Alla ricerca del proprio io

 

Natural High

C’è una domanda che probabilmente mi assillerà per tutta la vita: perché magicamente ogni volta vengo attratto da una vetta, perché sento la necessità di spingermi fino a quel punto finale, «dove tutte le linee convergono e la materia si rigenera, formalmente si smaterializza», come mi sono espresso in un’occasione. Ogni volta in prossimità della vetta provo questa attrazione fatale, ogni volta sono letteralmente spinto verso quel punto di sogno, dove mi sembra di immergermi nel Nirvana. Lassù ho la sensazione di poter sparire nel nulla, di potere improvvisamente vivere la vita come Io. La questione circa il senso dell’esistenza pare risolta, divento un’unità con il tutto, mi sento in sintonia con l’infinito. Mentre salgo verso la vetta capisco di essere in cammino verso me stesso. Più salgo e più mi addentro nel mio io.

L’alpinismo è il grande gioco delle sofferenze. Quante volte mi sono ripromesso di porvi fine, di non espormi più ai pericoli di questa disciplina! Ma poi vado avanti, devo sempre andare avanti! Da dove giunge questa spinta interiore a osare fino all’estremo? Sono forse malato, soffro forse di una forma di dipendenza da ebbrezza da montagna? Forse per me l’alpinismo è, per dirla con le parole di Gottfried Benn, «una vita sollecitata dalla presenza della morte»? Forse avverto costantemente la necessità di altra «roba» per vivere ogni volta di nuovo? Non lo so. So solo che, come un drogato, sono sempre alla ricerca di pericoli più grandi, ho bisogno di vie sempre più impegnative, di sollecitazioni sempre maggiori: quando nella zona della morte avverto quegli strani rumori, fenomeni e allucinazioni, scopro dimensioni nuove, e l’intuizione della morte si traduce in una visione di vita completamente nuova.

Gli scienziati hanno dimostrato che negli stati di stress e nelle situazioni straordinariamente estreme il corpo produce sostanze simili alla morfina che inducono allucinazioni, mitigando la sofferenza e generando un senso di gioia. L’alpinismo estremo nella zona della morte genererebbe perciò una dipendenza: in simili situazioni di pericolo, l’organismo rilascia sostanze oppiacee che possono indurre dipendenza. Dovremo allora porre sullo stesso piano la sensazione di natural high e le droghe sintetiche, sostanze con effetti sociali tanto devastanti?

Sono convinto che esistano differenze sostanziali fra queste due esperienze. Non solo la natural high non necessita di «roba» distruttiva, ma, al contrario, ha pure un effetto liberatorio, che accresce la consapevolezza. L’esperienza della droga, invece, è fatta per andare alla ricerca di una tempesta del subconscio, seppur di breve durata, cui segue un risveglio deprimente. Così la sensazione di estraneità da se stessi da cui si cercava di fuggire non fa che aumentare.

A mio giudizio chiunque voglia sperimentare il mondo nella sua totalità deve trovare l’equilibrio reciproco fra corpo e interiorità. Come accedere al subconscio e agli altri livelli della psiche? È necessario rompere il guscio, saper vedere dentro. Poiché ogni corpo è fatto della materia della quale tutto è costituito, deve aprirsi al mondo che ci circonda: poiché il mondo è infinito, il campo d’esperienza del singolo deve essere fondamentalmente infinito. Ho descritto così le vie verso l’esperienza diretta dell’infinito: «Per raggiungere l’esperienza diretta ci sono molte strade, ma quelle fondamentali sono due: la strada fisica e la strada mentale. Entrambe sono giuste, entrambe sono necessarie. Poiché la materia è limitata, i confini del corpo sono determinati. L’uomo interiore, dalla percezione raffinata, non ha confini, quindi le sue possibilità di esperienza sono illimitate. Queste possibilità sono a loro volta esauribili solo se l’uomo le trasforma fisicamente, vale a dire quando concretizza esperienze spirituali e, al contrario, spiritualizza esperienze materiali. Se l’uomo si muove unilateralmente ed esageratamente nell’ambito estremo del fisico, sussiste il pericolo del danneggiamento personale, fino all’autodistruzione. Se l’uomo si muove unilateralmente nell’ambito estremo del mentale, sussiste il pericolo del perdersi, che equivale all’autodistruzione».

Per me l’alpinismo è l’esperienza di me stesso, è scandagliare il mio io, è un penetrare nel labirinto della mia anima. Sulle vette più elevate del mondo provo la sensazione di essere tutt’uno con il mondo infinito. Lì posso riposare in me stesso totalmente, perché sono libero da ogni paura. La percezione del tempo sembra svanire e la sensazione che definisco out of body mi apre la possibilità di riconoscere il mio io. Ogni volta che rientro da un ottomila ho la certezza di aver riscoperto me stesso, mi sento più forte di prima. L’incontro con la morte mi fa vivere nuovamente la vita. Ogni volta è come se rinascessi, come se affrontassi una nuova esistenza, come se mi avvicinassi alla verità. Quel che mi sostiene quindi non è la vetta, ma il ritorno fra gli uomini.

LA DROGA DELL’EGO

Esiste una connessione fra la sensazione di high e la sensazione di felicità?

Per me la sensazione di high è un sentimento della vita forte e positivo, che può essere parte della felicità, ma non necessariamente. Quando mi sento high, quando vivo un picco, non è detto che sia anche felice. A mio giudizio la fame di felicità non va assolutamente valutata in maniera positiva. Voglio dire che più della felicità del singolo – comunque la si intenda – va accolta con favore l’aspirazione all’approfondimento della consapevolezza, all’ampliamento del proprio orizzonte. Mi sento vicino a chi afferma: «Voglio vederci più chiaro, sapere di più, comprendere meglio il mondo. Non voglio solamente vivere, voglio approfondire sempre più l’esperienza della vita».

Non è però un po’ egoistico ritirarsi in se stesso, quando ovunque è richiesta solidarietà per favorire i necessari cambiamenti sociali?

Ritengo che il mondo non possa essere cambiato né da una qualche forma di governo – dittatura o democrazia – né tanto meno attraverso una rivoluzione fondata su un’ideologia o una dottrina salvifica. Credo invece che si possa cambiare il mondo solo se giorno dopo giorno il singolo si impegna a cambiare se stesso. La rivoluzione deve avvenire dentro di noi, e solo allora potremo trasformare la società.

Si tratta quindi di pervenire attraverso l’alpinismo a una forma più elevata di autocoscienza? L’alpinismo come attività sociale?

Se una persona vive la propria vita e nel farlo non arreca fastidio a nessuno, per me è un essere «sociale», perché è equilibrato e pacifico. A mio giudizio le persone diventano meno pacifiche, e di conseguenza aggressive, quando non possono vivere la loro vita, quando devono reprimere i propri sentimenti, quando vengono condizionate dall’esterno. Dobbiamo forse definire sociale la nostra civiltà occidentale, perché costringe molti a determinate prestazioni, a un determinato comportamento, perché obbliga i singoli entro binari stabiliti per ottenere il benessere anonimo di tutti? Per me sociale significa che per molti rimane aperta la possibilità di intraprendere la propria strada. Ognuno potrà trovare la sua, come vorrà. La mia strada è, per puro caso, quella dell’alpinismo. Quindi posso esprimermi come alpinista, posso soddisfare le mie ambizioni, posso andare a fondo della mia volontà fino al suo limite estremo. Non è invece la mia strada fornire determinate prestazioni o essere inserito in un determinato processo produttivo: la mia strada è quella dell’alpinista. Questo è il mio modo di esprimermi in maniera creativa. Ho scelto di percorrere questa strada.

(Profil, 1980, 23)

Viaggio dell’ego verso la natura incontaminata

Perché ho scelto la strada del viandante? Cosa mi spinge a cercare l’avventura himalayana? Ho bisogno della solitudine degli ultimi ambienti intatti e selvaggi di questo mondo, per essere me stesso fino in fondo. Di tanto in tanto devo abbandonare la fretta malsana della nostra civiltà occidentale, devo sottrarmi a questo risucchio velenoso e maleodorante, per non mettere in pericolo me stesso e altri. Per esprimermi, devo poter misurare il mondo con il mio passo. Solo così riesco a valutare chi sono e qual è il mio posto. Esistono molte strade per trovare se stessi. Ciascuno di noi ha il proprio nervus rerum primigenio. Fin dalla prima infanzia ho vissuto il mondo come un mondo alpino. Le montagne sono il paesaggio della mia anima, ho la montagna dentro di me. Per questo lungo il cammino alla ricerca del mio io ho sempre dovuto ripercorrere la strada verso la montagna. Molti diranno: «D’accordo, ma è possibile che ogni volta debba trattarsi di un viaggio fino alla fine del mondo? Non abbiamo forse anche noi europei montagne belle, non abbiamo anche noi pareti difficili?»

La mia risposta è chiara: vivere la montagna non è solo l’esperienza della prestazione, non è solo saper arrampicare in maniera perfetta, magari anche grazie all’utilizzo di tutti gli accorgimenti tecnici disponibili. Vivere la montagna non è nemmeno il desiderio romantico di provare un’emozione da parte di chi non sa più in che direzione andare. Non è solo la spinta di dover dimostrare a se stessi e agli altri quanto siamo coraggiosi, forti e resistenti. Non mi interessano le fantasie sull’ardore alpino o la follia da prestazione degli schiavi della vetta, posseduti del desiderio di conquista. Per me l’alpinismo è innanzitutto esperienza del proprio io, un’esperienza primigenia: nei momenti davvero decisivi riconosciamo il nostro vero io.

Chi non è mai stato nelle valli selvagge dell’Himalaya, del Karakorum, dell’Hindukush o in altri territori incontaminati, non comprenderà la spiritualità che ogni volta mi pervade in modo totale. Già durante l’avvicinamento a un ottomila si giunge, nonostante tutta la tensione che precede il grande evento, a una calma interiore accompagnata da una piacevole sensazione di leggerezza. Magari un giorno rinuncerò all’alpinismo, ma non potrò mai rinunciare alla natura. Per questo motivo mi sono posto l’obiettivo preciso di traversare un deserto, oppure il ghiaccio eterno della zona artica. Le vie verso il Nirvana sono infinite. Bisogna solo percorrerle. Se dovessi rinunciare alla «droga» natura, morirei. Finché sarò in viaggio alla ricerca di me stesso, continuerò a vivere.

Nel mio libro Grenzbereich Todeszone ho scritto: «La consapevolezza che niente e nessuno al di fuori di me possono attribuire un senso alla mia vita, la consapevolezza di questo non essere è quindi la base della mia libertà. In questo senso intendo libertà non tanto come la possibilità di fare e disfare ciò che voglio, quanto piuttosto come la chance di essere me stesso. Lo sviluppo della personalità mia e di chi mi sta vicino diventa lo scopo dell’esistenza; la vita e tutto ciò che la vita favorisce diventano intoccabili. Chi ha imparato a vivere, chi si è confrontato con il proprio nulla, non può sopraffare gli altri. Per lui il prestigio, il potere, gli idoli e le ideologie sono secondari, la sua fiducia in sé e la sua consapevolezza di sé e di conseguenza la sua sicurezza poggiano sulla fede nella propria essenza e nelle proprie potenzialità».

NELL’AUTOINVENZIONE INVENTO IL MONDO

Il tuo percorso di alpinista estremo appare come un unico, prepotente viaggio di un ego anarchico, sicuramente ammirevole.

Non mi definirei un anarchico, uno che sta fuori, bensì piuttosto uno che sta dentro. Ho trovato il modo di stare dentro la mia vita, perciò posso percorrere la mia strada in tutta calma e assoluto equilibrio.

In cosa consiste il senso della vita?

Vedo il senso della vita nel fatto che ognuno possa esprimersi a modo suo. Comunque io mi realizzi, facendo il falegname, scrivendo poesie, facendo il ricercatore o predicando da un pulpito, percorro la via della ricerca di me stesso. Nessuno può dire semplicemente: «Il senso della vita è...» Il senso della vita emerge attraverso l’azione. L’azione concreta risolve l’interrogativo circa il perché, il prima e il dopo. Se qualcuno ha una predisposizione per la falegnameria, costruirà un tavolo, e non si domanderà perché vive. Il costruire un tavolo è già la risposta.

Non si tratta però di una filosofia di vita riservata a una minoranza privilegiata?

Sono convinto del fatto che ogni uomo nasconde qualcosa di creativo, che ognuno ha la possibilità di esprimere la propria interiorità, per poter sperimentare se stesso e le sue forze nascoste. Non è necessario rifiutare la società per realizzare se stesso. Ma bisogna cercare la propria strada. E per farlo bisogna impegnarsi. Chi però in tutta la sua vita non fa altro che stare seduto ogni giorno davanti a un macchinario, per sostenere la famiglia, e la sera davanti alla televisione a scolarsi una birra, non cesserà di chiedersi: perché sto seduto davanti a questa macchina? Ma che senso ha la vita? Completamente diverso è chi la sua strada l’ha trovata, chi potrebbe esprimersi con i suoi mezzi più primordiali: lui non si pone la domanda fatalistica circa il senso della vita, a lui la forza viene da dentro.

Trovare la propria strada per la vita, d’accordo! Ma perché, come nel caso dell’alpinismo estremo, mettere in gioco la vita «provocando» la morte?

Certo, l’alpinismo è pericoloso. Lo riconosco. L’alpinismo, così come lo pratico io, non è sicuramente una passeggiata. Ma in questa disciplina sportiva la vera arte consiste nell’andare incontro al rischio di morire, ragionando. Bisogna tener conto di un fatto universale: «Noi tutti dobbiamo convivere con il rischio della morte». Non mi sembra utile rimuovere questa consapevolezza, anzi sono convinto che molti disagi psicologici siano riconducibili proprio a questo tentativo di rimozione. Rimuovere significa vivere in maniera meno intensa. Solo chi vive nella concreta consapevolezza di dover morire può comprendere la vita. In quanto alpinista estremo, la morte non mi abbandona mai. Quando salgo una parete non ho bisogno di arrovellarmi sulla questione se morirò a trenta, sessanta o cent’anni. In quel momento l’unica cosa importante è che la mia vita sia piena.

Lei è un egoista?

Sono convinto che non esista altra giustificazione per l’alpinismo se non l’ego. Per me le altre ragioni non hanno alcun valore. Trovo che l’esplorazione delle montagne sia solo negativa, non si dovrebbero più esplorare le montagne, privandole della loro dimensione selvaggia. Rifiuto anche l’idea che ci si metta alla prova con la natura. Io cerco solo la mia via nella natura, e questo richiede tutte le mie forze, le mie capacità.

Quali leggi valgono in questo contesto?

Se salgo l’Everest devo creare, trovare da solo le mie leggi. Nessuno può dire a priori quanto eroico o generoso sarà a ottomila metri, quando è in gioco la sopravvivenza. Non credo affatto che in montagna il cameratismo, come viene sostenuto da un centinaio d’anni, sia fondamentale quando ci si trova a ottomila metri. Uno sta per morire, e gli altri sanno bene – e non si tratta di un sapere razionale, bensì di una percezione da parte della persona in toto –, che se aspetteranno altri cinque minuti anche loro moriranno. A quel punto non possono più aspettare. L’eroismo diventa inutile.

A colloquio con il giornalista televisivo Werner Höfer su cameratismo in montagna, anarchia e autoaffermazione.

A colloquio con il giornalista televisivo Werner Höfer su cameratismo in montagna, anarchia e autoaffermazione.

Davanti alle complesse leggi della nostra società lei scappa sulle montagne più alte. Le è indifferente la situazione delle città europee dove la maggior parte delle persone è costretta a vivere.

È una cosa che mi viene rinfacciata spesso. Tuttavia rispondo che il mio è un contributo a un’alternativa socio-politica. La rivoluzione che in Europa sarebbe dovuta avvenire da tempo, è la rivoluzione del singolo che va alla ricerca della propria vita. Se qualcuno osserva quello che faccio e cosa desidero, forse troverà il coraggio di individuare un ambito dove poter vivere la propria anarchia personale, dove potersi permettere di essere veramente se stesso.

Ma chi se lo può permettere? E dove? Di nuovo lei sta costruendo illusioni, che non fanno che stabilizzare i rapporti che lei stigmatizza.

Sono più di quante lei non immagini le persone che possono permettersi di essere come sono. E non è necessario essere un alpinista, si possono fare molte altre cose. La mia strada è solo un modo per dimostrare come si possa vivere in opposizione a un’esistenza borghese. Tutto il mio pensiero si oppone alla mentalità consumistica. Il clean climbing, l’alpinismo pulito, non è solo un fatto sportivo, ma un atteggiamento ecologico. Se salgo l’Everest senza maschera, vuol dire che lassù non lascio nemmeno una bombola. E riporto indietro quello che porto su nello zaino.

L’Everest deve restare pulito e le Alpi sporche?

Le Alpi sono sporche perché cento anni fa, quando gli alpinisti si sono riuniti nei club, hanno elaborato statuti nei quali si sosteneva che il nostro compito è quello di esplorare le Alpi, di renderle accessibili a tutti.

Questa è una critica ai club alpini.

Sì, sono dieci anni che sostengo che bisogna modificare gli statuti. Il compito attuale è conservare il paesaggio alpino nella sua wilderness, non più di esplorare i territori montani.

(Profil, 1980, 23)