscono a causa della natura ostile, non per il fuoco nemico. Perché allora Pakistan e India non ritirano le loro truppe? L’orgoglio nazionale, le tensioni etniche e i conflitti religiosi sono solo la facciata. In realtà ciò che interessa è l’acqua che scende dalle montagne, necessaria per la sopravvivenza di entrambi i paesi.
È l’acqua del Karakorum e dell’Himalaya a rendere il Kashmir così fertile e perciò appetibile per i paesi vicini. La fiorente regione montana è stata il giardino dei piaceri per gli imperatori islamici Mogul; esploratori e turisti l’hanno descritta come lo Shangri-la, l’ambito paradiso terrestre. Oggi quella che era la «Svizzera dell’Himalaya» è lacerata, sfinita, impoverita – e, come se non bastasse, è diventata una polveriera. Qualche anno fa, alla luce delle posizioni sempre più rigide assunte dai due fronti, sembrava che non si dovesse escludere neppure l’ipotesi di un’imminente guerra nucleare.
Da quando nel 1947 è avvenuta la divisione del subcontinente, Pakistan e India si fronteggiano come due vecchi pugili che lottano sul bordo di un precipizio. È l’opinione di Salman Rushdie, lo scrittore nato a Bombay. Due stati con un potente armamento si tengono militarmente in scacco, con costi miliardari, anziché impiegare questi mezzi per scopi sociali ed economici. Il pomo della discordia è il Kashmir, che dopo il ritiro della potenza coloniale inglese avrebbe voluto restare indipendente. Invece una guerra ha diviso il paese in due parti, le quali pretendono entrambe l’intero territorio. Pure la Cina ambisce a una fetta della torta. Agli undici milioni di kashmiri non è stato chiesto nulla; un referendum, indetto nel 1949 dall’ONU, non si è ancora tenuto.
Da allora il conflitto cova sotto la cenere, con ripetute scaramucce di confine, che nel 1965 sono sfociate in una seconda guerra. Ma nella valle del Kashmir, occupata dall’India, la situazione si è mantenuta relativamente pacifica; il turismo ha portato un po’ di benessere nel paese. La bellezza silenziosa del lago Dal, con le sue case e gli hotel galleggianti, l’atmosfera incomparabile della capitale Srinagar, con le sue case di legno riccamente decorate, hanno attratto moltissimi visitatori – fino a quando, nel 1989, dopo uno scandalo elettorale, anche qui è esplosa la violenza. Musulmani radicali e fanatici hindu conducono da allora una guerra del terrore senza esclusione di colpi, guerra che l’esercito indiano tenta di fermare ricorrendo a metodi sempre più brutali.
Nel frattempo la speranza della pace sta fiorendo in Kashmir. Il presidente pakistano Musharraf, dal quale sono stato ricevuto con la delegazione della UE, ha compiuto alcuni primi passi significativi, nonostante le minacce delle forze radicali: tregua lungo la Line of Control che divide il Kashmir; comunicazioni; invito al colloquio. Anche l’India è aperta alle trattative: alla lunga, l’impiego di settecentomila soldati nel Kashmir è oneroso. La stretta di mano storica fra i leader dei due paesi in lotta potrebbe rappresentare l’inizio della fine di un incubo che da decenni domina uno dei paesaggi più belli della Terra.
Questo paese, in equilibrio fra un presente terribile e un futuro incerto, potrebbe invece essere un paradiso. Da ormai quasi sessant’anni la popolazione vive in una specie di inferno, benché desideri una sola cosa: finalmente la pace.
(TV Hören und Sehen, febbraio 2004)
Il mio impegno sociale
Da trent’anni sostengo in modo non sistematico associazioni e fondazioni che si occupano delle popolazioni delle regioni montane del mondo. Il mio esempio in questo senso è e resta Sir Edmund Hillary, che ha dedicato la seconda metà della sua vita agli sherpa del Nepal. È straordinario quello che ha raggiunto con e per loro. Il mio sostegno va anche a sua santità il Dalai Lama, che si impegna per i problemi del Tibet. Ma anche tutte quelle organizzazioni che perseguono un obiettivo sociale o politico-culturale in questo campo godono del mio pieno rispetto, dal momento che come loro cerco di aiutare i più poveri fra i poveri, cioè i popoli della montagna. A questo scopo ho istituito una fondazione, la Messner Mountain Foundation (MMF). Il mio obiettivo è aiutare a raggiungere l’autonomia. Gli indigeni dell’Himalaya, del Karakorum, delle Ande, del Caucaso devono riuscire a sopravvivere grazie all’agricoltura e al turismo.
SULLA STRADA DEI VULCANI
«Indossavano scarpe basse, abbigliamento normale, non avevano guanti. Soffrivano di giramenti di testa, emorragie gengivali, malessere generale e difficoltà respiratorie» così scrisse Alexander von Humboldt nel suo diario, descrivendo tra l’altro per la prima volta i sintomi del mal di montagna. Nel giugno del 1802 il ricercatore tedesco tentò di salire, con i suoi accompagnatori, il Chimborazo. A ottocento metri dalla vetta gettarono la spugna. La fatica dovette essere insopportabile sulle pareti coperte di ghiaccio del vulcano alto 6310 metri – l’aria inaspettatamente rarefatta, l’attrezzatura assolutamente inadeguata alla montagna.
A noi, due secoli dopo, le cose sono andate molto meglio sulle montagne dell’Ecuador. Ho trascorso venti giorni nel piccolo paese andino con un gruppo di appassionati di trekking. Non abbiamo affrontato il Chimborazo, che avevo già salito nel 1993. Ma non era questa la cosa più importante. Nell’anno internazionale della montagna non mi interessavano affatto le vette, bensì gli esseri umani che vivono nella loro ombra.
Gli abitanti dell’Ecuador sopportano condizioni proibitive. Del resto, il paese è fra i più poveri dell’America Latina. Ogni anno centinaia di migliaia di persone emigrano, molte di loro in modo illegale, verso la Spagna e l’Italia. È comprensibile che il governo punti tutto sull’estrazione del petrolio – nonostante le conseguenze ecologiche altamente nefaste per la foresta pluviale. Ma l’Ecuador ha un’ulteriore risorsa, che si potrebbe sfruttare in modo ecosostenibile: le sue montagne, di una bellezza eccezionale. Un turismo tranquillo, in sintonia con la natura, potrebbe costituire una garanzia per l’esistenza dei più poveri, gli abitanti indigeni degli altipiani andini. Poiché le classiche mete del trekking – Nepal, Kashmir, Tibet – sono paesi scossi da crisi e conflitti, l’Ecuador potrebbe conquistare una buona nicchia di mercato nel settore del turismo di montagna. Dare un impulso in questo senso è stato lo scopo del mio viaggio.
Un viaggio attraverso una delle regioni montane più affascinanti del nostro pianeta. La «strada dei vulcani», così Alexander von Humboldt definì il tratto che collega Otavalo a nord a Cuenca, nel Sud del paese.
In nessun altro luogo della Terra si susseguono uno dopo l’altro altrettanti vulcani, perdipiù così alti. Dei venti distribuiti su quattrocento chilometri, nove superano i cinquemila metri e otto sono ancora attivi. Gli abitanti di molti villaggi situati alle loro pendici vivono costantemente in allerta, pronti alla fuga. Durante il Capodanno del 2000 anche nella capitale dell’Ecuador si sono sentite ululare le sirene. Per settimane il vulcano Pichincha ha eruttato vapore e braci, fino a un’altezza di migliaia di metri. La polvere ha oscurato il sole, la città di Quito è stata sommersa da uno strato di cenere grigia. È invece inattivo da molto tempo il Chimborazo, la montagna più alta dell’Ecuador, sede di divinità e demoni. Ancora ai tempi di Humboldt – esattamente duecento anni fa – era considerata la montagna più alta della Terra. In un certo senso lo è, benché misuri circa 2600 metri meno dell’Everest: poiché all’equatore il diametro della Terra è al suo massimo, la vetta del Chimborazo rappresenta il punto del globo più distante dal centro del pianeta.
Il mio primo progetto umanitario nell’ambito della mia fondazione (MMF) è stato la realizzazione di una scuola nella valle Diamir, al Nanga Parbat.
Anni fa avevo deciso di scalarlo con Marco Cruz, leggenda dell’alpinismo sudamericano. Era nuvoloso, nebbioso e ancora buio quando attraversammo l’ultimo villaggio. Fra le casupole era rimasta della neve sporca. Sulla soglia di una casa era seduta una vecchia, sulle spalle una coperta di pelle d’agnello. Davanti a lei, accucciati a semicerchio, i bambini avevano chiaramente freddo. Ciò nonostante chiacchieravano allegri e rivolgevano alla vecchia moltissime domande. Il suo viso, che sembrava scolpito nel cuoio, era incorniciato da sottili ciuffi di capelli giallastri. Aveva uno sguardo lontano, saggio, come se dietro la sua fronte rugosa fosse vivo il ricordo di mille anni di inverni ed estati trascorsi sulle montagne, come se custodisse la saggezza che consente al suo popolo di vivere in quel territorio, fin dalla notte dei tempi.
Ho ritrovato Marco Cruz nel mio nuovo viaggio. Oggi non più alpinista estremo, bensì pioniere del turismo, cerca di immaginare un futuro possibile per le popolazioni di montagna del suo paese. In una zona di una bellezza unica, ai piedi del Chimborazo, ha realizzato un vero paradiso. Un’hacienda con allevamento di lama e alpaca, con bungalow in legno e pietra per gli ospiti, rispettosi dello stile architettonico locale. Inoltre è a capo di una scuola di alpinismo che lui stesso ha fondato: dà quindi lavoro a molti che altrimenti sarebbero costretti ad abbandonare le valli. È così che funziona il turismo positivo!
Marco Cruz e la moglie nella loro casa ai piedi del Chimborazo.
Giorno di mercato ad Alao, un paese ai margini del parco nazionale di Sangay. L’offerta è vasta, qui cresce qualunque cosa: frutta, verdura, mais e circa duecento varietà di patate. C’è anche la carne, ma sui banchetti sono esposte solo le parti più povere e convenienti: trippa e interiora. La gente ha pochissimi soldi. Sono in pochi a potersi permettere il piatto nazionale della festa, arrosto croccante di porcellino d’India.
I quadrati dei piccoli appezzamenti formano un motivo sulle pendici dei rilievi che circondano Alao. Più in alto inizia la zona protetta, in lontananza si vedono brillare le vette innevate. Gli abitanti del luogo hanno avviato un progetto pilota che io finanzio. Hanno fondato la prima associazione di portatori dell’Ecuador, seguendo l’esempio degli sherpa nepalesi. Gli uomini di Alao, piccoli e robusti, si prestano quindi al trasporto delle attrezzature di ricercatori e amanti del trekking, cucinano e tengono in ordine il campo. Per otto dollari al giorno – una paga niente male. Sono già stati realizzati un acquedotto e una scuola. Presto verranno terminati dei piccoli lodge, dove le donne potranno vendere tappeti e pullover di lana di pecora. Ovunque nelle regioni montane manufatti artigianali e agricoltura costituiscono la base dell’esistenza.
Alao infonde coraggio. Questo è il modello di un turismo ecosostenibile in Ecuador; così gli indios delle Ande potrebbero vivere autonomamente e in modo onorevole, senza saccheggiare e distruggere la foresta.
Allestiamo il nostro ultimo campo vicino al Cotopaxi, in un bosco di conifere a 3800 metri di quota. Al termine del nostro viaggio intendiamo salire il vulcano attivo più alto della Terra. La sua eruzione più devastante risale a cento anni fa – è ragionevole avere ancora paura? Ogni montagna è pericolosa, un vulcano attivo ancor di più.
Ognuno di noi si prepara a modo suo alla salita, andando a spasso o standosene sdraiato nella tenda. Io mi piazzo al sole a leggere – ebbene sì, anch’io sono emozionato. Il terreno non è particolarmente impegnativo, tuttavia l’attrezzatura per la salita prevede anche corda, piccozza e ramponi. E una frontale, perché dovremo metterci in marcia molto presto. Il Cotopaxi dista non più di settantacinque chilometri dall’equatore. I primi raggi del sole rendono il ghiaccio morbido e infido. Solo chi arriva al cratere sommitale entro l’alba può dire di aver vinto.
Dopo quattro ore abbondanti di salita, alla fine con molte soste rese necessarie dall’aria sottile, siamo in vetta, a 5897 metri: vento, freddo, odore di zolfo. Che silenzio! E poi l’alba: un intreccio indescrivibile di colori. Uno sguardo agli altri seimila ci spinge a elaborare nuovi progetti. E a nutrire speranza per quegli uomini, che a queste montagne danno vita e storia.
(TV Hören und Sehen, dicembre 2002)
BAMBINI DIMENTICATI DA DIO
Una volta mi hanno salvato la vita. Da allora mi sento molto legato alla gente del Nanga Parbat. Per questo motivo organizzo aiuti per le valli più sperdute intorno alla Montagna del Destino. Lì, nel Nord del Pakistan, vive il popolo più isolato della Terra.
Chi si trovasse a percorrere la vallata desertica dell’Indo da Rawalpindi in direzione di Gilgit, noterà il Nanga Parbat per la prima volta poco dopo Chilas. I locali lo chiamano la Montagna Nuda: il paesaggio è spoglio, roccioso, l’occhio non riesce a cogliere neppure una minuscola macchia di verde. Eppure questa regione inospitale non è disabitata. Molto in alto nelle valli Rakhiot, Rupal e Diamir i contadini vivono del tutto isolati dal resto del mondo; poveri e apparentemente senza un futuro. Lungo piccoli canali deviano l’acqua del ghiacciaio fino ai terrazzamenti, sui quali cresce il loro magro nutrimento.
I contadini vivono qui da millenni; nella zona più settentrionale dell’odierno Pakistan, dove si incontrano i quattro massicci montuosi più imponenti della Terra: Pamir, Karakorum, Hindukush e Himalaya. Il potere statale non riesce a penetrare fino alle alte vallate più inaccessibili, ai confini con i focolai di Kashmir e Afghanistan. Si dice che nell’antichità qui si trovassero i regni leggendari di Hunza e Baltistan, che alimentarono i sogni occidentali del misterioso paradiso di Shangri-la.
Quando nel 1970 scesi dal Nanga Parbat nella valle Diamir, attraversai l’inferno: mani e piedi congelati; quasi fuori di senno per il dolore e la disperazione per la perdita di mio fratello Günther. Le prime persone che incontrai mi guardarono intimorite come se avessero avuto davanti agli occhi uno spirito maligno: non mi avevano visto salire e non riuscivano a capacitarsi che qualcuno potesse scendere dall’altro versante della grande montagna. Ma furono questi semplici contadini a salvarmi la vita, trasportandomi giù verso la valle dell’Indo. Impiegai due giorni per tornare nel nostro mondo.
Da allora sono stato dieci volte al Nanga Parbat, più che su qualunque altro ottomila. I contadini mi conoscono, e io conosco loro. So chi ha voce in capitolo nel villaggio e qual è il posto occupato dai bambini. Conosco bene ogni sentiero, ogni sasso. Per me è come essere a casa. I miei salvatori di allora vivono ancora in minuscole capanne di pietra e fango; in più di trent’anni le cose sono cambiate ben poco. Anche qui, lentamente, i giovani hanno cominciato ad abbandonare le terre e a scendere più in basso, in cerca di condizioni di vita migliori.
Lassù non c’è un medico; la scuola più vicina dista sei ore di pericoloso cammino a piedi. Ma se i figli dei contadini non possono istruirsi, non avranno altra scelta che una vita di schiavitù. Per questo motivo ho costruito una scuola nella valle Diamir. Il progetto è di edificare altre scuole e ospedali nelle altre vallate.
Nella zona del Nanga Parbat la gente vive in una condizione di povertà e solitudine per noi inimmaginabile. La prima volta che arrivai nella valle Rakhiot era tardo autunno: nubi cariche di neve facevano apparire ogni cosa grigia; nessuna luminosità nelle corone dorate dei pioppi e degli albicocchi, nessuna macchia di colore sui campi. Anche il Nanga Parbat, pur innevato di fresco, appariva di un bianco opaco. Erano le prime avvisaglie dell’inverno.
Le famiglie si erano sistemate nel villaggio di Tato per affrontare l’inverno. Sui piatti tetti di fango avevano accumulato la paglia del mais, le porte d’ingresso delle case erano rese inaccessibili dai mucchi di legna da ardere. Tato significa «caldo»; qui l’estate è insopportabile. Quando il sole è alto e il Nanga Parbat non getta la sua ombra, questa impervia gola rocciosa si trasforma in un forno. A quel punto le famiglie salgono a una quota dove cresce il grano e pecore e capre riescono a pascolare. Ancora più in alto si trovano i cosiddetti fairy meadows, ben noti agli alpinisti: a un’altezza di 3300 metri c’è un alpeggio che ospita venti famiglie, con cavalli da tiro, un mulino ad acqua, orti. Quando ci arrivai, le casupole di legno erano abbandonate.
Più in basso incontrai altre due famiglie. Gli uomini stavano tagliando la legna; le donne stavano sbattendo il burro nelle pelli di pecora e occhieggiavano timide dalla porta. Davanti a me i bambini infreddoliti. Tutti mi guardarono allibiti, una figura assolutamente enigmatica. Questa gente vive in costante allerta, sempre pronta alla fuga. Durante l’estate scappano da Tato per il caldo, durante l’inverno scappano nella direzione opposta per sfuggire al freddo. La valle resta comunque il perno della loro esistenza. Qui hanno la terra, gli animali, la famiglia. Qui devono restare.
In Nepal, in Sudamerica, ma soprattutto in Himalaya sostengo economicamente gli insediamenti delle zone montane che stentano a sopravvivere.
Resistono, con quella rassegnazione al proprio destino tipica delle popolazioni di montagna. Quando feci ritorno alla valle Rakhiot, del villaggio era rimasta solo una parte. Nel 2002 un terremoto ha distrutto le capanne e reso inutilizzabile il sistema di canalizzazione dell’acqua. Un tratto di pendio è franato. Nel villaggio vicino, Muthat, la stessa devastazione: i sopravvissuti hanno trovato riparo in grotte scavate nel terreno, nelle tende e in mezzo alle rovine, sistemandosi in qualche modo – senza alcuna speranza di un aiuto.
Una volta ci volevano nove ore per percorrere il tratto che dal ponte di Rakhiot conduce fino a Tato. Solo da alcuni anni esiste una pista per le jeep, una specie di cordone ombelicale che collega la zona col mondo esterno. Ma la pista è molto impervia, corre lungo le ripide pareti delle gole, e nessun europeo la affronterebbe mai spontaneamente. La strada spesso rimane interrotta per mesi. C’è sempre il pericolo della caduta di massi, e quando piove è facile slittare. Una manovra sbagliata, un freno danneggiato, e non ci si ferma più: un precipizio di centinaia di metri, verticale, fino in fondo alla gola, praticamente inaccessibile. Proprio come il mondo di questi esseri umani.
Ho realizzato un progetto di aiuto per la valle Rakhiot che prevede di ricostruire in un altro punto i villaggi di Tato e Muthat – più in basso, su un terreno meno sismico, con un accesso dalla valle dell’Indo. Da lì gli ospedali e le scuole superiori di Gilgit e Chilas sarebbero raggiungibili più facilmente. Inoltre le famiglie potrebbero contare su ulteriori introiti derivanti dal trekking, poiché controllerebbero l’accesso al Nanga Parbat. Le zone alte con i fairy meadows continuerebbero a essere utilizzate come campi e pascoli estivi. Ho presentato il mio progetto al presidente pakistano Pervez Musharraf, che lo ha approvato. Ne discuterò con gli abitanti dei villaggi della valle Rakhiot, mobiliterò gli sponsor. Con una somma di un milione di euro potrei garantire la vita di centodieci famiglie – una vita dignitosa, rispettosa della loro cultura originaria.
Il mio desiderio di conoscere le popolazioni di montagna prima che se ne perdano le tracce mi spinge a tornare di continuo nel loro mondo dimenticato. Sono ben conscio del fatto che ogni mia visita agli Hunza, ai Balti o ai Ladakhi contribuisce in qualche misura a modificare la loro cultura – anche se mi sforzo di rispettarne il modo di vivere e le tradizioni –, tuttavia so anche che proprio nelle zone più settentrionali del Pakistan, le cosiddette «Northern Areas», senza il nostro aiuto non rimane alcuna prospettiva per la popolazione. Le montagne più selvagge si alternano alle gole più profonde del pianeta, e non permettono al vento del cambiamento di lambire questo territorio drammaticamente bello.
(TV Hören und Sehen, dicembre 2003)