GLI INIZI SULLA ROCCIA
Quando pensi agli anni della scuola, c’era qualcosa di più importante della montagna?
All’inizio presi la scuola molto sul serio. Sentivo la responsabilità nei confronti di papà, che alla fine delle elementari a Funes mi aveva mandato alla scuola media a Dorf Tirol, e poi all’Istituto tecnico di Bolzano. Fin da allora avevo l’ambizione di imparare qualcosa, di diventare qualcuno. Perciò ero piuttosto volenteroso, uno degli studenti più bravi della mia classe. Con alcuni compagni avevo un rapporto decisamente buono, anche con quelli che non si interessavano di alpinismo. Solo negli ultimi anni prima della maturità finii col trascurare un po’ la scuola, e a poco a poco persi di vista anche i compagni di classe. Gli altri, quelli con cui andavo in montagna e con cui passavo l’estate, erano diventati molto più importanti. Era con loro che mi incontravo più volentieri, anche quando ero in città. Con loro parlavo di più. Non mi andava di fare tardi la sera per studiare, mi interessava di più fare tardi per incontrare un compagno d’arrampicata e discutere con lui delle salite che intendevamo affrontare l’estate successiva. All’epoca pensavo ancora che prima o poi avrei studiato ingegneria edile o che sarei diventato geometra. Pensavo che avrei fatto un mestiere «borghese» e che quindi sarei andato in montagna nel tempo libero, durante il weekend e le vacanze. Non sarei certo rimasto in città per andare al cinema. Ma non avrei nemmeno bigiato la scuola per stare con una ragazza. Invece saltai le lezioni per una settimana per tentare la nord del Cervino in invernale. Per me andava bene così, e ovviamente mi sono comportato di conseguenza. Non c’era praticamente sabato o domenica in cui non andassi ad arrampicare su una parete vicino a casa. Quando poi – verso i diciotto, diciannove anni – cominciai a guidare la moto, iniziai ad andare nelle Dolomiti anche durante l’anno scolastico. In quel periodo iniziai anche a scrivere. A vent’anni scrivevo parecchio, raccontavo quello che mi capitava, mettevo in discussione quello che facevo. Certamente sono stato influenzato dalla letteratura di montagna di allora. Volevo dare forma espressiva alle mie esperienze, far conoscere al mondo le mie idee, poter dire: si arrampica così e non in un altro modo. Dietro questo atteggiamento si nascondeva già un notevole impegno.
La mia classe delle elementari. (Reinhold Messner è l’ultimo a destra.)
Ti interessava anche la letteratura non di montagna?
Senza dubbio ero influenzato da ciò che studiavamo a scuola, perciò conoscevo abbastanza bene i classici. Sono un grande ammiratore di Goethe. Mi piace il suo modo di porsi di fronte alla vita. Per me Goethe è l’essenza stessa dell’egoismo. Ha vissuto esattamente come ha voluto.
Com’erano a quei tempi i tuoi rapporti con le ragazze?
Non avevo problemi, né mi immaginavo chissà cosa. Trovavo ridicolo correre dietro alle ragazze. Per me erano più importanti, molto più importanti le pareti. Le poche ragazze con cui stringevo amicizia arrampicavano, e mi colpivano proprio per questo. Tuttavia ammiravo soprattutto donne più mature, come Helga Lindner, secondo me una scalatrice inarrivabile che all’epoca faceva cose impegnative almeno quanto me. Era un po’ la «ragazza dei miei sogni», non perché fosse particolarmente bella o affascinante, ma perché arrampicava in modo splendido.
Avevi relazioni di carattere sessuale?
No, il sesso era un fattore del tutto secondario; all’epoca non svolgeva certo un ruolo primario.
Quindi non hai avuto un’adolescenza difficile?
Probabilmente sì, ma non l’ho vissuta come una difficoltà. Ho dato sfogo alla mia pubertà sulle pareti.
Così c’erano solo cameratismo e amicizia?
Sì, direi di sì. Ero molto legato a mio fratello Günther, e poi c’era Sepp Mayerl, il mio «guru». Da lui ho imparato a maneggiare corda e chiodi, mentre sapevo già individuare le vie e superare un tratto strapiombante. Erano cose del tutto ovvie. Sepp mi ha insegnato a salire una fessura, una fessura speciale, oppure come si pianta un chiodo in modo ancora più sicuro, come si allestisce una sosta, come si arrampica più velocemente.
La cerchia degli amici comprendeva cinque e sei ragazzi accomunati dalla stessa passione. Non ho mai detto: «Lui è un mio amico», semplicemente andavamo insieme ad arrampicare, senza tanti discorsi. Per il resto non ci siamo mai occupati molto delle chiacchiere che ancora oggi le riviste di alpinismo spesso riportano. Il legame era forte solo perché andavamo volentieri in montagna insieme. Ci potevamo fidare l’uno dell’altro al cento per cento. Quando uno volava, l’altro non diceva: «Perché non ti sei allenato?», nessuno gliene faceva una colpa. Tutti pensavano: «Siamo un piccolo gruppo, andiamo per il mondo. Siamo imbattibili!» Eravamo una piccola banda, rubavamo agli altri le pareti. Spesso progettavamo una via per anni, e quando venivamo a sapere di altri interessati a farla, ci sentivamo fra di noi, andavamo lì e la realizzavamo prima di loro.
Non avete mai avuto paura della vostra «audacia», non vi siete mai fermati a pensare alla morte?
Non sapevamo cosa fosse la paura, non ne parlavamo, e la morte non ci riguardava. Nessuno di noi pensava che qualcuno avrebbe potuto fare un volo mortale.
Quando ti sei staccato dalla cordata per affrontare le solitarie?
Verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato ad andare sempre più spesso da solo. Il motivo non era personale, ma essenzialmente pratico. Gli altri del gruppo avevano meno tempo di me. Uno faceva il contadino, un altro, Sepp Mayerl, si guadagnava da vivere riparando i tetti, mio fratello invece era impiegato in banca. Solo io avevo molto tempo perché studiavo e sfruttavo ogni minuto libero per arrampicare: sessanta, settanta salite in un anno. Quando gli altri non potevano, andavo da solo, non mi andava di arrampicare con sconosciuti. Ero molto timido.
Cos’hai studiato?
Ho studiato a Padova. Avevo una borsa di studio, vivevo di quella, e durante l’estate facevo qualche lavoretto per guadagnare qualcosa. Facevo la guida, poi magari una o due solitarie, di nuovo la guida e poi altre salite. In quella fase ho realizzato solitarie molto impegnative. È stato allora che tutti, tranne Heindl Messner, hanno cominciato a criticarmi. Mi dicevano: «Se continui a fare ’ste cose, finirai per volare. Sei matto! Al massimo ti andrà bene per una settimana ancora». Avevo la sensazione che volessero mettersi in mezzo unicamente perché loro dovevano lavorare, mentre io non avevo impegni. Mi sembrava che fossero invidiosi di me, perché mi potevo permettere una vita così libera. Anche per questo motivo ho cominciato ad andare più spesso da solo: sapevo che sarei stato più veloce, e mi rendevo conto di essere più allenato degli altri.
Con il fratello Helmut e un cugino durante una sosta in una passeggiata.