Una vita in crescendo

 

La rivoluzione del grande alpinismo

Nella storia dell’alpinismo dell’ultimo secolo si contrappongono due diverse concezioni: da un lato la mentalità della conquista, che si prefigge il compito di vincere le pareti più impegnative e le vette più alte con un impegno sempre più intenso e un uso sempre più raffinato della tecnica, dall’altro lo spirito sportivo determinato a conquistare dimensioni nuove accrescendo le capacità personali e rinunciando a trucchi tecnici. Perciò l’etica dell’alpinismo oscilla, almeno nella Mitteleuropa, fra il credo della «maggiore sicurezza e difficoltà grazie all’utilizzo di mezzi tecnici» e quello della «maggiore sicurezza e difficoltà grazie all’accrescimento delle capacità personali».

All’epoca dell’alpinismo di conquista, durante la quale per i pionieri era importante soprattutto raggiungere tutte le vette delle Alpi, seguì il cosiddetto «periodo delle difficoltà», modellato dalle idee di Hans Dülfer: difficoltà sempre maggiori con un intervento tecnico sempre maggiore. Conseguenza logica di questo sviluppo è stata l’ondata di conquiste delle montagne più alte della Terra, in Himalaya. Per inglesi, tedeschi, austriaci, italiani, americani, giapponesi e molti altri la conquista delle vette più elevate divenne anche una questione di patriottismo. Si aprì così una vera e propria gara a quale nazione per prima avrebbe «conquistato» un certo ottomila, proprio come russi e americani gareggiarono per portare il primo uomo sulla Luna.

Ogni mezzo era lecito, l’importante era potersi accaparrare la «vittoria» per la propria bandiera. Basti pensare che dopo la conquista dell’Everest la regina d’Inghilterra concesse a Edmund Hillary il titolo nobiliare. L’impiego di mezzi era incredibile: spedizioni gigantesche furono dotate di tutti gli ausili immaginabili, bombole d’ossigeno, chiodi speciali, scale, e questo solo per vincere. Non si arretrò neppure di fronte al doping: furono impiegati farmaci per combattere l’ansia che assaliva in parete e mitigare i dolori, le paure e l’affaticamento alle quote estreme. La mentalità della conquista trionfò. Si cominciò a riflettere solo quando la tecnica raggiunse livelli di estrema raffinatezza, quando fu possibile trovare il modo per superare qualunque difficoltà, quando in parete scomparvero i problemi insolubili. A quel punto molti alpinisti estremi tornarono a essere più sportivi.

Ad Auckland con Edmund Hillary in occasione della mostra che celebrava i cinquant’anni della prima scalata dell’Everest.

Ad Auckland con Edmund Hillary in occasione della mostra che celebrava i cinquant’anni della prima scalata dell’Everest.

L’alpinismo sportivo non è un fenomeno dei tempi moderni. I suoi inizi risalgono ad almeno cento anni fa. Ai primordi della civiltà industriale furono i britannici a introdurre l’alpinismo sportivo. Fin dall’inizio si pronunciarono a favore di una pratica by fair means: le vie dovevano essere affrontate con mezzi equi e sportivi, non con attrezzature sempre più raffinate. Pur facendo a meno delle guide, Albert Frederick Mummery riuscì a realizzare autonomamente vie molto impegnative. Paul Preuß rifiutava i chiodi, ma superò il più alto grado di difficoltà della sua epoca. In seguito furono soprattutto Matthias Rebitsch e Walter Bonatti a votarsi all’alpinismo sportivo.

A indicare la via verso un certo tipo d’arrampicata sportiva sarebbero stati gli alpinisti statunitensi. Con il concetto di clean climbing sono stati, e lo sono tuttora, i fautori dell’arrampicata pulita, impegnandosi a rimuovere tutti i chiodi al termine di una salita. Durante l’arrampicata utilizzano esclusivamente protezioni in alluminio come assicurazione intermedia e per superare tiri tecnici. Questo presenta molti vantaggi, perché dà la possibilità di rimuovere facilmente e velocemente un «cuneo», senza lasciare tracce. Utilizzando i cunei è possibile affrontare anche i grandi tetti. Profeti di questo stile di «arrampicata pulita» sono stati personaggi come Yvon Chouinard, John Stennard, Royal Robbins e Tom Frost. Agli inizi degli anni Sessanta, il manifesto del clean climbing chiariva i fondamenti del nuovo stile, che oggi influenzano gran parte degli arrampicatori di tutto il mondo. In questo stile Yvon Chouinard ha salito il «Nose» al Capitan, anche se negli strapiombi della parte terminale è dovuto ricorrere ad alcuni chiodi a espansione, poiché anche per il clean climbing vale il principio che non tutto è possibile.

Dal clean climbing si distingue invece il free climbing. In questo tipo di arrampicata, per la progressione non vengono usati né nut né chiodi, ma questo non significa che si debba fare a meno di una protezione intermedia d’emergenza. È interessante notare che le guide americane riportano i nomi di quegli arrampicatori che per primi hanno salito una via in libera.

Nonostante tutta l’ammirazione per i risultati ottenuti dagli arrampicatori liberi statunitensi, bisogna tuttavia tener conto del fatto che sono sicuramente favoriti dal terreno – basti pensare alla California. Per questo motivo l’arrampicata libera non potrà affermarsi sempre e dappertutto, dal momento che non tutte le zone di arrampicata sono caratterizzate da sole quasi costante, roccia compatta e ottime prese. Nelle Alpi, per esempio, le vie sono spesso bagnate, il rischio di caduta di ghiaccio e pietre non è mai assente, cosicché a volte è impossibile non ricorrere ai chiodi.

Nell’epoca dell’arrampicata libera un atteggiamento più severo e obiettivo si è imposto sulle fantasie pseudofilosofiche. L’arrampicata pulita è diventata la nuova etica dell’alpinismo, e oggi come ieri conta «l’alpinismo ai confini dell’umanamente possibile», che si tratti di una vetta alpina, di un ottomila in Himalaya o di una parete strapiombante allo Yosemite.

Questo nuovo atteggiamento ha avviato una rivoluzione nell’alpinismo. Parafrasando la canzone di Bob Dylan: The climbs they are a’changing, l’arrampicata è a un punto di svolta. Per fortuna oggi molti alpinisti individuano autonomamente la propria soglia di rendimento.

Fin dai miei anni giovanili ero convinto che non fosse possibile affermare la capacità di sviluppo dell’uomo, l’espressione dei propri sentimenti, delle proprie paure, la possibilità di dare libero sfogo alle forze nascoste, se ci si affida solo ed esclusivamente alla tecnica. Io stesso mi sono sottoposto a un test a bordo di un aereo, a novemila metri di altezza sul livello del mare: volevo scoprire se, contro il parere dei medici, potevo sopravvivere a quell’altitudine, senza maschera d’ossigeno e senza pressurizzazione. Dopo aver superato questo tentativo senza alcun danno mi si prospettò una dimensione nuova e inaspettata. Ero affascinato dall’idea di poter salire le vette più alte della Terra, il K2, l’Everest, il Nanga Parbat, senza particolari ausili tecnici. E questa è diventata la mia filosofia di vita: sono affascinato dall’esperienza della natura negli ultimi territori inviolati del pianeta. Qui posso esprimermi e migliorarmi sempre di più.

Fu così che i miei desideri mi allontanarono progressivamente dall’Europa per approdare in Asia. I grandi alpinisti inglesi, i pionieri dell’Himalaya, divennero i miei idoli: Mummery e Mallory, proprio come in gioventù avevo ammirato i fratelli Schmidt, che avevano scalato la nord del Cervino, o Riccardo Cassin, che per primo ha realizzato il pilastro Walker. Sembra incredibile che già nel 1895 Mummery avesse tentato di attaccare il Nanga Parbat con due soli portatori locali. Quella volta fallì. Mancavano ancora le premesse necessarie: un’attrezzatura adeguata, un’esperienza sufficiente nella zona della morte, le conoscenze tecniche. Negli anni Venti fu Mummery a mettere in gioco tutte le sue energie, il suo tempo, il suo entusiasmo e il suo coraggio per salire l’Everest. Secondo Mummery, la vetta della montagna più alta del mondo poteva essere conquistata anche senza l’ossigeno. A quell’epoca nell’ambiente alpinistico inglese infuriava il dibattito su questo tema. I due fronti opposti erano più o meno in equilibrio. Alcuni ritenevano che senza le bombole – a quel tempo attrezzi piuttosto rudimentali – sarebbe stato impossibile farcela, perché la pressione atmosferica oltre i settemila metri è troppo bassa, mentre altri ritenevano che l’impiego di questi mezzi fosse antisportivo e unfair. Solo nel 1978 Peter Habeler e io dimostrammo che era possibile salire l’Everest senza ossigeno.

I pionieri degli anni Venti non partivano con il solo scopo di conquistare la vetta dell’Everest. Volevano conoscere il Tibet, questa terra infinita, grande come l’Europa occidentale e con una popolazione in quegli anni paragonabile a quella dell’Austria di oggi. Un paese immenso che trasmette un senso tangibile di libertà. Gli inglesi salirono fino a Rongbuk, dove trovarono uno dei monasteri più alti della Terra, limitandosi già allora a un’attrezzatura semplice e sviluppando la tecnica delle spedizioni che avremmo fatto nostra.

Nel 1924 il colonnello Richard P. Norton arrivò quasi a 8600 metri – nell’ultimo tratto rimase solo, poiché il suo compagno, il medico Somervell, pativa per la tosse provocata dalla quota –, salendo quello che in seguito fu chiamato «couloir Norton», fin quasi sotto la vetta. In questa solitaria Norton non utilizzò l’ossigeno. Il suo record mondiale d’altezza senza ossigeno avrebbe resistito fino al 1978: nessuno dopo di lui superò quel limite senza le bombole.

Quando Norton tornò al campo base senza aver raggiunto la vetta, Mallory, il trascinatore della squadra, tentò un ultimo attacco con Andrew Irvine, il più giovane del gruppo. Non traversò come Norton lungo la parete nord, verso il couloir, bensì risalì la cresta. Qui, in un punto imprecisato, i due uomini trovarono la morte. Il luogo esatto è a tutt’oggi sconosciuto. Noel Odell, un altro membro della spedizione, salì fino all’ultimo campo per capire cosa fosse successo. Lì trovò un biglietto in cui Mallory chiedeva che la sua salita alla vetta venisse fotografata con un teleobiettivo. Tuttavia il tempo era brutto e la visibilità scarsa. Dopo tre giorni Odell pose una croce presso il quarto campo, dove si trovavano i sacchi a pelo dei due compagni, per segnalare a coloro che attendevano al campo base che non c’erano più speranze di ritrovare i dispersi. Quando conobbi Odell, mi mostrò il punto dove, nella nebbia, vide sparire Mallory e Irvine. I due stavano ancora salendo. Fino ad oggi non è chiaro se abbiano raggiunto la vetta o se siano morti prima. Negli anni Settanta era ancora in vita uno degli sherpa che aveva partecipato alla spedizione come portatore: Dawa Tensing. Lo incontrai in un convento a Solo Khumbu e gli chiesi se a suo avviso Mallory e Irvine avevano raggiunto la vetta. La risposta fu: «No, non ci sono arrivati. Le tempeste, gli dèi li hanno spazzati via».

Mallory è diventato una leggenda. Probabilmente rimane l’alpinista inglese più celebre. La questione se abbia raggiunto la vetta più alta del mondo resterà per sempre un enigma senza risposta. Io sono dell’opinione che durante la salita si sia fermato a quello che gli inglesi chiamano Second Step, il «secondo gradino».

Ufficialmente il monte Everest è stato scalato la prima volta nel 1953 da Edmund Hillary e dallo sherpa Tensing Norgay. Ho conosciuto entrambi, uomini di grande volontà e ambizione. Il loro scopo non è stato unicamente quello di raggiungere il tetto del mondo, bensì di vivere la loro avventura personale, entrare in contatto con la natura selvaggia.

Dopo la conquista di molte vette himalayane – l’Annapurna nel 1950 da parte dei francesi, il Nanga Parbat nel 1953 da Hermann Buhl, il Cho Oyu nel 1954 da Herbert Tichy con uno sherpa e Sepp Joehler, il K2 nel 1954 da una spedizione italiana –, una nuova generazione di alpinisti cominciò a porsi come obiettivo le pareti più impegnative della regione. Nel 1970 un team inglese guidato da Chris Bonington portò a termine la salita della parete sud dell’Annapurna, alta 3500 metri. Alcune settimane più tardi io e mio fratello Günther, nell’ambito della spedizione in memoria di Sigi Löw, superammo la parete di ghiaccio e roccia più alta della Terra, la Rupal al Nanga Parbat. Nel 1972, nell’ambito di una spedizione tirolese in Himalaya, realizzai la parete sud del Manaslu. Come era accaduto sulle grandi pareti classiche delle Alpi, erano state superate difficoltà tecniche fino a quel momento ritenute insormontabili. Penso per esempio allo sperone della Brenva sul monte Bianco o alla parete nord del Cervino.

A metà degli anni Settanta piccoli gruppi cominciarono ad affrontare gli ottomila lungo le vie più difficili, con un impiego sempre più ridotto di mezzi tecnici. Credo che le azioni più temerarie in questo senso siano rappresentate dalla salita di John Roskelly dello sperone sud-ovest del Makalu e da quella di Doug Scott dello sperone nord del Kanchenjunga. Ancora oggi vi sono alcune pareti, pari a queste in quanto a verticalità, su cui non sono state aperte vie dirette. La parete sud del Dhaulagiri, per esempio, è stata salita solo sul margine e la parete sud del Lhotse costituisce ancora oggi uno dei problemi alpinistici himalayani più spinosi.

PRIMA DEL GRANDE SALTO

In un’occasione hai previsto che in futuro, davanti alle telecamere, i dieci alpinisti migliori del mondo affronteranno in solitaria una gara sulla parete nord dell’Eiger. Credi che nell’alpinismo, che è sempre più legato a logiche commerciali, sia possibile influenzare le tendenze?

Dipenderà solo dall’intelligenza degli alpinisti se una previsione tanto orribile diverrà realtà. Nel passato è già accaduto: con alcuni alpinisti inglesi, Chris Bonington e Dougal Haston, abbiamo ricevuto l’offerta di compiere un’impresa simile per conto della televisione britannica. Noi abbiamo rifiutato, non ce la sentivamo. Sono il primo a opporsi a simile competizioni. La velocità sulla nord dell’Eiger dipende dalla sicurezza e dalle condizioni atmosferiche – non si può considerare la situazione da un punto di vista agonistico. Il pericolo maggiore è che gli arrampicatori finiscano per essere considerati sempre di più alla stregua di gladiatori.

Con la nuova edizione di Settimo grado hai dimostrato di nutrire ancora un notevole interesse per l’arrampicata estrema. Stai forse tornando alla roccia, e quali obiettivi ti poni?

Arrampico ancora sulla roccia, tuttavia non più ai livelli di difficoltà che raggiunsi nel mio anno migliore, il 1969. Le spedizioni mi hanno fatto perdere l’allenamento, e a causa dell’amputazione delle dita dei piedi il mio senso dell’equilibrio è peggiorato. Negli ultimi anni mi è capitato di provare il forte desiderio di intraprendere salite molto impegnative: l’anno scorso volevo andare allo Yosemite, ma le cose sono andate diversamente per via dei permessi per le spedizioni. Fra il 1973 e il 1979 ho portato a termine una mezza dozzina di prime nelle Dolomiti, non certo imprese di grandissimo rilievo, tuttavia molto difficili.

Con Hias Rebitsch, di cui ammirerò sempre l’abilità tecnica nell’arrampicata.

Con Hias Rebitsch, di cui ammirerò sempre l’abilità tecnica nell’arrampicata.

Com’è per te la via di arrampicata libera ideale? Riusciresti a descriverla in poche parole?

Per me l’ideale è arrampicare dall’attacco all’uscita utilizzando prese e appoggi, senza mai ricorrere a chiodi. Quando non posso più controllare al cento per cento la difficoltà, allora devo farmi sicurezza con un chiodo. Ho raggiunto questo ideale, lo ammetto, solo su alcune vie, per esempio sulla nord della seconda Torre del Sella, dove non ho impiegato neppure un chiodo, oppure sul pilastro centrale dello Heiligkreuzkofel, dove ne ho usati uno o due; ma allora non si andava ancora ad arrampicare con un atteggiamento mentale così corretto, come invece si fa oggi. Nel 1976 ho aperto una nuova via allo Zahnkofel, che a tutt’oggi non è ancora stata ripetuta, con un tiro di difficoltà fra il sesto e il settimo grado, dove ho piantato un solo chiodo, e per il resto ho usato i nut per la sicurezza. Meno mezzi tecnici si impiegano per la progressione, più bella è la via.

Come sei arrivato a questa svolta incondizionata, dalle originarie ambizioni di arrampicata libera alle spedizioni?

Questo cambiamento non è stato così incondizionato come forse può apparire dall’esterno. Negli anni Sessanta ero un arrampicatore entusiasta sulla roccia, e a quel tempo non avrei sicuramente voluto partecipare a una spedizione, l’avrei trovata un’esperienza noiosa. Allora mi interessava la roccia verticale e strapiombante. Sono cresciuto in montagna, e fin dall’inizio mi sono sentito più attratto dall’avventura che non dall’arrampicata sportiva. Quando per la prima volta ho sperimentato cosa significa passare mesi e mesi nella natura selvaggia, questa avventura mi ha appassionato tanto quanto l’arrampicata sulla roccia. Poi l’amputazione delle dita e la perdita parziale del senso dell’equilibrio mi hanno portato a dedicarmi alle grandi montagne. Seguirono alcune prime difficili a queste quote, al di là dei limiti di sicurezza. Ma ora sarei pronto a cedere un permesso per un ottomila in cambio dell’autorizzazione per attraversare il Bhutan, il deserto del Gobi, o per raggiungere il Polo Sud. Il mio interesse si è spostato all’avventura in senso lato. Sono convinto che per un alpinista con alle spalle una lunga vita attiva sia una scelta quasi obbligata, posto che non si appassioni solo alla pura attività sportiva, ma alla natura e agli ambienti incontaminati.

Che effetto ha su di te la rapida trasformazione, indotta dal trasporto aereo ecc., della natura selvaggia dei monti in natura civilizzata e viceversa?

È una cosa molto diversa. Ho fatto brutte esperienze, come per esempio lo scorso anno dopo il mio ritorno dal Lhotse, quando a Francoforte sono stato perquisito perché sospettavano che trasportassi hashish oppure che fossi un terrorista, e questo solo perché me ne tornavo come un signor nessuno da una spedizione. In momenti come quello, quando rientro dal Nepal, uno dei paesi a mio giudizio più tolleranti del pianeta, mi rendo conto di quanto l’Europa sia ormai diventata fascistoide. Allora ho la sensazione di appartenere meno all’Europa e molto di più agli ambienti culturali asiatici. Tuttavia non ho il coraggio di voltare le spalle all’Alto Adige per ricominciare la mia vita là, da zero. In questo secolo godiamo del diritto e della libertà di andare ovunque desideriamo. Non abbiamo però il diritto di vendere altrove, in quanto civiltà superiore, la nostra cultura, il nostro sapere, la nostra religione, ammesso che ne abbiamo una, e di imporli ad altri. Se analizziamo a fondo la questione di quanto influiamo sui paesi stranieri visitandoli, dovremmo riconoscere che ovunque andiamo portiamo disturbo e cambiamento.

Quando viaggi in Tibet o in paesi del cosiddetto Terzo Mondo, non ti pare di avvertire a volte uno choc culturale di fronte all’arretratezza e alla povertà di queste terre?

No, non ho mai provato questo choc culturale. In Tibet la gente non è povera, di certo i tibetani sono più ricchi dei nepalesi che stanno dall’altra parte. Va ricordato che il Tibet è scarsamente popolato, mentre il Nepal è sovrappopolato. Io sono cresciuto in un ambiente modesto, di contadini sudtirolesi, e conosco bene questa condizione. Mi ha invece scioccato il fatto che nel giro di trent’anni i cinesi abbiano completamente spogliato e distrutto il Tibet, sull’onda della loro furia innovativa e della pretesa di rappresentare e diffondere l’unica ideologia valida.

Tu vivi sotto i riflettori, sei una personalità, e perciò rappresenti un modello. Per te è un peso?

Molto poco, devo dire. Non intendo farmi rovinare la vita dagli altri, pensando costantemente che qualcuno potrebbe vedere in me un esempio da seguire. Sono convinto di essere l’alpinista più criticato nei paesi di lingua tedesca, e la cosa mi rende molto orgoglioso. Così il mio ruolo di modello si ridimensiona parecchio. Senza dubbio ho una parte di responsabilità, ma non posso abbandonare l’alpinismo solo perché un ragazzo vuole affrontare un ottomila oppure qualcuno decide di arrampicare un settimo grado e poi ha un incidente. Se qualcuno si prendesse la briga di vedere come la penso e osservasse come ho imparato ad andare in montagna, difficilmente cadrebbe. A tal proposito, è interessante notare come io venga criticato proprio da quelli che si vantano delle loro cadute. Quando succede a me, invece, provo vergogna.

(Alpinismus, dicembre 1981)

Avventura Himalaya

Il 1975 portò un mutamento di rotta fondamentale nella mia vita di alpinista. In quel periodo avevo deciso di osare il passo significativo dall’alpinismo di spedizione, caratterizzato dal grande dispiego di mezzi – squadre numerose con molti portatori, grandi campi base con vari campi avanzati, attrezzatura tecnica fino al minimo dettaglio – alla spedizione leggera. Come primo obiettivo mi proponevo di salire un ottomila, l’Hidden Peak, in stile alpino: in due, senza bombole d’ossigeno, senza corde fisse, senza campi alti e senza aiuti esterni. Ho invitato a prendere parte a questa impresa Peter Habeler, guida alpina dello Zillertal: molto veloce, con un’ottima condizione fisica e grandi capacità tecniche istintive. Peter era la persona giusta per un’impresa del genere. Per me fu il primo tentativo di un ottomila in questo stile e provocò ripercussioni enormi sulle mie esperienze future.

Hidden Peak, un punto di svolta

Dopo un periodo di preparazione di pochi giorni, all’inizio di luglio del 1975 partimmo da Monaco alla volta di Rawalpindi, via Francoforte e Karachi. Lì dovemmo aspettare fino al 12 luglio per il volo verso Skardu, dopo aver espletato tutte le pratiche burocratiche per la spedizione. Da qui iniziò, con l’aiuto di dodici portatori e con un ufficiale di accompagnamento pakistano, l’avvicinamento al campo base sul ghiacciaio Abruzzi (5100 metri). Viaggiammo a bordo delle jeep fino a pochi chilometri prima di Dassu, dove termina la strada, poi procedemmo a piedi lungo il corso impetuoso e pericoloso del fiume Braldo fino ad Askole, ultima località prima del ghiacciaio Baltoro.

Il 18 luglio lasciammo Askole. Al termine di una marcia apparentemente interminabile sul ghiaccio infido, il 24 luglio raggiungemmo il punto dove allestimmo il nostro campo base, al di sopra del Circo Concordia, dove il ghiacciaio Godwin-Austen e il ghiacciaio Abruzzi si incontrano. I portatori che ci avevano accompagnato ci lasciarono per riprendere il cammino verso Skardu, mentre io e Peter restammo, soli. L’avventura poteva cominciare.

Da un lato per acclimatarci e dall’altro per osservare la parete nord-ovest dell’Hidden Peak, il 26 luglio risalimmo le due seraccate del Gasherbrum. Passando il ghiacciaio pensile, stretto fra Hidden Peak e Gasherbrum VI, giungemmo, dopo aver superato due gradini, alla valle del Gasherbrum, dalla quale, non visibile dal ghiacciaio Abruzzi, si erge verticale la parete che ci proponevamo di salire. Il percorso era pericoloso: di continuo si aprivano crepacci e le pareti circostanti minacciavano di scaricare. Tuttavia raggiungemmo più rapidamente del previsto la valle pianeggiante del Gasherbrum, a 5900 metri di altezza. Lì intendevamo bivaccare una notte, per poi osservare attentamente la parete la mattina successiva e infine fare ritorno al campo base.

Le sei vette del Gasherbrum, che cingono la vallata in un cerchio fitto, hanno tutte una maestosa forma a piramide. Ma senza dubbio il Gasherbrum I, o Hidden Peak, è la vetta che colpisce maggiormente per grandiosità. La sua parete sommitale, alta più di duemila metri, nasconde parecchie insidie a causa dei vasti tratti coperti da uno spesso strato di ghiaccio. Di fronte a questa parete si osserva il versante occidentale del Gasherbrum II, che forma una piramide maestosa insieme al Gasherbrum III. Le due vette sono collegate da una sella alta circa 7600 metri e sono entrambe piramidi dal disegno raffinato. A occidente si colloca la piramide di roccia incredibilmente verticale del Gasherbrum IV, alla quale seguono le vette sensibilmente più basse dei Gasherbrum V e VI.

Prima di affrontare il nostro vero obiettivo, la salita dell’Hidden Peak lungo la parete nord-ovest, intendevamo arrivare fino alla sella del Gasherbrum, da quella prospettiva analizzare la parete, osservare le tracce di passaggio delle slavine e delle scariche di pietre, per stabilire quale sarebbe stata la via preferibile fra le due possibili. Effettuammo l’esplorazione fra il 31 luglio e il 2 agosto: andammo fino al nostro bivacco, dove ci riposammo, poi salimmo alla sella del Gasherbrum, dove fummo costretti a constatare che la via sulla destra non poteva essere percorsa a causa di un enorme seracco a 7200 metri di quota.

Dopo che il cattivo tempo ci aveva trattenuti al campo base per parecchi giorni, l’8 agosto potemmo finalmente ripartire alla volta del bivacco. Vi giungemmo così rapidamente che ci sarebbero rimasti il tempo e le forze per continuare la salita lungo la valle del Gasherbrum e arrivare fino alla base della parete nord-ovest dell’Hidden Peak. Preferimmo invece trascorrere lì la notte: saremmo stati al sicuro dalle slavine e in caso di pericolo avremmo potuto trovare rifugio al campo base. Ricontrollammo l’attrezzatura e decidemmo di lasciare indietro le cartucce di gas in eccesso, i viveri non necessari e diversi chiodi da roccia. Alla fine ci ritrovammo con due zaini pieni, ognuno del peso di circa tredici chili. Eravamo pronti al passo decisivo.

Il tratto centrale della parete nord dell’Hidden Peak è spaventosamente verticale, più o meno come la nord del Cervino. Non ci sentivamo affatto sicuri di essere in grado di salirla, dal momento che non potevamo sapere se più in alto avremmo trovato roccia marcia. Per gli alpinisti esperti e allenati non è un problema così grave, purché non sia strapiombante e si possano sfruttare al meglio appoggi e prese. Lo sapevamo bene per esperienza diretta, ma ora si poneva la domanda se anche a settemila, ottomila metri saremmo stati in grado di utilizzare con disinvoltura le stesse tecniche che applicavamo a occhi chiusi sulle Alpi: nella zona della morte non basta l’abilità tecnica, ma diventano necessarie tenuta, resistenza e una notevole forza di volontà per affrontarne i pericoli.

Sapevamo che di sosta in sosta avremmo dovuto trovare i passaggi giusti, e su questa parete non sono molti. Benché in linea di massima avessimo già stabilito la via di salita, il nostro compito era comunque trovare dove passare di volta in volta, per poter raggiungere la successiva sosta valida.

La mattina seguente, di buon’ora, ci mettemmo in marcia per risalire la valle del Gasherbrum. Raggiunta la base vera e propria della parete e dopo aver preparato ogni cosa per la salita, fui sopraffatto dai timori e dalle preoccupazioni. Temevo un improvviso rovescio del tempo, cosa che avrebbe reso infinitamente difficile e faticoso trovare la via verso il basso, magari nella nebbia o sotto la neve. Sapevamo che sarebbe occorsa almeno una giornata per ridiscendere la parete e ce ne sarebbero volute due o tre per attraversare i seracchi e raggiungere il campo base in condizioni meteorologiche avverse. La mia esperienza mi faceva supporre che un cambiamento atmosferico si sarebbe potuto verificare nel giro di cinque, dieci ore. Nonostante le preoccupazioni, cominciammo la salita. Controllammo un’ultima volta l’attrezzatura, prendemmo zaini e piccozza e ci mettemmo al lavoro.

Ci alternammo nella conduzione, con regolarità. Chi andava da primo impostava la via. Il secondo seguiva le orme del compagno. In questo modo uno dei due recuperava le forze per poter battere la traccia nel tratto successivo. Non era sempre chiaro ed evidente dove si sviluppasse la via migliore, tuttavia ci fidavamo l’uno dell’altro. Non era necessario parlare, le parole ci avrebbero solo rubato un po’ di fiato.

Ogni venticinque passi facevamo una sosta. Chi andava da primo scavava un gradino nel ghiaccio, conficcando la lama della piccozza non appena il piede destro aveva trovato stabilità sull’appoggio, e a quel punto aspettava tenendosi alla piccozza e annaspando, fino a quando anche il secondo aveva raggiunto il gradino, per poi accollarsi la conduzione per i successivi venticinque passi.

Progredivamo in maniera lenta ma costante. Il venticinquesimo passo, l’ultimo prima della sosta, in alcuni casi pareva un inferno, ma dopo qualche minuto di recupero riuscivamo a riprendere la salita. Nel pomeriggio avevamo già portato a termine più della metà del primo risalto della parete. Calcolammo che, se fossimo riusciti a salire la seconda parte altrettanto velocemente, a sera avremmo potuto allestire il bivacco programmato al di sopra della cengia friabile sulla parte terminale della parete. Avevamo quindi tempo a sufficienza per poter progredire al ritmo tenuto fino a quel momento. Avanzavamo metro dopo metro, costanti. Forse era la fiducia reciproca che ci faceva rinunciare ai sistemi di sicurezza tradizionali, corda e chiodi, ma forse era anche la forte determinazione, nutrita dall’idea di fronteggiare un ottomila in due; in ogni caso, adottammo quello stile inconsueto di arrampicata. Alla base c’era la consapevolezza, guidata dall’istinto, che in quelle condizioni non saremmo mai stati in grado di portare con noi corde e chiodi necessari per una protezione a regola d’arte. Probabilmente il metodo che adottammo era l’unico che ci avrebbe consentito di raggiungere la vetta lungo quella parete senza aiuti esterni. Tuttavia, era una scelta più sicura di quanto potesse apparire a chi avesse osservato dal basso.

Una volta raggiunto il punto sotto il gradino di roccia che a 6900 metri di altezza chiude la parete, ci consultammo per stabilire come superarlo nella maniera migliore. Considerammo alcune fessure che dalla superficie ghiacciata concava si sviluppavano a forma di ragno nella roccia friabile. Al termine di una lunga sosta sui gradini di neve che con i ramponi avevamo scavato lungo il pendio, affrontai da primo il risalto di roccia. Roccia friabile, ma non del tutto verticale. Riuscivo quindi quasi sempre a caricare su appoggi e prese. Dopo pochi movimenti, tuttavia, dovetti sfilarmi i guanti per avere una tenuta migliore sulla roccia e nel ghiaccio. Infilai la mano nuda in un intaglio sottile. La roccia era fredda, ma non gelida, tanto che le dita non si incollarono. Ciò nonostante provavo una sensazione sgradevole. Quando lasciavo la piccozza era come se mi stessero scuoiando la mano.

Nel frattempo, da sotto, Peter mi osservava con attenzione. Dopo i primi passi su quel terreno persi ogni incertezza e mi concentrai completamente sul tentativo di portare a termine un traverso sulla destra. Il palmo della mano premuto su una piccola superficie di roccia leggermente pronunciata, le punte dei ramponi ancorate nella roccia detritica, spostai il peso centimetro dopo centimetro, cercando nuovi appoggi per le mani solo nel momento in cui mi sentivo di poter portare a termine un movimento in sicurezza. Arrampicare in libera a quella quota si rivelò una fatica improba. Benché fossi percorso da un tremito in tutto il corpo, interiormente avevo conservato la calma. Una grande tranquillità mi pervase. Il solo fatto di sapere che Peter stava sotto mi infondeva sicurezza, al di là della certezza di una protezione perfetta.

Un poco alla volta le dita si fecero insensibili, per il freddo e per la neve. L’unico mio desidero era una pausa, che tuttavia ci avrebbe fatto perdere inutilmente il ritmo regolare acquisito. Perciò progredii con ostinazione e accanimento. Solo quando individuai sopra di me un canalino di ghiaccio che finalmente faceva pensare a una sosta sicura, capii che fra poco avrei potuto di nuovo infilare i guanti. Non dubitai nemmeno un attimo che anche Peter avrebbe superato quel passaggio difficile, e lo osservai con la stessa attenzione che lui aveva dedicato alla mia salita. La sicurezza dei suoi movimenti mi fece pensare che non avesse paura, benché il suo viso rivelasse chiaramente la tensione. Con grande abilità le sue dita cercavano e trovavano – anche lui si era sfilato i guanti – le fessure più adatte e le sporgenze di roccia migliori.

Dopo una lunga serie di respiri profondi mi sentii di nuovo così in forze da poter progredire lungo il canale al di sopra della roccia. Il tratto in questione prometteva di essere più complicato, quanto meno non ero ancora riuscito a individuare un passaggio. Mi girai un attimo e vidi che Peter aveva già portato a termine il traverso e si stava riprendendo, appoggiato alla parete di roccia della mia ultima sosta.

Alla vetta mancavano ancora quasi 1200 metri. La parete precipitava per duemila metri fino alla base. Il sole mi abbagliava dolorosamente, una trafittura negli occhi minacciava di farmi perdere l’equilibrio. Sotto di me il ribollire della nebbia pomeridiana nelle valli, al di sopra il blu magico del cielo. Per un attimo quasi mi sembrò di dover lasciare tutto, tale era la sensazione di assenza di peso che mi pervadeva.

Man mano che il canale si chiudeva per diventare un vero e proprio camino e io progredivo verso l’alto a gambe divaricate, in opposizione, un unico pensiero si fece ossessivo: «Non scivolare, o è finita!» Il pericolo era reale. Se fossi volato, sarebbe stata la fine per entrambi, perché nel volo avrei trascinato anche Peter. Per infondermi coraggio continuavo a ripetermi: «Ancora duecento metri e siamo al sicuro! Devi farcela!» Per prudenza premetti ancor più le mani sulle pareti verticali e parallele fra cui salivo. Per fortuna il camino si stringeva ulteriormente, cosa che mi consentiva di ancorarmi sempre meglio. Finalmente arrivai in fondo. Arrampicai nella fessura che seguiva fino a quando, sulla sinistra, passai su una cresta. Lungo la cresta raggiunsi una spalla fra la parete nord e la nord- ovest. Lì sostai alla base di un muro verticale di neve che mi sembrava decisamente a rischio di slavine. Benché non fossi ancora in grado di stabilire come superare il risalto successivo, mi sentii più fiducioso che al di sopra del risalto avremmo trovato un punto adeguato per bivaccare.

Nel frattempo Peter mi aveva raggiunto alla sosta e aveva cominciato a salire oltre la spalla verso la parete verticale. Lì si fermò per radunare le forze per progredire. Con entusiasmo rinnovato andò avanti. Picchiava la piccozza nella neve, la agguantava con la destra, con la sinistra cercava una presa sicura sulla roccia che emergeva dalla neve e si tirava verso l’alto. Dal basso vedevo il tremito che gli scuoteva le braccia. Dopo alcuni metri trovò un piccolo appoggio con il rampone sinistro e vi caricò il peso. Poi progredì obliquamente sulla sinistra e raggiunse un gradino di roccia sul quale poté sedersi e recuperare, fino a quando lo raggiunsi.

Mentre affrontavo questo ultimo gradino, le mie gambe erano percorse da tremiti incontrollati, soprattutto nel momento in cui con le punte frontali dei ramponi venivo a contatto con asperità del terreno anche modeste, sulle quali far leva per issarmi.

Al di sopra della cresta incontrammo un avvallamento dove avremmo potuto allestire il bivacco. Si trattava di un punto praticamente perfetto. In quella giornata avevamo superato 1200 metri di dislivello, vista la quota elevata un risultato di tutto rispetto. Dopo una rapida ricerca trovammo una zona più o meno pianeggiante su un tratto detritico inclinato, e lì, a 7100 metri, ci attrezzammo per la notte.

Prima di addormentarci mettemmo ancora a punto la strategia per il giorno successivo, giorno per il quale prevedevamo la salita alla vetta. Le nostre preoccupazioni principali riguardavano il mal di montagna, la stabilità del tempo, la velocità nel raggiungere il punto più alto nelle prime ore del pomeriggio. Se ciò non fosse accaduto, avremmo dovuto ripiegare: i pericoli di una discesa notturna sarebbero stati quasi sicuramente fatali.

Alle otto del mattino seguente eravamo già pronti. Senza fermate arrivammo fino a un punto al di sopra di una conca, che dalla valle del Gasherbrum ci era apparsa come una falce rovesciata, ma che in realtà si rivelò essere un enorme anfiteatro concavo. Recuperammo seduti su una minuscola piattaforma che Peter aveva scavato nella neve. Da lì potevamo vedere la nostra tenda da bivacco gialla già in pieno sole. Allontanatici di pochi passi da quel punto arrivammo a una sporgenza di roccia dove facemmo un’altra sosta. Solo allora traversammo la conca. Sul piano tecnico il terreno non presentava difficoltà, era la quota a crearci qualche problema! Ogni passo era una tortura: undici, dodici, ventiquattro, venticinque. Breve sosta, poi di nuovo fino al venticinquesimo passo. Ci avvicinavamo alla cresta, dove parete nord e nord-ovest si incontrano. A ogni sosta ci sentivamo completamente esausti. Eppure ci mancavano ancora duecento metri di percorso simile!

Di tanto in tanto ci sedevamo e guardavamo giù, a valle. Intorno a noi le vette, lo strato di umidità ben al di sotto di noi. Giunti alla cresta che unisce parete nord e nord-ovest, ci consultammo sulla via da seguire da lì. Sulla sinistra della cresta le rocce erano troppo ripide, perciò fummo obbligati a orientarci sulla destra. Il tempo teneva ancora. Il sole illuminava già le ultime gole e gli angoli più remoti quando ci trovammo vicini alla parete sommitale: sopra di noi si assottigliavano le linee che conducevano al vertice della piramide.

A quel punto la parete diventava meno ripida. Più salivamo e più il pendio si inclinava. Dovemmo superare un’altra sella, così vicina che ci sembrava possibile toccarla. Quando Peter ebbe raggiunto la cresta, il sole e il vento cominciarono a giocare con i suoi capelli. Nel punto dove mi trovavo io, più in basso, l’aria era ancora calma. Iniziai a salire con la speranza di poter filmare la progressione di Peter.

Giunti alla cresta fra la parete nord-ovest e il versante sud-est si spalancò davanti ai nostri occhi, come un dipinto, oltre la vetta orientale dell’Hidden Peak, il Tibet, uno spettacolo che quanto a vastità faceva impallidire qualunque cosa avessi mai visto. Un panorama montano in bianco e nero, dove le creste si succedevano l’una all’altra all’infinito. Le singole vette apparivano gigantesche, simili a onde tempestose improvvisamente pietrificate. Sulla sinistra le cime più alte del Karakorum, uno dopo l’altro tre ottomila: Gasherbrum II, Broad Peak, K2, montagne di confine fra Tibet e Pakistan.

Lì, in prossimità della vetta, tutto appariva senza tempo. Il soffiare del vento e il brusio che proveniva dall’interno della montagna inondavano le vallate. Un fruscio costante e fluttuante. I colori cangianti nel circo dentellato si fondevano nel bianco e nero sulle vette. Eravamo seduti sulla cima, al centro di uno spazio infinito e vuoto. Più in basso un vapore latteo si stendeva sulle valli. L’orizzonte intorno cresceva come il vuoto dentro di me. Con una sensazione indescrivibile di lieta indifferenza mi risvegliai da questo stato di armonia, da una sorta di Nirvana.

Durante la discesa ognuno di noi – viso rivolto alla parete – cercò la sua via accanto alla linea di salita. Il fatto che avessimo raggiunto la vetta aveva rafforzato la nostra sicurezza interiore. La stanchezza era completamente scomparsa. Euforico per il successo ottenuto, mi precipitai letteralmente verso il basso, senza per questo comportarmi in modo superficiale e concentrandomi passo dopo passo sulla sicurezza. In tarda serata arrivammo alla nostra tenda che vedevamo già da lontano. Mi sentii sopraffatto da intensi sentimenti di gioia quando, dopo un pasto frugale – soprattutto cercai di bere molto – mi infilai nel mio sacco a pelo. Dopo il tramonto completo mi addormentai senza fatica.

K2 e Broad Peak in Karakorum.

K2 e Broad Peak in Karakorum.

La mattina successiva, intorno alle cinque, mi svegliai da un sonno profondo e mi accorsi immediatamente che ai miei piedi la tenda era strappata. Attraverso gli strappi il vento aveva soffiato all’interno un po’ di neve polverosa che si era accumulata all’altra estremità. Durante la notte si doveva essere scatenata una bufera, danneggiando i teli. Pur rendendoci immediatamente conto della gravità della situazione, non ci facemmo prendere dal panico. Quando mi alzai per controllare, con i capelli impastati di neve, notai che continuava a entrarne. Evidentemente, al termine della salita, avevamo depositato l’attrezzatura troppo vicino alla parete della tenda, cosicché la tempesta aveva lacerato i teli. Pensammo che nella giornata trascorsa ci eravamo stancati più di quanto avessimo immaginato: diversamente non avremmo saputo spiegare come avevamo potuto non accorgerci dell’arrivo della tempesta e tanto meno dei danni. Il vento strattonava la nostra tenda con tale forza che sembrava sollevasse noi e tutte le nostre cose.

In effetti, appena aprii la tenda, tutto cominciò a prendere il volo. A fatica riuscimmo a infilare negli zaini la roba sparsa ovunque. Non ci potevamo permettere un solo minuto di ritardo nella discesa. Rapidamente indossammo gli scarponi, controllammo i ramponi, prendemmo zaini e piccozze e ci avviammo.

Benché ci sentissimo ancora un po’ rigidi per la notte, dovemmo subito affrontare la difficile discesa lungo la parete. Non potevamo perdere tempo, sapevamo che con quelle condizioni meteorologiche ogni minuto guadagnato poteva significare la salvezza. Mettemmo a frutto tutte le nostre capacità e la nostra concentrazione per superare in discesa i passaggi estremamente impegnativi che ci avevano dato filo da torcere in salita.

A quel punto tutta la soddisfazione per la conquista della vetta si volatilizzò. Pensavamo solo a una cosa: arrivare alla piana della valle del Gasherbrum. Questo avrebbe richiesto il massimo impegno, e il ricorso alle capacità tecniche più raffinate. La fatica non contava, l’unica cosa importante era arrivare giù.

Ci obbligammo ad agire, a osare il primo passo e a lasciare il nostro terrazzo di detriti, giù, lungo la parete apparentemente infinita. Esitare non serviva a nulla.

Seguimmo la stessa via anche in discesa. Sguardo rivolto al pendio, procedevamo osservando la regola dei tre punti. Già dopo pochi metri il vento diminuì: la parete era riparata, e questo ci favoriva. Come in salita, ci alternammo nella conduzione. Scendemmo di sporgenza in sporgenza, e a ogni metro l’aria si faceva più ricca di ossigeno. Potemmo inserire pause meno frequenti, benché lo sforzo fosse ancora immane. Senza mai perdere di vista le precauzioni: anche la più modesta scarica di pietre avrebbe potuto colpire chi dei due si trovava più in basso. Cercammo perciò di mantenere una distanza ridotta, per non metterci in pericolo a vicenda.

Nel terzo tratto inferiore della discesa la situazione si fece estremamente pericolosa: la parete diventava molto ripida, oltre a essere coperta di ghiaccio, cosa che ci consentiva di utilizzare solo le punte frontali dei ramponi come appoggio. Ricorremmo a piccozza e chiodi, ma rinunciammo a qualunque tipo di protezione, benché fossimo consapevoli che il benché minimo scivolone avrebbe significato un volo. Lo mettemmo in conto, del resto non c’era altra possibilità.

Quattro ore dopo ci eravamo lasciati alle spalle metà della parete. Si trattava di superare altri seicento metri di dislivello. A ogni appoggio avvertivo i muscoli induriti. Nonostante la tensione fisica infernale non riuscivo assolutamente a scaldarmi. Dovemmo inserire pause di recupero più frequenti, ogni volta un po’ più lunghe. Solo il pensiero consolatorio che più in basso il tormento avrebbe avuto fine mi infondeva coraggio. Tuttavia, più di una volta mi ritrovai sul punto di mollare. Mi sentivo letteralmente esausto! Al termine di sei ore di fatiche indicibili raggiungemmo la valle del Gasherbrum. Arrivammo al nostro bivacco strisciando più che camminando e lì recuperammo bene grazie a una lunga sosta. Lo stesso giorno proseguimmo nella discesa lungo i crepacci per cercare di raggiungere il campo base. Quando però Peter ci finì dentro per la seconda volta, facemmo dietrofront. La mattina successiva, con la neve ancora dura, riprendemmo la nostra discesa senza difficoltà. Il 12 agosto, intorno a mezzogiorno, arrivammo sani e salvi al campo base. I primi a rallegrarsi con noi furono alcuni colleghi alpinisti di una spedizione polacca. Parlarono di una nuova epoca dell’alpinismo sportivo, che, a loro giudizio, noi – io e Peter Habeler – avevamo aperto con la salita dell’Hidden Peak.

In due sul tetto del mondo

Dopo il nostro successo all’Hidden Peak, Peter Habeler e io ci ponemmo come fine di scalare la vetta più alta del mondo (8848 m). Per noi gli obiettivi erano due: innanzitutto intendevamo salire l’Everest per la prima volta senza ossigeno – by fair means. Volevamo scoprire se fosse possibile affrontare la montagna più alta della Terra senza bombole. Dopo che, oltre alla via normale, erano state salite tutte le vie logiche, cioè la cresta occidentale, la parete nord e la sud-ovest, oltre a una salita in solitaria, restava solo il problema di una salita «corretta», una conquista della vetta senza maschera. In secondo luogo puntavamo non a raggiungere la vetta a ogni costo, bensì ad applicare anche sull’Everest lo stile alpino già sperimentato sull’Hidden Peak. Ma poiché in questa impresa restavano molti punti interrogativi, decidemmo di aggregarci a una spedizione più massiccia, la prima spedizione sull’Everest organizzata dal Club alpino austriaco, di cui, oltre a me e Peter, facevano parte altri sei alpinisti, due medici, tre cameramen, un amministratore del campo base e oltre venti sherpa.

Il capospedizione, Wolfgang Nairz, delineò così il nostro ruolo particolare all’interno della squadra: «Siamo una spedizione, ma Reinhold e Peter formano un team autonomo. Fino al campo base avanzato lavoreremo insieme, poi i due decideranno cosa fare. Se il pilastro sud sarà in condizione, cercheranno di salirlo: se invece non sarà possibile, ci seguiranno lungo la normale (cresta sud) e faranno così il loro tentativo senza maschere. Io penso che daranno la precedenza al tentativo di salire senza ossigeno, se Reinhold e Peter si sentiranno bene».

PURE CIFRE

Come ha potuto finanziare la sua quota di partecipazione alla spedizione all’Everest?

Alla fine del 1977 cominciai a firmare contratti con la mia casa editrice, con Geo e con HTV, la televisione britannica. Così misi insieme circa trentamila franchi svizzeri, con cui pagai la nostra quota. Per è stata HTV a concludere l’affare migliore. Ha già venduto la pellicola a cinquantasei emittenti.

Quanto è costata in tutto la spedizione?

La nostra spedizione, con undici alpinisti e venti sherpa, era piccola per le condizioni himalayane, in linea con il nuovo modo di affrontare la montagna himalayana con team più snelli. Il costo, che si è aggirato intorno ai 250.000 franchi svizzeri, è stato piuttosto contenuto, anche grazie alla notevole riduzione degli ausili tecnici.

Cosa comprendono questi costi?

La cifra più elevata riguarda il trasporto dei materiali dall’Europa al Nepal (varie tonnellate per via aerea). Anche il costo dei portatori è elevato. Gran parte delle attrezzature e dei materiali era stata messa a disposizione dai produttori. Un’industria farmaceutica svizzera fornì i medicinali.

Dal momento che stiamo parlando di numeri: alla fine, quanto guadagna da un’impresa di questo tipo, se l’esito è positivo?

I compensi dei giornali e i diritti televisivi. Per il libro la mia parte è del dieci, dodici per cento circa. All’inizio degli anni Ottanta percepirò i diritti per la traduzione in tredici lingue. Una conferenza con diapositive mi frutta fra i mille e i duemila franchi svizzeri (ho tenuto una settantina di conferenze su questa salita), mentre per un’ora dedicata ad autografare copie di libri chiedo trecento franchi.

Le è già stato rinfacciato di «vendersi» come fosse un asso dello sci o un pilota di Formula 1. Lei cosa ne dice?

Forse c’è qualche alpinista che lo fa, io no. Nei miei contratti con cinque o sei produttori di attrezzatura e materiali tengo sempre a precisare che non voglio essere obbligato ad andare in giro mostrando un logo qualunque. Ma se contribuisco a sviluppare qualcosa, mi impegno anche a usarla. Alla fine è la mia esperienza che mi permetterà di testarla, allora otterrò il prodotto gratis, e potranno approfittarne anche i miei compagni nelle spedizioni private. D’altra parte i produttori hanno il diritto di utilizzare il mio nome nelle loro campagne pubblicitarie.

(Schweizerisches Handelsblatt, rivista economica, 1979, 2)

 

 

Nel marzo del 1978 iniziò il nostro viaggio verso il Nepal. Il tragitto fino al campo base ci portò a passare Lukla, Namche Bazar, Khumjung nei pressi del convento di Thyangboche, Pangboche e Lobluche, fino alla base del ghiacciaio del Khumbu. Procedevamo con grande lentezza per acclimatarci. Dopo aver raggiunto il campo base, il nostro problema maggiore fu quello di superare la seraccata del Khumbu, una lingua di ghiaccio molto frantumata che si estende fino al Western Cwm. Salendo da sud il passaggio è molto difficile, poiché questo labirinto di ghiaccio è in costante trasformazione: il ghiacciaio si muove a una velocità di circa un metro al giorno. Il 27 marzo cominciammo a organizzare una via di salita per i nostri portatori d’alta quota, e impiegammo più o meno una settimana per aprirci una via in questa zona pericolosa, utilizzando circa cinquanta scale e più di mille metri di corda fissa. Nel corso dell’impresa io stesso ho attraversato quattordici volte la seraccata e ho provato sempre un grande sollievo quando, scendendo dalla zona più alta, sono tornato sano e salvo al campo base. Quasi tutti, gli undici membri della spedizione e i giornalisti e fotografi che ci hanno accompagnato per un tratto, sono finiti almeno una volta in un crepaccio. Ciò nonostante io e Peter Habeler abbiamo preferito andare su e giù dalla seraccata slegati. Senza corda ci sentivamo più sicuri, e soprattutto eravamo più rapidi. Se una torre di ghiaccio fosse crollata vicino a noi, senza il vincolo della corda ci saremmo spostati in un punto sicuro molto più rapidamente. Dal nostro punto di vista la velocità era determinante per la sopravvivenza di fronte a pericoli incalcolabili e al rischio costante di un crollo.

Peter e io discutemmo il piano del nostro tentativo di vetta. Decidemmo che la fase preparatoria era conclusa. I campi in quota erano stati organizzati, la via era preparata al meglio, con scale e corde fisse. Al termine di una pausa di recupero intendevamo intraprendere un primo tentativo, con il valido sostegno di alcuni sherpa. Eravamo perfettamente consapevoli del fatto che il tentativo avrebbe potuto significare anche la morte. Tuttavia non avvertivo più alcuna costrizione. Stavo vivendo quell’esperienza con grande intensità, e ogni tanto mi sorprendevo a desiderare che la spedizione non finisse mai.

Al campo base dell’Everest, con il compagno di cordata Peter Habeler, il capospedizione Wolfgang Nairz e gli sherpa.

Al campo base dell’Everest, con il compagno di cordata Peter Habeler, il capospedizione Wolfgang Nairz e gli sherpa.

Alla fine di aprile il primo tentativo fallì miseramente. Come da accordi Peter, alcuni sherpa e io ci eravamo avviati. Tuttavia già al campo III, apparentemente a causa di un disturbo di stomaco, Peter dovette gettare la spugna. Mentre lui rimase al campo, io tentai di progredire insieme ai due sherpa Mingma Noru e Ang Dorje, per tentare eventualmente una solitaria. In tre arrivammo al Colle Sud, la sella a circa ottomila metri fra Everest e Lhotse. Lì allestimmo il campo IV. Quando però nella notte si scatenò una tempesta terribile, dovetti rinunciare definitivamente al sogno di una solitaria. Come se non bastasse, la mattina successiva fu addirittura impossibile iniziare la discesa. Eravamo bloccati nella zona della morte! Solo con grande fatica riuscimmo a montare un’altra tenda, a una temperatura di quaranta gradi sotto zero e con il vento che soffiava a una velocità di duecento chilometri all’ora. Senza questo ricovero non avremmo avuto scampo. Non voglio pensare a cosa sarebbe successo se la tenda non avesse resistito alla tempesta. Quella notte il nostro unico pensiero fu di tener duro. Certo ci trovammo più volte al limite fra la vita e la morte. Solo quando all’alba del secondo giorno il vento calò leggermente, osammo iniziare la discesa. Eravamo rimasti nell’aria rarefatta della zona della morte per quasi cinquanta ore! Non potevamo permetterci di perdere un solo minuto.

Mentre al campo base mi riprendevo dalle fatiche dei giorni precedenti, un’altra squadra si era messa in marcia in direzione della vetta. Il 3 maggio ricevemmo via radio la notizia che il gruppo di testa, costituito da quattro persone – Robert Schauer con lo sherpa Ang Phu e Wolfgang Nairz con Horst Bergmann –, aveva raggiunto il punto più alto della Terra. Il gruppo era arrivato alla sella sud lungo la via preparata, aveva allestito un quinto campo avanzato a 8500 metri e da lì si era spinto fino alla vetta senza ulteriori tappe. Nel tratto finale tutti erano ricorsi alle maschere; solo Robert Schauer aveva utilizzato l’ossigeno al di sopra degli ottomila metri, mentre gli altri ne avevano avuto bisogno già a 7200 metri. La spedizione organizzata dal Club alpino austriaco aveva quindi portato a termine un’ascesa classica dell’Everest, per la precisione la ventiduesima dopo la cordata Hillary-Tensing del 1953.

Lo stesso giorno in cui fu diffusa la notizia dell’avvenuta scalata, io e Peter salimmo con condizioni meteorologiche eccellenti dal campo base al campo II. Intendevamo fare un ultimo tentativo, anche se le possibilità di successo erano limitate. Nonostante tutto volevamo tener fede ai nostri propositi di conquistare l’Everest senza bombole dell’ossigeno, by fair means.

Con l’aiuto di tre sherpa il 6 maggio io e Peter arrivammo al campo III senza alcuna difficoltà. Benché fossimo costretti a un duro lavoro di tracciatura, ci sentivamo molto bene e nelle condizioni migliori. Eravamo fiduciosi di poter raggiungere la sella sud il giorno successivo. Per precauzione avevamo affidato ai due sherpa le maschere d’ossigeno francesi, nel caso fosse successo qualcosa a me o a Peter. Nella malaugurata ipotesi di un colpo apoplettico – cosa che paventavamo –, avremmo potuto ricorrere all’ossigeno. Se non avessimo utilizzato le maschere, avremmo potuto lasciarle, sigillate, al campo IV, a disposizione di una cordata successiva.

Il giorno seguente nel giro di tre ore raggiungemmo la sella sud, dove entrambi ci infilammo immediatamente nella tenda, mentre gli sherpa tornarono indietro dopo una breve pausa di recupero. Trascorremmo l’intero pomeriggio a preparare tè, a bere e riposarci. Mentre passavamo così il tempo – respirare cominciava a essere piuttosto impegnativo –, a un tratto fece la sua comparsa il cameraman inglese Eric Jones, che intendeva fare delle riprese al Colle sud. Il tempo prometteva di restare bello, almeno a detta delle previsioni trasmesse via radio.

La mattina del giorno decisivo, l’8 maggio, verso le tre cominciai a preparare la nostra colazione. Poi si avviò l’interminabile procedura della vestizione. Ci volle parecchio per riuscire a indossare le due paia di calze e le scarpette interne, e per riscaldare leggermente il guscio esterno congelato degli scarponi, tenendolo fra le gambe: terminammo l’operazione che erano ormai quasi le cinque. Fra le cinque e le sei fummo pronti per metterci in moto. Il tempo era peggiorato, si era formata una pesante coltre di nubi, solo a occidente si intravedeva una sottile striscia di cielo blu. Da sud spirava un vento tagliente, le vallate erano nascoste nella nebbia.

In un primo momento mi sentii come paralizzato. Entrambi esitavamo. Solo quando ci fu evidente che si trattava della nostra ultima chance, decidemmo di andare fin dove possibile. Inizialmente riuscimmo a progredire molto lentamente, nonostante gli zaini leggeri. Solo quando raggiungemmo un nevaio, il fondo duro ci permise di avanzare un po’ più rapidi. Dovevamo comunque prestare un’attenzione estrema, poiché il terreno era disseminato di crepacci. Dalla cupola di ghiaccio, al di sopra della quale si erge la piramide sommitale, potemmo per la prima volta rivolgere lo sguardo a oriente. Lo sguardo coglieva il massiccio poderoso del Makalu. Tuttavia, in breve tempo lo spettacolo terminò. Il vento fece di nuovo turbinare la neve, i chicchi gelati cominciarono a colpirci in viso.

Sotto i piedi lo strato era duro, perciò i ramponi prendevano bene. Non era tanto il terreno a crearci problemi quanto l’aria sottile, povera di ossigeno. Le pause si fecero più frequenti e più lunghe. Più in alto, dove si sprofondava fino alle ginocchia nella neve accumulata dal vento, deviammo il più spesso possibile verso i pilastri di roccia tecnicamente più impegnativi, ma che tuttavia ci risparmiavano il duro lavoro di tracciatura. Dopo circa quattro ore raggiungemmo il campo V avanzato, che per noi avrebbe rappresentato una possibilità di ritiro se nel corso della salita avessimo incontrato difficoltà.

Ci riposammo per una mezz’ora, poi proseguimmo con fatica. A ogni passo diventavamo più lenti. Sul versante orientale della cresta, che fa già parte della Cina, la neve era gelata, dura. Tuttavia fummo costretti a tornare sul versante nepalese, perché l’altra via sarebbe stata troppo ripida. Su questo lato la neve ci arrivava alle ginocchia, e battere la traccia era faticosissimo. Benché il pilastro di roccia verticale sulla sinistra della cresta sud-est sembrasse impraticabile, traversammo per tentarlo, nonostante tutto. Cominciammo a salire sfruttando le punte frontali dei ramponi. Dopo pochi passi fummo costretti ad appoggiarci alle piccozze per rilassare il tronco, mentre a bocca spalancata cercavamo disperatamente l’aria. A ogni respiro avevo l’impressione di scoppiare.

Nel momento in cui rivolsi lo sguardo verso l’alto per fissare la vetta principale, ebbi la sensazione che fosse ancora infinitamente distante. Razionalmente, però, mi rendevo conto che a quote tanto estreme la percezione delle distanze è ingannevole: l’aria sottile fa sì che i punti e le linee appaiano ben più lontani di quanto non siano in realtà. In prossimità della vetta ritrovai la lucidità. Metro dopo metro, cresceva la consapevolezza che ce l’avremmo fatta.

Arrivati all’Anticima Sud ci legammo. Pregustando il successo non osai guardare verso l’alto. Non volevo sapere quanto ancora, quanti metri dovesse durare quella tortura. In quei minuti passai da stati di assoluta certezza ad altri di grande inquietudine. Poco dopo mezzogiorno avevamo raggiunto l’altezza di 8800 metri. A quel punto anche stare in piedi era un problema, e camminare era una vera sofferenza. Eravamo di continuo costretti ad accovacciarci. Le gambe pesavano come il piombo. Benché non potessimo aiutarci a vicenda, era importante che l’altro ci fosse. La sola presenza di Peter mi era di stimolo per stringere i denti e affrontare i pochi metri successivi. Sapevamo di poter contare l’uno sull’altro. Le numerose spedizioni vissute insieme avevano fatto di noi un team estremamente affiatato.

Il dolore ai polmoni era spaventoso, a ogni respiro avevo la sensazione di soffocare. Nonostante tutto continuammo con la nostra tortura: dieci o quindici passi, poi una sosta e di nuovo qualche passo. Non sapevo più dove fossi, non sapevo più di muovermi sulla vetta più alta del globo, il sogno di qualunque alpinista. Ogni movimento avveniva in maniera automatica. A un tratto non avvertii più né i dolori né la stanchezza. Era come se la mia esteriorità fosse morta, mentre dentro di me regnava un vuoto insopportabile. Non ero più padrone di me stesso, mi sentivo simile a una marionetta, mosso da fili invisibili. Percorsi gli ultimi metri fino alla vetta come in trance. Arrivato in cima mi lasciai semplicemente scivolare a terra. Respiravo a tratti. Ci volle un’eternità perché mi riprendessi un poco, per riuscire a estrarre dallo zaino la macchina e fare alcune riprese.

Dopo quello sfinimento durato ore, dopo la sequenza monotona dei passi, era un vero piacere non dover pensare ad altro che a respirare. Lentamente venni pervaso da una calma totale. Ancora non riuscivo a comprendere fino in fondo che io e Peter avevamo realizzato un’impresa storica. Avevamo portato a termine quello che nessun altro prima di noi era riuscito a fare.

Peter era sdraiato accanto a me. Il vento ci aveva ricoperti di neve, avevamo il fiatone, boccheggiavamo. Poi accadde qualcosa di straordinario:

«Quando mi alzo Peter mi guarda fisso, come se volesse imprimersi il mio viso, come se non conoscesse il mio viso.

«Non provo alcuna sensazione di trionfo o di onnipotenza, sento solo di essere qui e di essere grato al mio compagno. In questo stato di felicità, per un momento perdo la ragione, non rifletto più, sono dominato dalle emozioni, che erompono senza incontrare alcuna resistenza. Non ci parliamo, ci fotografiamo solamente.

«D’un tratto Peter sente che le dita gli si rattrappiscono, come prima sull’Hillary Step. Sono crampi, o è la minaccia di apoplessia cerebrale. Penso allo sherpa che pochi giorni fa è stato trasportato già semiparalizzato: apoplessia cerebrale per eccesso di fatica in alta quota. Peter diventa inquieto, vuole scendere.

«Scende da solo, senza corda. Lo vedo ancora sull’Anticima Sud, mentre io parlo col registratore.

«Sento chiaramente di non avere voglia di scendere, come se la discesa non facesse parte dei miei piani. In verità, per tutto il tempo della preparazione, quindi da anni, mi sono sempre occupato della salita, al massimo della vetta, ma mai della discesa. Ora devo impormi di alzarmi e di lasciare questo punto.

«Mi sforzo di guardare avanti, di guardare verso il basso per riuscire a scendere. Tocco ancora una volta il pezzo di corda e le batterie della cinepresa sul segnale di vetta e mi incammino nella speranza che Peter mi aspetti sull’Anticima Sud» (REINHOLD MESSNER, Everest, 1979).

Raggiunta l’Anticima Sud, vidi che Peter non era più lì. Probabilmente era stato colto dal panico e aveva proseguito. Mentre cercavo di raggiungere a tastoni un ripido pendio, improvvisamente percepii alla mia sinistra una specie di pista nella neve. Evidentemente Peter si era buttato giù di lì! Ebbi un brutto presentimento: sapevo che il versante orientale precipita per quattromila metri, e in basso è pieno di crepacci. Che Peter fosse uscito di senno e si fosse buttato giù, impazzito? «Ero talmente stanco che non sarei riuscito a muovermi più velocemente nemmeno volendo. Come un sonnambulo passai gli ultimi pendii di neve al di sopra della sella meridionale. Ogni volta che mi accucciavo per riposarmi, guardavo l’orologio, senza però riuscire a memorizzare che ora fosse. Gli ultimi passi verso la tenda mi indussero a considerare di aver portato a termine un’impresa che non sarei mai stato in grado di ripetere: davanti alla tenda ebbi la sensazione di essere a casa, sensazione che però svanì presto nella desolazione diffusa al Colle sud. Solo una volta entrato provai sollievo e trionfo: Peter ed Eric erano lì. Quando mi ci infilai e vidi Peter, ebbi un unico pensiero: ce l’abbiamo fatta! A quel punto mi fu chiaro che avrei potuto affrontare anche altri ottomila senza ossigeno!» Quando via radio parlammo con il campo principale, provai una gioia incontenibile, da togliere il fiato.

A sera iniziai improvvisamente ad avere male agli occhi. Di lì a poco cominciai a non vederci più bene. I dolori aumentarono. Il primo pensiero naturalmente fu: danno nervoso, se non addirittura cerebrale! Quando iniziarono a dolermi le cavità oculari capii che si trattava di oftalmia. Passai una nottata da incubo. Continuai a premermi i pugni sugli occhi. Non sapevo più cosa fare, mi misi a piangere e urlare. Le lacrime almeno lenivano il dolore.

Il giorno seguente, 9 maggio, riuscii a portare a termine la discesa fino al campo II, nonostante l’oftalmia, caracollando dietro a Peter, il quale a sua volta scese come poteva, dato che si era lesionato la caviglia destra. Il 10 maggio arrivammo al campo base come due invalidi. Del resto non era importante, non erano problemi così seri, e l’atmosfera era più che positiva: avevamo dimostrato che si può salire sulla più alta montagna del globo anche senza bombole d’ossigeno.

DISSAPORI DOPO LA VETTA

Dopo la spedizione sull’Everest fra Peter Habeler e lei ci sono stati contrasti? Come mai la prima salita dell’Everest senza ossigeno ha agitato gli animi degli alpinisti più di qualunque altra spedizione di questo decennio?

Oggi come allora sono amareggiato dal fatto che nel suo libro Der einsame Sieg – Mount Everest ’78 Peter abbia accettato di inserire riferimenti a questo «esperimento complessivo» che non corrispondono ai fatti e che, come molti giornalisti e alpinisti, abbia cercato di fare affari alle mie spalle proprio con un’impresa tanto discussa come questa. Rispondere a tali domande mi imbarazza e basta, ma perché non dovrei dar voce alla mia rabbia, alla delusione per il fatto che qualcuno mi rinfaccia l’abilità negli affari, e proprio dalle pagine di giornali e libri? Perché non dovrei dire quello che penso? Perché dovrei fingere superiorità, girare intorno all’argomento, smorzare, simulare amicizia? A quell’epoca le dichiarazioni di Peter mi irritarono più del dottor Herrligkoffer secondo il quale noi avremmo ammesso che alla sella sud avremmo liberato nella tenda chiusa ossigeno dalle bombole. Mi fecero sorridere le dichiarazioni ingenue di alcuni sherpa i quali arrivarono a sostenere che avevamo portato con noi, di nascosto, cartucce di ossigeno. So bene che alcuni sherpa sarebbero stati più adatti di me e di Peter a salire l’Everest senza maschera, quindi il loro sfogo dopo il nostro successo era comprensibile. Quello che non ho capito è stato il tentativo davvero pesante di Peter Habeler di mettere in ombra me e di apparire come la guida alpina dello Zillertal sempre ragionevole e disponibile, che all’ultimo minuto interviene e risolve la situazione. Non era questo il Peter che avevo conosciuto.

Mi ci volle più di un anno per capire Peter Habeler. Perché fa sue tutte le esagerazioni che i ghostwriter imbastiscono per lui, e finisce col crederci davvero? Forse perché vorrebbe essere diverso dall’uomo che lui stesso descrive? Peter cerca di conquistare le luci della ribalta con una serie infinita di conferenze, oppure in televisione, o ricevendo premi o titoli, come se non sopportasse la mia ombra. Eppure sono stati proprio i suoi amici a relegarlo in quella posizione. L’attenzione del pubblico gli fa comunque bene. Peter si identifica facilmente nel ruolo del vincitore solitario. È scaltro e sfrontato quando dichiara: «Gli atteggiamenti da eroe non mi si addicono», e infarcisce il suo resoconto sull’Everest con la storia commovente di un salvataggio e poi vende questo resoconto, corredato delle mie foto, come «una vittoria solitaria su se stesso». L’uomo che «mi capisce al di là di ogni parola» ha costruito, unendo dati astrologici, un tocco di autocommiserazione e alcune voci di stampa, uno psicodramma che sfodera in pubblico. E che però contiene un errore: il segno zodiacale non corrisponde al mio.

In seguito Peter avrebbe voluto mettere a posto le cose, e dal momento che è stato lui a dirmelo gli ho creduto. Ma come avrei potuto pensare che le sue intenzioni sarebbero durate solo per l’attimo in cui parlammo insieme?

Peter Habeler è solo una delle vittime dell’idealismo mistificato tipico di molti alpinisti di oggi. La famosa «ragionevolezza» degli alpinisti, infatti, si vende molto bene. Sui palcoscenici di tutto il mondo il vincitore solitario Peter Habeler punta il dito contro lo «one man show di Reinhold Messner». Il silenzio di Kurt Diemberger riempie le colonne di riviste che pubblicano milioni di copie, mentre Toni Hiebeler e Karl Herrligkoffer sono pronti a condannare all’unisono il mio modo di salire gli ottomila. Forse perché non hanno più niente da raccontare?

Per finanziare le nostre avventure vendiamo ai giornali i nostri nomi, le nostre immagini e i nostri resoconti. Abbiamo deciso spontaneamente di far parte di quella dozzina di «prostitute» nell’oceano dell’etica che si definisce alpinismo.

(Mein Weg, Goldmann Taschenbuch 980)

Solitaria sul Nanga Parbat

Al ritorno dalla spedizione sull’Everest, il 30 giugno 1978 scrissi: «Un ottomila in solitaria. Questo è il grandissimo sogno che mi resta, poiché si tratta dell’ultima grande idea alpina. Voglio tentare di salire una delle più alte montagne del globo lungo una nuova via, e in questo tentativo voglio fare a meno non solo della tecnica bensì anche del partner. In questa spedizione tenterò di arrivare a capire fino a che punto l’uomo possa sopportare la solitudine [...] Un ottomila in solitaria significa allo stesso tempo l’ultima e più elevata sfida fra uomo e montagna».

Quando il 12 luglio 1978 mi misi in marcia da Rawalpindi verso la base del Nanga Parbat, mi accompagnavano solo l’ufficiale di collegamento pakistano, il maggiore Mohammed Tahir, detto Terry, e Ursula Grether, studentessa di Medicina all’ultimo anno. Poiché la Karakorum Highway – la strada costruita dai cinesi attraverso la valle dell’Indo – era ancora chiusa agli stranieri, fummo costretti ad avvicinarci al Nanga Parbat dalla valle Kaghan e dal Barbusar Pass. Non si trattava del percorso più agevole, poiché ci obbligava a superare parecchi valichi.

Inizialmente utilizzammo un minibus, poi passammo a una jeep. Alla fine ci dovemmo adattare a qualche cavallo e un cammello per raggiungere Barbusar. Da lì proseguimmo a piedi con alcuni portatori. Di distretto in distretto dovevamo sostituirli. Questo significava che ogni volta ci trovavamo a controllare le loro scarpe, a ridistribuire i carichi e a stabilire il compenso giornaliero. Lungo il percorso mangiammo ciò che riuscivamo a comprare. Inizialmente preferimmo lasciare intatti i viveri che avevamo raccolto in Pakistan – scatolame, zucchero, formaggi e latte in polvere – e che sarebbero stati indispensabili al campo base e per la mia sopravvivenza durante la marcia di avvicinamento. Il 20 luglio, nella valle Diamir, raggiungemmo i quattromila metri – ad almeno un’ora dalla base della parete e non lontano dal Ganalo Peak – nel punto in cui intendevamo allestire il campo base.

Liquidammo i portatori che fecero ritorno ai loro villaggi. Terry, Ursula e io restammo lì, senza più alcun contatto con il mondo esterno. Innanzitutto organizzammo il luogo dove montare due tende, lo circondammo con un muretto di pietre e sotto un masso abbastanza grosso ordinammo i nostri viveri affinché fosse possibile in ogni momento avere a portata di mano le scorte disponibili. Preparammo anche una postazione per il fuoco, che tuttavia all’inizio potemmo utilizzare ben poco a causa della pioggia battente.

Se durante l’avvicinamento dovemmo lottare contro il caldo – spesso e volentieri fummo costretti a cercare rifugio dalla calura del mezzogiorno fra i cespugli e le pietre, mentre i portatori si proteggevano con le coperte di lana! –, al campo base faceva quasi sempre un gran freddo. Durante i primi dieci giorni non abbandonammo quasi mai le tende, poiché non smise quasi mai di piovere e nevicare. Così passammo il tempo leggendo, scrivendo e chiacchierando. Per risparmiare combustibile ci preparavamo la colazione in tenda, mentre il più delle volte rinunciavamo a pranzo e cena. Questo cambiamento di abitudini non ci procurò disagi, al contrario ci sentivamo decisamente bene.

Al termine di questo periodo piuttosto lungo di tempo stabilmente perturbato, una sera apparve l’arcobaleno. Lo interpretai come un segnale positivo, perlomeno si trattava di un’indicazione che il tempo sarebbe migliorato. La decisione era già presa: la mattina successiva intendevo attaccare la parete e tentare la solitaria. La sera stessa mi apprestai a preparare lo zaino: viveri e combustibile per dieci giorni, poi controllai quello che mi era necessario per arrampicare. Quando mi misi a dormire era tutto pronto per la partenza. Ma subito dopo essermi coricato venni assalito da incubi e paure. Mi agitavo nel sonno. All’alba i dubbi sulle mie condizioni fisiche, sulle mie capacità alpinistiche, sull’acclimatazione e su me stesso mi indussero a rinunciare. Rimandai la salita. La cosa peggiore era che non potevo confrontarmi con un partner, che mi avrebbe spronato e motivato. Mi mancava il coraggio per osare un’impresa simile. D’improvviso la montagna mi apparve come una forza superiore. Ero consapevole del fatto che, seppur fisicamente allenato al meglio per la solitaria, non avevo alcuna possibilità – potendo contare solo ed esclusivamente su me stesso – di affrontare i pericoli della zona della morte, perché troppo debole psicologicamente. Nonostante le condizioni atmosferiche in miglioramento, in un primo tempo decisi di non attaccare subito il Nanga Parbat, ma di affrontare una specie di salita di prova sul Ganalo Peak (6608 m).

Allenamento prima del Nanga Parbat.

Allenamento prima del Nanga Parbat.

In questa salita di prova mi feci accompagnare da Ursula, mentre il maggiore Terry restò al campo base. Allestimmo il nostro primo bivacco su una minuscola sella dietro un pilastro di roccia alto come un campanile. Da questo punto la vista era libera sul versante destro del ghiacciaio Diamir, dove avevamo piantato le tende. Da quella quota non sentivamo più i rumori costanti del ghiacciaio. Quasi mi mancava il rumoreggiare notturno del campo base, quando il ghiaccio strideva, le pietre cadevano nei crepacci e l’acqua gorgogliava in profondità. Il giorno successivo salimmo per una fessura ripida, fino al punto in cui il terreno si faceva troppo impegnativo e pericoloso per la mia compagna. Ursula si fermò a seimila metri ad aspettare il mio ritorno dalla vetta. Raggiunto il punto più alto del Ganalo Peak, riuscii ad avere una visuale perfetta del tratto inferiore della parete Diamir. Potevo individuare ogni singolo crepaccio sul ghiacciaio pensile. Mi fu così possibile stabilire in dettaglio la via di salita.

Rientrato al campo base, capii di aver riacquistato il senso dell’equilibrio. Avevo dimostrato a me stesso di avere ancora forze sufficienti per affrontare da solo una simile impresa. La salita agli oltre seimila metri del Ganalo Peak mi aveva permesso di acclimatarmi meglio, e mi aveva infuso nuovo coraggio. Mi sentivo forte e avevo voglia di fare. L’avventura della solitaria su un ottomila poteva avere inizio. Si sarebbe aperto un nuovo capitolo nella storia dell’alpinismo.

Il 6 agosto, poco dopo mezzogiorno, mi misi in cammino insieme a Ursula. Arrivammo senza problemi fino alla base della parete, dove allestimmo un bivacco nel punto in cui si incontrano il ghiacciaio Diama e il Diamir. Da lì il giorno successivo attaccai la parete, mentre Ursula faceva ritorno al campo base. Nella giornata del 7 agosto riuscii a superare un dislivello di 1600 metri, attraverso i ghiacciai e i seracchi che caratterizzano l’angolo ottuso fra la parete Diamir e la parete Mazeno. Piantai la mia tenda da bivacco sotto una meringa di ghiaccio. Avevo scelto quella posizione perché sotto una sporgenza mi sentivo al sicuro dalle slavine, pur sapendo che la parete Diamir, spaventosamente crepacciata, avrebbe senz’altro potuto riservarmi qualche sorpresa.

Durante la salita avevo probabilmente esagerato: 1600 metri di dislivello in cinque ore con uno zaino da quindici chili non erano certo una bazzecola! Per riprendermi dovetti bere moltissimo. Perciò mi preparai una gran quantità di tè e minestra. Passate così sei ore a riposarmi e a ingerire liquidi, a un certo punto fui colto da una strana sensazione. Mi sentivo leggero come una piuma, mi pareva di ondeggiare nell’aria.

Poi parlai con qualcuno, non solo con me stesso. Ero convinto di parlare con individui che mi pareva di vedere con la coda dell’occhio. No, non si trattava affatto di allucinazioni. Mi intrattenevo con questa gente. Razionalmente ero il primo a non dare credito a questi accompagnatori, ma se non pensavo a niente, eccoli riapparire. Intanto continuavo a ripetermi: «Ma com’è possibile che qualcuno parli con me? Sono solo».

Quando la mattina successiva mi svegliai alle cinque, il mio altimetro segnava cinquanta metri più della sera precedente. Cos’era successo? La montagna, ovviamente, non si era alzata, ma la pressione era calata, e questo non era certo un buon segnale. Con una certa inquietudine mi apprestai nuovamente al faticoso lavoro della preparazione del tè. Sciolsi nel pentolino la neve ghiacciata e lasciai le bustine immerse a lungo nell’acqua. Mentre ero preso dalle operazioni per la colazione, all’improvviso udii un rombo spaventoso, come di una cascata in lontananza. Balzai fuori dalla tenda e con orrore mi resi conto che sotto di me metà della parete di ghiaccio era precipitata. Tutto era in movimento: slavine di ghiaccio si schiantavano a valle come torrenti impetuosi, sotto di me un’enorme massa stava rotolando come un’onda alluvionale verso la base della montagna. Subito pensai a cosa sarebbe potuto succedere a Ursula e a me, se solo ci fossimo messi in marcia ventiquattr’ore più tardi. Il bivacco del giorno precedente era stato spazzato via da masse di ghiaccio e detriti. Saremmo rimasti sepolti sotto quelle montagne per sempre. Benché sentissi il mio ritmo cardiaco accelerato, non mi feci prendere dal panico. Riflettei con calma, giungendo alla conclusione che dovevo trovare un’altra via di discesa.

Smontai la tenda, infilai ogni cosa nello zaino, viveri compresi. In origine avevo programmato di lasciare lì il cibo che avrei utilizzato durante la discesa; ma, dal momento che a quel punto l’operazione non era più possibile, ero costretto a portarmi tutto anche in salita, poiché dovevo mettere in conto l’eventualità di scendere dal versante sud. Con passo deciso iniziai la mia seconda giornata di arrampicata. In un primo momento arrampicai obliquamente verso sinistra, avvicinandomi a un seracco molto frastagliato, dove avevo notato un punto dal quale speravo di progredire. Superato quel tratto mi trovai nella zona sommitale, più pianeggiante, temporaneamente al sicuro. Mi preoccupavano le condizioni atmosferiche: sul Nanga Parbat una nuvola splendeva nei colori bellissimi dell’arcobaleno. L’esperienza mi insegnava che poteva significare neve.

Credo fossero le nove o le dieci quando arrivai nella zona illuminata dal sole. Nel giro di poco il caldo divenne insopportabile. Avevo ormai superato il limite dei settemila metri e mi stavo avvicinando alla zona sommitale, di forma trapezoidale, ai piedi della quale mi auguravo di trovare un punto adatto per un bivacco. Mentre sprofondavo nella neve, a tratti fino ai fianchi, mi avvicinavo centimetro dopo centimetro alle rocce. Fatti cinque passi dovevo per forza inserire una pausa di recupero piuttosto lunga. Alla luce del sole, che la neve rifletteva abbagliandomi, non era facile individuare un posto adatto. Forse ero anche solo troppo stanco per riuscire a riconoscere qualcosa! Il caldo esagerato e il peso dello zaino mi creavano parecchie difficoltà. Maledizione, possibile che non ci fosse neanche una piccola roccia sporgente sotto la quale allestire un bivacco? Avrei voluto non essere così solo! Mi mancava un partner che mi avrebbe sicuramente aiutato. Mi mancava un partner che mi avrebbe incoraggiato, mi avrebbe dato il suggerimento giusto, mi avrebbe sostituito nel battere la traccia! Invece dovevo fare tutto da solo, da solo dovevo cercare di avanzare in mezzo a quella neve polverosa, nessuno poteva occuparsi del bivacco al posto mio.

Dopo quella che mi parve un’eternità, trovai fra due crepacci un punto più o meno adatto. Ero sfinito. Privo di forze mi lasciai cadere nella neve. Non ero più nelle condizioni di montare la tenda. Ci volle moltissimo tempo perché mi sentissi riposato e avessi recuperato le forze per prepararmi per la notte. Forse riuscii nel mio intento solo perché sapevo che lì nessuno sarebbe potuto venire ad aiutarmi. Se fossi rimasto sdraiato lì sarei morto. Chissà se giù al campo base avevano già cominciato a preoccuparsi? Forse pensavano che fossi stato travolto dal ghiaccio? Nemmeno il bel tempo riusciva a migliorare il mio umore depresso.

Quando la mattina del 9 agosto mi affacciai dalla tenda, provai un senso di freschezza. L’aria fredda mi svegliò completamente. Capii di aver superato la crisi. Ma a quel punto erano altre le preoccupazioni che mi affliggevano. Il tempo avrebbe tenuto? Sotto di me si stavano addensando nuvole scure. Era uno spettacolo affascinante, come se da quel ribollire si stesse formando un nuovo mondo. Ero talmente preso da quella vista che non considerai il pericolo che il cattivo tempo imminente avrebbe comportato. Mi riaddormentai e non prima delle sette uscii dalla tenda. Il clima era cupo, solo la vetta restava libera. Sapevo che se la neve che mi separava dalla vetta fosse stata dura, avrei potuto raggiungerla in due, massimo tre ore. Purtroppo la neve che di lì a un attimo mi trovai a traversare non teneva affatto, infida come le sabbie mobili. Alle dieci, dopo tre ore di fatica e sfinimento, mi resi conto che in quel modo non avrei mai raggiunto il mio obiettivo. Capii anche che non sarei riuscito a ridiscendere se mi fossi stancato ulteriormente.

Ero sul punto di salutare la vetta e tornare indietro. Poi però il mio sguardo cadde su una ripida barriera di roccia che mi avrebbe permesso di raggiungerla in linea retta. Non restava che quell’ultimo tentativo! Se avessi verificato che le rocce erano buone e che la neve non presentava rischi eccessivi di slavine, avrei avuto una, seppur piccola, concreta possibilità.

Progredii con fatica sul trapezio sommitale. Cercavo tratti di roccia che mi consentissero di avanzare più facilmente, costringendomi a superare gradini di neve e canali impegnativi. Nei momenti di recupero mi sedevo e osservavo il panorama a occidente, tratti di campagna che spuntavano dalle nebbie. Riuscii ad avanzare senza contrattempi. Dove i crepacci più stretti erano pieni di neve crostosa dovevo fare attenzione a non perdere la presa. Non utilizzavo chiodi per la protezione, non avevo paura di volare. Il mio unico timore era di non avere forza sufficiente per superare i tratti difficili. Oltre un risalto di circa ottanta metri raggiunsi dei piccoli nevai che in qualche modo superai. La tensione era quasi insopportabile. Preferivo i passaggi ripidi su roccia ai tratti più pianeggianti di neve, dato che questi, pur non richiedendo particolari abilità, erano estremamente faticosi.

Mai sono stato così solo come sulla vetta del Nanga Parbat (1978).

Mai sono stato così solo come sulla vetta del Nanga Parbat (1978).

Riuscivo a progredire solo molto lentamente. A tratti provavo la sensazione che non sarei più riuscito a muovermi. Fatti pochi passi ero costretto ad accucciarmi nella neve e riposarmi per un tempo lunghissimo. Solo dopo aver recuperato un poco guardavo verso l’alto. La vetta aveva un aspetto invitante. Ma persino sugli ultimi metri ebbi ancora la sensazione che qualcosa me lo avrebbe impedito. A ogni passo era come se dovessi spostare intere montagne dentro di me, per riuscire a trascinarmi avanti. Intorno alle quattro del pomeriggio l’impresa si concluse, ero su! Il panorama intorno era mozzafiato: sotto di me la sella d’Argento, sulla destra la valle Rupal. I miei pensieri tornarono a otto anni prima, quando – più o meno alla stessa ora del giorno – mi trovavo lì. Con mio fratello Günther, che durante la discesa era stato travolto da una slavina. Questa volta avevo portato a termine la prima solitaria su un ottomila, la prima nella storia dell’alpinismo!

Rimasi seduto, tranquillo e rilassato, inseguendo i miei pensieri. Non so perché in quella circostanza non provai sentimenti intensi, non so perché le sensazioni non mi travolsero, com’era successo sull’Everest. Mi sentivo tranquillo come mai prima su un ottomila.

Un’ora più tardi – avevo scattato moltissime foto, anche con l’autoscatto – cominciai a scendere. Optai per la via lungo la cresta sud e la conca occidentale. Le ombre ormai si allungavano, mentre io, passo dopo passo, quasi mi lasciavo cadere a valle. Ero distrutto! Dovetti impiegare le mie ultime forze per riuscire a sollevare i piedi dalla traccia profonda nella neve. Quando mi resi conto che la rampa lungo la quale procedevo faticosamente si perdeva in una ripida parete di roccia, capii anche che ormai era troppo tardi. Ero troppo stanco per tornare indietro. Non era nemmeno il caso di pensare a una discesa diretta, fra me e la conca occidentale c’erano enormi gradini verticali. Fidandomi del mio istinto cercai una nuova via fra i crepacci e alcuni nevai. Non so come, ma raggiunsi sano e salvo il bivacco.

Esausto mi lasciai cadere. Ormai non mi importava più di nulla. Nemmeno il fronte di nuvole scure che avanzava da occidente riusciva a spaventarmi. Il sole scomparve prima del consueto dietro alle nubi. Sarei mai arrivato giù? Nella notte mi accorsi che la nebbia aveva avvolto la mia tenda. Era calato uno strano silenzio, come se fossi sott’acqua. Tuttavia percepivo con chiarezza che si trattava della quiete prima della tempesta!

Quando il mattino dopo sbucai dalla tenda non vedevo nulla. L’oscurità non permetteva di capire se nevicasse o meno. Tutto era avvolto dalle nubi. Verso le sei lasciai la tenda. Il vento soffiava con forza. La lancetta dell’altimetro era salita di ventisette tacche. La visibilità era inferiore a un metro, in alto come in basso. Impossibile scendere! Potevo solo aspettare. Dovevo pensare a sopravvivere!

Avevo ancora cibo per cinque giorni, ma sapevo che, quando sul Nanga Parbat il tempo cambia, la fase negativa può durare anche dieci giorni. Dovevo quindi razionare gas e viveri. Il mio istinto di sopravvivenza era ancora ben vigile: non volevo morire!

Non avevo immaginato che il maltempo potesse arrivare senza nessun preavviso. Quanto avrei dovuto resistere? Certo, conoscevo bene la parete Diamir, ma nella nebbia non sarei stato in grado di muovermi in sicurezza. Sarei certamente caduto in una trappola!

La tempesta di neve durò trentasei ore, durante le quali dovetti resistere a 7400 metri d’altezza. Solo l’11 agosto si presentò la prima possibilità di discesa. Lasciai praticamente tutto al bivacco, gettai l’attrezzatura in un crepaccio e all’alba, poco dopo le cinque, abbandonai l’ultimo posto sicuro. Dovevo raggiungere il campo base in una giornata, non sarei mai sopravvissuto a un bivacco senza tenda e senza sacco. Perciò dovevo scendere tremila metri di dislivello, superando cascate di ghiaccio, passaggi di roccia e pendii ghiacciati ripidissimi! Solo molto al di sotto del grande seracco la prima luce del sole mi colpì, obliquamente, dall’alto. Dopo un po’ la superficie del ghiaccio cominciò a mollare, cosicché i ramponi prendevano bene. Ogni fibra del mio corpo era tesa allo spasimo. Con la faccia rivolta alla parete e la piccozza nella destra, nella massima concentrazione e lavorando sulle punte frontali dei ramponi, scesi altri mille metri di dislivello fino a un canale di ghiaccio il quale formava una specie di pista che avrebbe favorito l’allontanamento dalla base della parete.

Più avanzavo verso il basso e più rallentavo, benché la parete non fosse più così ripida. A tratti riuscii perfino a rimanere girato a valle. Lì il ghiaccio era così duro che non riuscivo più ad ammortizzare come in alto. Andai avanti per un’ora buona, senza rendermi conto di dove fossi e di dove andassi. Quando mi trovai nei pressi del primo bivacco, intuii che ero salvo.

Sulla morena mi venne incontro Ursula e, appena prima del campo base, il maggiore Terry, che mi sistemò sul collo una ghirlanda di fiori. Un vecchio, che durante l’avvicinamento aveva espresso la profezia che mai un uomo avrebbe salito il Nanga Parbat da solo, mi regalò un mazzo di fiori. Mi sdraiai nella tenda e Ursula mi attaccò una flebo: durante la discesa mi ero congelato il pollice destro e avevo bisogno di vasodilatatori. Nonostante la disidratazione, le labbra tagliate e i dolori lancinanti al dito, nei giorni e nelle notti successive non feci che dormire. Tre giorni dopo lasciammo il campo base e con alcuni portatori ci apprestammo a rientrare. Avevamo bruciato i nostri rifiuti e sepolto le lattine vuote. Non lasciammo nulla: regalammo o scambiammo con generi alimentari quello che non ci serviva più, pentolame e materassini. Lasciammo il luogo dove avevamo allestito il campo base così come l’avevamo trovato.

Con questa solitaria avevo realizzato il mio ultimo sogno alpinistico. Dopo questa impresa su un ottomila, la prima nella storia dell’alpinismo, una sola montagna meritava altrettanto ardire, l’Everest. Nei miei sogni cominciò subito a prendere forma questa ambizione. Ma prima intendevo affrontare quella che probabilmente è la montagna più difficile dell’Himalaya, di sicuro la più bella, il K2. Pur essendo la seconda vetta per altezza, in compenso è la più ripida, molto più selvaggia dell’Everest.

SPEDIZIONE VERSO LE ORIGINI

Signor Messner, qual è lo stimolo più forte per lei?

Perché lo faccio? Non lo so neppure io. Penso che se capissi fino in fondo il perché, non lo farei più.

Di sicuro non si tratta semplicemente di vivere l’esperienza della natura. Forse vuole individuare il limite della propria sopportazione?

È una spiegazione possibile. C’è la natura, ci sono le montagne. Ma divertirsi in questo contesto o vivere la natura – sono spiegazioni superficiali, insufficienti. Spesso mi sono domandato se non si tratti di una dipendenza, nel senso negativo del termine. Ma anche questa è una spiegazione superficiale. Penso anzi che l’uomo non possa trovare risposta alla domanda sul perché. Per me non c’è molta differenza fra le due domande: perché vivi? perché sali sulle montagne?

Ci serve forse per ampliare i nostri limiti?

Scandagliare i propri limiti, le proprie forze, superare le proprie paure e i propri dubbi: questa naturalmente è una risposta che va più in profondità del semplice divertimento nell’andare in montagna. Ma perché scandagliare i propri pensieri? Probabilmente per nascere veramente.

Per trovare se stesso?

Ritengo che ogni uomo, nel corso della propria vita, cerchi di nascere, voglio dire di riconoscersi totalmente, di illuminarsi. In questo senso l’alpinismo per me è il mezzo per sperimentarlo, poiché mi ha permesso di vivere le emozioni più intense, le più belle e le più terribili, quindi i momenti più significativi.

C’è quindi una componente religiosa. Lei crede in Dio?

Se un Dio esiste, allora ogni singolo è Dio, vale a dire che allora anch’io sono Dio. Non vedo un Dio al di fuori del mondo, la cosa non mi riguarda. Per me tutta la Terra è divina. Io non credo affatto che l’uomo abbia bisogno di un Dio. L’ha inventato, molti non se la caverebbero senza lui. Io credo di potercela fare senza Dio.

È naturale che la gente comune interpreti facilmente questa forza dell’io come egoismo, oppure monomania.

Sì, e alla gente comune prima o poi bisogna dire che ognuno di noi è un egoista. Sono convinto che non esista un uomo che non sia egoista. L’uomo ha il diritto di vivere il proprio egoismo fino a quando non interferisce con quello di qualcun altro.

Ha conservato solo ammiratori oppure anche amici?

Anche amici. Ma naturalmente la mia posizione pubblica e l’interesse che suscito mi portano non solo vantaggi, ma anche molti svantaggi. Molti semplicemente mi sfruttano, me ne rendo conto perfettamente.

Se arrivasse la famosa fata delle favole e le offrisse la possibilità di esprimere tre desideri, lei cosa si augurerebbe?

Probabilmente niente. Non cambierei la mia vita con nessun altro. So che non si può avere nulla che non si sia vissuto e sofferto in prima persona. Ciò che ottengo gratis non mi serve; non mi offre alcuna possibilità di conoscenza, non mi arricchisce. Voglio scrivere libri d’avventura che nessuno ha mai scritto. Ho questa ambizione. Ma non vorrei mai che qualcuno scrivesse un libro su di me. Perché non vivrei l’esperienza della scrittura e non ne ricaverei niente.

Lei si ritiene una persona normale o un eccentrico?

Non mi ritengo proprio niente. Sono valutazioni che mi vengono imposte dall’esterno. Più si scrive su di me e meno la gente ne sa di me. Questo è il modo per avvolgermi in un velo. Concretamente nessuno sa niente di me.

La rattrista il fatto che non esiste un diecimila?

Non mi disturba, è la realtà.

Si è mai rimproverato qualcosa?

Direi di no.

Però le sue spedizioni sono costate delle vittime.

Sì, potrei citarle due casi. Mio fratello è stato ucciso da una slavina sul Nanga Parbat. Per molto tempo non riuscivo neppure a crederci. Eppure era la realtà. Ho impiegato anni per superare questa tragedia, perché potessi assimilare il ricordo, armonizzarlo nella mia vita. Oggi non provo più dolore. Non ho rimpianti. Non si può tornare indietro. Non posso vivere dicendo: se l’avessi saputo non sarei andato al Nanga Parbat. Non serve a niente. Se invece sapessi a priori che se andassi sul K2 perderei un compagno, allora rinuncerei. In futuro cercherò, grazie all’esperienza che ho accumulato, di evitare qualunque rischio. Affronto le situazioni molto pericolose unicamente da solo. Non posso garantire niente a nessuno. Accetto solo la responsabilità per me stesso. Voglio mantenere il controllo anche nelle situazioni più complesse e rischiose.

Non è forse un pensiero un po’ ibrido il suo? Non posso sostenere che lei intenda mettere alla prova Dio, dato che ha appena chiarito il suo punto di vista, ma questo non significa piuttosto mettere alla prova se stesso, o la vita stessa?

La vita, questo è giusto. È questo che faccio ininterrottamente. Se arriva una slavina o una tempesta di neve che dura tre giorni, non ho più alcuna possibilità. Sono dell’opinione che la morte è parte integrante della vita. Non importa quando morirò. Provo una paura molto sana. Non sono affatto attratto dalla morte. Se lo fossi, già da tempo non sarei più in vita. Ma la paura, l’istinto di sopravvivenza sono così radicati in me che finora sono sempre riuscito a trovare la via di discesa, anche nelle situazioni peggiori. Ma è proprio in questi momenti al limite fra la vita e la morte, con la sensazione di essere in bilico fra il mondo civilizzato e la natura selvaggia e minacciosa, che raggiungo le verità più profonde.

(Deutsche Zeitung, settembre 1979)

La sfida del K2

Quando nel 1972, durante la mia spedizione all’Hidden Peak, mi ritrovai per la prima volta sotto il K2, una certezza si fece strada nei miei pensieri: un giorno o l’altro sarei salito sulla vetta di questa montagna, la seconda della Terra! Mi affascinava la struttura – una volta Günther Oskar Dyhrenfurth ha definito il K2 «l’espressione più geniale che le forze generatrici delle montagne hanno trovato su questa Terra» –, e mi stimolavano i problemi che restavano ancora irrisolti sulle ripide pareti di questa piramide incredibile. Avevo individuato come nuova via quella lungo il pilastro sud, la «Magic Line» che conduceva alla vetta di 8611 metri. Dopo aver organizzato la spedizione, nel maggio del 1979 partimmo in otto dall’Europa: Friedl Mutschlechner, Michl Dacher, Alessandro Gogna, Joachim Hoelzgen, Robert Schauer, Renato Casarotto e Ursula Grether, che si sarebbe occupata degli aspetti medici.

Il 13 maggio atterrammo a Rawalpindi, dove nei giorni successivi sbrigammo le questioni burocratiche. Per me e Ursula fu una gioia particolare apprendere che il nostro ufficiale di accompagnamento sarebbe stato, come l’anno precedente durante la spedizione sul Nanga Parbat, il maggiore Mohammed Tahir, detto Terry. L’avvicinamento sarebbe stato lo stesso dell’Hidden Peak: volo a Skardu, trasferimento in auto ad Askole, poi la risalita lungo il Braldo, il ghiacciaio Baltoro fino al Circo Concordia, dove confluiscono il ghiacciaio Abruzzi e il ghiacciaio Godwin-Austen.

Il 16 maggio Robert Schauer e Alessandro Gogna partirono in avanscoperta alla volta di Skardu, mentre noi dovemmo aspettare fino al 27 maggio il primo volo che ci consentisse di trasportare tutto il carico. Come nel 1975, quando ero rimasto a Rawalpindi insieme a Peter Habeler, quelle snervanti giornate d’attesa si trasformarono in una vera e propria tortura. Il giorno dopo il nostro arrivo a Skardu fu possibile partire alla volta di Dassu. Il 31 maggio raggiungemmo Askole.

Il 1º giugno 1979 si verificò un vero disastro per la spedizione: a più di un’ora da Askole Ursula Grether si infortunò seriamente a una caviglia e dovette rientrare ad Askole. Friedl Mutschlechner e io ci occupammo del trasporto. La squadra perse così l’assistenza medica: un problema non da poco.

Dopo aver caricato Ursula in elicottero, il 4 giugno con una marcia forzata recuperammo gli altri che avevano già raggiunto il Baltoro. In realtà saremmo voluti arrivare fin sotto il fianco occidentale del K2, fra il ghiacciaio Savoia e il versante sud dell’Angelus, ma il 9 giugno la caduta mortale di un portatore in un crepaccio ci costrinse ad allestire il campo base nel punto «classico» italiano sul ghiacciaio Godwin-Austen.

Il 22 giugno iniziammo ad attrezzare la via di salita. Partii dal campo base con Michl Dacher. In un primo tempo camminammo sul ghiacciaio pianeggiante, compiendo un ampio arco sulla destra fino all’attacco, poi optammo per un pendio di neve sulla destra accanto alla cresta Abruzzi. Nessuno dei due avrebbe saputo dire perché scegliemmo quella via e non la normale. Non ne parlammo mai neanche in seguito. Doveva essere la «nostra» via, quella che avremmo scelto ogni volta che fossimo risaliti, per trovare il luogo adatto a un bivacco oppure per mettere le protezioni. Allestimmo il campo I avanzato a quota 6100 metri. Alessandro Gogna e Renato Casarotto ci seguirono il giorno stesso e piantarono una seconda tenda. Il giorno successivo, attraverso il «camino House» arrivammo a 6700 metri, e lì allestimmo il campo II, accanto ai resti lasciati da altre spedizioni. La seconda cordata seguì portando tende, corde e apparecchi radio. Mettemmo le corde e predisponemmo il necessario per una possibile salita. Per alcuni giorni, una serie di bufere fortissime rese impossibile un ulteriore avanzamento. Solo il 4 luglio riuscii a progredire fino a 7300 metri insieme a Michl, lungo una via preparata da Alessandro. Dovemmo però rientrare senza aver concluso niente, perché la corda non era sufficiente. Mentre noi due ci riposavamo al campo base, il 6 luglio Robert Schauer e Friedl Mutschlechner allestirono il campo III a 7350 metri, e furono costretti a ridiscendere al campo II. Ricevuta la notizia che il campo III era stato allestito, io e Michl prendemmo la decisione di tentare la vetta. Dopo due settimane snervanti di preparazione intendevamo finalmente acchiappare il diavolo per le corna. In effetti non avevamo mai discusso in modo approfondito del fatto di costituire una cordata. Non avevamo stabilito nulla a priori, la situazione si era delineata nel corso della spedizione. Vigeva un tacito accordo sul fatto che avremmo tentato insieme l’attacco alla vetta.

Forse mi sentivo particolarmente in sintonia con Michl, perché al di là della calma e della fermezza avevo imparato a stimarne l’ambizione e la voglia di agire. La mattina dell’8 luglio, alle quattro, partimmo dal campo base. In giornata raggiungemmo il primo, il giorno successivo il secondo e quello dopo ancora il terzo campo avanzato. Alla sera del terzo giorno di arrampicata le avvisaglie del maltempo si fecero più evidenti. Nella notte una bufera si scatenò sopra le nostre teste e minacciò di ridurre la tenda a brandelli. Nonostante l’ululare della bufera, alla fine mi addormentai. Quando mi risvegliai da un sonno profondo era già chiaro e – miracolo! – il cielo era limpido, le nuvole erano sparite. Senza perdere troppo tempo dovevamo andare avanti. Dovevamo superare un pendio nevoso sopra di noi. Passo dopo passo ci spingemmo fino al limite della cresta fra versante sud ed est. A tratti sprofondavamo fino ai fianchi, progredivamo nella neve come piccole talpe. Giunti alla spalla ci fermammo a lungo per recuperare.

La piramide sommitale del K2.

La piramide sommitale del K2.

Benché fosse molto faticoso, non potevamo fermarci. Ogni passo era una tortura. Gli arti pesavano come piombo, una stanchezza opprimente cominciò a pesarmi sulle spalle, penetrando lentamente dentro di me. Avvicinandoci agli ottomila metri – le pause per prendere fiato si facevano sempre più lunghe –, decidemmo di fare un bivacco in un tratto pianeggiante fra la spalla e il «collo di bottiglia». Non era certo il posto ideale, in assenza di qualunque tratto protetto, ma non avevamo la forza e il coraggio di andare avanti. Non conoscevamo le condizioni della neve più in alto. Ciò nonostante Michl si manteneva ottimista: il giorno successivo avremmo potuto affrontare la salita alla vetta. Ma rimaneva una notte da trascorrere nella zona della morte! Ero afflitto da dubbi e ripensamenti, perché conoscevo bene la tortura dell’ultimo tratto prima della vetta di ogni ottomila. Si fece buio, e una gelida paura cominciò a farsi strada dentro di me. Istintivamente obbligai Michl e me stesso a bere. Sapevo che, se volevamo sopravvivere, dovevamo immagazzinare quanto più liquido possibile.

Dopo alcune ore inquiete, verso le sette di mattina ci mettemmo in moto. Zigzagando procedemmo verso l’alto, in direzione del «collo di bottiglia», sprofondando nella neve alta. Progredivo come un automa, come se la salita fosse una questione vitale. Sopra il «collo di bottiglia» cominciai a traversare sulla sinistra. Nel punto d’incontro fra roccia e ghiaccio strapiombante immaginavo il punto più debole. Ma il ghiaccio lì era fragile, saltava in mille schegge a ogni colpo di piccozza. Poiché ero troppo sfinito per scavare le prese, tornai indietro.

Nel frattempo Michl aveva tentato di avanzare sulla roccia, sulla sinistra. Anche in quel punto la neve era altissima. Ci alternammo nel battere la traccia, sprofondando entrambi fino alla vita. Benché temessimo di non riuscire a raggiungere la vetta, continuammo a lottare nella neve, in silenzio. La traccia era perfetta, ma si trattava di un lavoro non privo di pericoli, perché alcuni tratti erano tremendamente ripidi e più in basso la parete precipitava verticale. Sapevo che, se uno dei due fosse scivolato, non avremmo avuto alcuna possibilità. I tratti che separavano una pausa dall’altra si fecero sempre più brevi. Eppure nessuno dei due intendeva gettare la spugna, benché non nutrissimo alcuna speranza di farcela. D’un tratto, quasi senza rendercene conto, ci trovammo su! All’inizio non ci sembrò vero, avevamo veramente raggiunto la vetta, il luogo – come ho detto una volta – dove tutti i nodi si sciolgono.

Alle sedici e quaranta comunicai via radio al campo base: «Vetta raggiunta... va tutto bene... niente allucinazioni, nessun eccesso. Solo la grande felicità per il fatto meraviglioso che non dobbiamo salire più in alto di così!»

Durante la discesa calò il buio. Con le facce incrostate di ghiaccio procedevamo verso il basso. Michl pareva strafelice, era allegro, sereno. Mentre tenevo d’occhio eventuali crepacci e procedendo con estrema cautela, passo dopo passo, mi pareva di non appartenere più a questo mondo. In sole due ore, al limite delle nostre possibilità, raggiungemmo il bivacco. Eravamo troppo stanchi per prepararci qualcosa da mangiare, e come animali rassegnati a morire ci infilammo nella tenda. Nel corso della notte sobbalzai. D’improvviso mi resi conto che dovevamo assolutamente bere, o rischiavamo di rimanere lì per sempre. Con uno sforzo estremo riuscimmo a prepararci due tazze di tè.

Il tempo era peggiorato, a occidente si sollevavano dalla cresta banchi di nebbia e polvere di neve che lambivano la nostra tenda. Dovevamo rimetterci in marcia! Già dopo pochi passi il vento cominciò a soffiarci in faccia i fiocchi. Perdemmo del tutto l’orientamento. Passando un blocco di neve dopo l’altro arrancavamo verso il basso. Dietro la spalla sud i banchi di nebbia si fecero più densi. Cercammo rifugio sotto un seracco enorme, per riprenderci un istante. Poi ripartimmo, in quel nulla lattiginoso e soffocante.

Giù al campo base mi sorpresi a domandarmi che senso aveva avuto quella scalata. Se avessimo perso l’orientamento saremmo morti lassù. Sapevo solo che, se qualcuno mi avesse proposto un’altra impresa simile, avrei senza dubbio accettato. Già allora immaginavo ciò che oggi so con certezza: finché vivrò, questo tormento non mi darà pace.

Il massimo: da solo sull’Everest

Dopo le mie ascensioni del 1978, giudicate sensazionali dall’opinione pubblica – l’Everest per la prima volta senza ossigeno, e la prima solitaria su un ottomila, il Nanga Parbat – e dopo aver vinto la sfida del K2, non avevo assolutamente in programma un’altra impresa eclatante. Non avevo nessuna intenzione di superare me stesso. Non seppi però resistere quando nel 1980 ottenni il permesso di salita per l’Everest da nord, dal territorio cinese, aprendomi la possibilità di conoscere il Tibet, il paese che fin da bambino avevo immaginato di visitare nei miei viaggi con la fantasia dopo aver letto i libri di Heinrich Harrer e Sven Hedin. Subito mi entusiasmai all’idea. Mi si spalancavano prospettive inaspettate: avrei vissuto la montagna più alta della Terra da un versante del tutto nuovo, a me completamente sconosciuto, una montagna e un mondo assolutamente diversi, una storia e una cultura che conoscevo e che tuttavia rimanevano estranee!

L’Everest sopra il Nuptse.

L’Everest sopra il Nuptse.

Nel giugno del 1980 affrontai quindi il viaggio, accompagnato da Nena Holguin, la mia compagna, che si sarebbe occupata delle eventuali problematiche di natura medica. Dopo aver fatto scalo a Pechino e Chengdu, nella provincia cinese del Sezuan, volammo in Tibet, dove atterrammo in un campo nella valle dello Tsangpo, a due ore d’auto dalla capitale Lhasa. Pieni di aspettative su come ci si sarebbe presentata la città santa, un tempo proibita, salimmo su una jeep. Avvicinandoci a Lhasa già da lontano vedemmo brillare i tetti dorati del Potala, la residenza del re divino, il Dalai Lama.

Trovammo intonsi i palazzi giganteschi che formano il Potala – per me uno dei monumenti più belli della cultura asiatica. C’erano ancora quasi tutti i Buddha e i Bodhisattva, ma là dove un tempo migliaia di lama e monaci avevano trovato ospitalità, ora c’erano solo silenzio e desolazione. L’enorme fortezza sembrava morta. C’erano alcune lampade a burro accese, giungeva l’eco di preghiere mormorate, ma i pochi monaci sembravano comparse folcloristiche, messe lì per i turisti. C’erano invece numerosi soldati che parevano fare la guardia ai Dalai Lama sepolti nei chorten riccamente decorati. Provai tristezza quando lasciammo il Potala per scendere tra le case pittoresche della città vecchia e, dall’altro lato, ci trovammo di fronte le catapecchie, i casermoni e le fabbriche. Le attività fervevano frenetiche, la puzza di trattori e camion era insopportabile.

Dappertutto erano visibili gli emblemi dei nuovi potenti: immagini e busti di Mao, Stalin, Lenin, Marx ed Engels. Ragazzi e ragazze indossavano berretti con la stella rossa e ritratti di Mao. Tuttavia riuscimmo a scovare anche qualcosa del vecchio Tibet: all’ingresso di alcuni templi c’era il simbolo lamaistico della purezza; sul Parkhor, la cerchia interna di strade che circonda il tempio Jokhang – il luogo più sacro del paese – incontrammo fedeli che obbedivano all’antico rito della preghiera gettandosi nella polvere, per poi rialzarsi e buttarsi nuovamente a terra. Qualcuno ci raccontò che molti credenti percorrono in questo modo il Parkhor. Pare che anticamente i pellegrini si avvicinassero così alla città santa, protraendo questo rito per centinaia di chilometri.

SOGNARE IL SOGNO FINO ALLA FINE

Reinhold Messner, due anni fa, dopo la salita dell’Everest senza ossigeno, lei ha dichiarato: «È successo qualcosa di definitivo». Ora però sta per tornare sulla stessa montagna.

L’Everest senza maschera è stato un sogno, e nel momento in cui l’ho realizzato, ho capito di averlo «infranto» con le mie stesse mani. L’Everest in solitaria dal Tibet ripropone un’illusione del tutto nuova. Ho la sensazione di salire su una montagna completamente sconosciuta. L’affronto da un altro versante, da un altro paese, da un altro mondo culturale.

Nel suo libro Grenzbereich Todeszone si parla molto di «conoscenza della vita, alla quale si perviene attraverso la propria morte». Per lei esistono anche motivazioni diverse che giustifichino il fatto di salire una montagna?

Sì, certo. In parole povere, vado in Himalaya innanzitutto perché mi diverto ad andare in giro, stare al sole, arrampicare. Mi piace l’idea di non pormi altri problemi per cinque mesi, se non quello delle previsioni meteo per il giorno dopo. Ma non sarei in grado di dire quale sia la motivazione più rilevante, l’esperienza di situazioni al limite oppure semplicemente il gioco, il divertimento. Certo si deve tenere conto che il gioco spesso si combina con la paura e la sofferenza. L’alpinismo himalayano è un vero sfinimento.

Lo sfinimento appare evidente nel suo progetto attuale di salire l’Everest da solo, senza ossigeno e nella stagione dei monsoni. Dove sta in tutto ciò il divertimento, il gioco?

Nel 1978, dopo la solitaria sul Nanga Parbat, ho immaginato che anche l’Everest fosse fattibile in quel modo. A questo si aggiunga che da sempre ho desiderato tentare un ottomila nella stagione non indicata. Durante lo scorso autunno sono venuto a sapere che Naomi Uemura, il più forte fra gli alpinisti giapponesi, che ha realizzato la salita delle cinque montagne più alte dei cinque continenti, si stava interessando a un’invernale sull’Everest. In seguito a ciò mi sono dato da fare in Cina per ottenere il permesso per una salita durante la stagione monsonica, perché sono convinto che non sia l’inverno, bensì appunto la stagione dei monsoni, il periodo più difficile.

Quindi un duello Messner contro Uemura.

No, nessun duello, casomai una gara. Non stiamo combattendo uno contro l’altro. Le mie chance di salita sono molto limitate, le sue, se veramente andrà da solo, lo sono altrettanto. Perciò potremmo portare avanti questo «gioco», divertendoci magari per cinque anni, e se lui riuscirà a salire prima di me, sarei io il primo a riconoscere il suo successo.

(Profil, 1980, 23)

 

 

Il 27 giugno io e Nena lasciammo la capitale Lhasa, insieme all’ufficiale di accompagnamento Cheng e a un interprete. Partimmo a bordo di una jeep, seguiti da un camion militare, superando vari passi e puntando direttamente al versante nord dell’Himalaya. Ero sopraffatto dalla maestosità, grandezza e imponenza delle montagne davanti a me. Il mio sguardo passava dal Makalu oltre l’Everest e il Lhotse fino al Cho Oyu e allo Shisha Pangma, che nel corso della mia spedizione avrei avuto la possibilità di avvicinare e studiare. Allestimmo il nostro campo base a 5100 metri, proprio là – a circa venticinque chilometri dalla base dell’Everest – dove fra il 1921 e il 1924 gli inglesi avevano posto il loro. Da lì io e Nena, con l’aiuto degli yak – animali da soma dal pelo lungo e ispido – intendevamo salire fino a 6500 metri, dove avremmo allestito un ulteriore campo base avanzato.

Il 13 luglio, quando lasciammo il campo accompagnati da tre animali e due pastori, nevicava. Regnava un’atmosfera triste e cupa. Il nostro cammino ci condusse attraverso la valle di Rongbuk, per pianure detritiche chiuse fra le pareti gigantesche di due ghiacciai, fino alla base della parete nord-est dell’Everest. Dopo aver allestito il campo come da programma, i pastori fecero ritorno con i loro yak. Io e Nena restammo soli nella nostra tendina, dove per giorni e giorni non potemmo far altro che aspettare, perché il tempo non migliorava. A lungo mi impegnai a pensare alla salita imminente. Sapevo che il tratto critico della mia solitaria sarebbe stato la sella nord, a settemila metri, reso rischioso dalla minaccia di slavine e dai giganteschi crepacci, che per un uomo solo senza corda rappresentano un pericolo enorme. I cinesi avevano scommesso che avrei raggiunto la vetta nel caso fossi riuscito ad arrivare fino alla sella nord: la via che parte da lì, che già gli inglesi scelsero negli anni Venti, era considerata ideale per una salita in solitaria.

Fummo costretti a resistere dieci giorni al campo base avanzato prima che si presentasse una possibilità di tentare la salita. Benché a est si stesse formando una gigantesca muraglia di nuvole, il tempo era buono, ma la neve era bagnata e pesante. Ciò nonostante riuscii a spingermi fino a 6900 metri senza difficoltà. Lì mi fermai temporaneamente: mi trovai davanti a un crepaccio che da solo e senza corda non sarei mai riuscito a superare. Tuttavia non mi diedi per vinto, cercai e mezz’ora dopo, perlustrato il bordo del crepaccio, trovai un ponte. L’aspetto non era certo tranquillizzante, eppure osai e passai senza problemi. Il giorno stesso arrivai alla sella nord. Avevo quindi raggiunto il punto chiave, da dove avrei potuto tentare l’attacco alla vetta. La mia esperienza, d’altra parte, mi insegnava che in queste condizioni di tempo e neve – in alcuni punti sprofondavo fino ai fianchi – avrei avuto ben poche possibilità di farcela. Il rischio era troppo elevato. Perciò rinunciai e tornai indietro.

All’alba del 17 agosto tentai la sorte per la seconda volta. Con il mio zaino da quindici-diciotto chili abbandonai il campo avanzato per salire fino alla sella nord. Lì intendevo depositare il carico e ridiscendere per tentare il giorno successivo, riposato e leggero, l’attacco definitivo. Con un tempo meraviglioso cominciai a salire bene. La neve era dura, offriva molte possibilità di presa. In due ore arrivai fino al margine dell’enorme crepaccio che avevo già superato durante il primo tentativo. Sopra di me – così vicina da poterla quasi toccare – si stagliava la sella, più in alto la cresta nord, dove Mallory e Irvine avevano aperto la loro via. Dopo aver sistemato lo zaino ridiscesi, per riposarmi ancora una notte, radunare tutte le energie, bere e mangiare molto.

Il giorno successivo, ben prima che il sole sorgesse, partii alla luce della frontale. Senza difficoltà arrivai al punto dove avevo lasciato lo zaino. Lo presi e proseguii. Alcuni minuti più tardi – mi stavo accingendo a traversare un ponte di neve – sprofondai, la frontale si spense e precipitai verso il basso. Persi completamente l’orientamento. Quando avvertii di nuovo il terreno sotto i piedi non ero in grado di pensare per quanti metri fossi volato. Era buio pesto. Non senza difficoltà riuscii a riaccendere la frontale. Quello che vidi mi fece rabbrividire. Mi trovavo su un sottile ponte, sotto di me il buio, il vuoto nero, sopra di me un buco, grande come il tronco di un albero, nel quale ero caduto e attraverso cui ora potevo vedere le stelle. Come sarei uscito da lì? Fui sopraffatto dalla paura, la fronte mi si imperlò di sudore, cominciarono a tremarmi le gambe, la schiena, e le spalle si irrigidirono. Mi sentivo come paralizzato. Ero perso? Ma non volevo morire! Poco alla volta ricominciai a ragionare in modo logico, ad agire seguendo l’istinto: in momenti simili è l’unica cosa da fare. L’istinto di sopravvivenza era di nuovo ben desto, e giurai a me stesso che se fossi riemerso da quel buco con le mie forze, avrei lasciato perdere la follia di salire gli ottomila da solo. Avevo un unico pensiero in testa: venirne fuori! Con la morte davanti agli occhi mi venne in mente una frase che mia madre ripeteva spesso: «In qualche modo andrà!», ed effettivamente, dopo lungo cercare e tastare trovai, senza dovermi infilare i ramponi – operazione che sarebbe risultata estremamente pericolosa su quella cengia insicura –, una sottile rampa che mi permise di arrivare al bordo inferiore del crepaccio, da dove riuscii a uscire. Salvo! Ma cosa fare a quel punto? Rinunciare e ridiscendere? Se avessi voluto proseguire in direzione della vetta, avrei dovuto superare di nuovo il ponte, quindi saltare il buco. Non avevo giurato a me stesso: «Mai più!»? Non so cosa sia successo subito dopo. So solo che senza pensare, senza volerlo effettivamente, come guidato da una mano sconosciuta, superai il ponte, il buco e cominciai a salire come in trance, sempre più in alto.

Quando raggiunsi la sella nord, a oltre settemila metri, fui colpito dai raggi del sole. Nena, che dopo il risveglio aveva cominciato a seguirmi con il binocolo, non si era resa conto di niente. Non poteva immaginare che ero caduto in un crepaccio e che avevo veramente rischiato la vita. Aveva visto il buco, ma la traccia proseguiva fino alla sella nord, dove non c’era più alcun pericolo di incappare in un crepaccio. Così pensò che non avevo corso alcun rischio.

Alle prime luci del giorno riconobbi la vetta del Cho Oyu, a nord la maestosa vetta settentrionale dell’Everest, con i suoi 7600 metri, ancora inviolata dal versante occidentale. Mentre il sole poco alla volta cominciava a illuminare il fondovalle, la vetta settentrionale si faceva sempre più vicina. Ogni pochi passi ero obbligato a fermarmi per prendere fiato. Il mio sguardo si volse verso il Nepal, da dove ero già salito una volta. In origine pensavo di dover fare un bivacco a 7500 metri. Tuttavia, nonostante lo sfinimento, mi sentivo abbastanza in forze per proseguire. Quando l’altimetro segnò 7800 metri allestii il mio bivacco al di sotto della spalla nord-est, vicino a un dente di roccia.

Durante la notte la temperatura si abbassò notevolmente, stava arrivando una bufera, ma il tempo rimase più o meno bello. Sapevo che nel giro di due giorni avrei potuto raggiungere la vetta: non avevo forse superato in una giornata 1400 metri di dislivello? Perché quindi non avrei dovuto superare i mille metri che restavano da fare nel doppio del tempo? Sapevo però anche quanta forza, quale logorio comporta ogni metro nella zona della morte! Mi posi come obiettivo di suddividere esattamente le ore dei due giorni a venire: ne avrei dedicate otto al recupero fisico, avrei mangiato e sciolto la neve per poter bere molto, per altre otto avrei oziato, dormito, mi sarei preparato psicologicamente alla salita imminente, e avrei riservato le altre alla salita vera e propria.

La mattina successiva con molta sicurezza cominciai a prepararmi per la partenza. Bevvi i liquidi che mi erano rimasti, poi fissai la tendina sopra il sacco, come una lumachina, perché il sole la asciugasse. La mia via conduceva in direzione della cresta nord-est, dove erano scomparsi Mallory e Irvine. La neve era alta. Lottai con tutte le mie forze, ma dovetti constatare che non progredivo affatto. Era troppo pericoloso, perché da un momento all’altro sarebbe potuta cadere una slavina. Quando mi resi conto che sulla parete nord ne erano già scese, ipotizzai che lì avrei trovato un fondo più solido. Così cominciai, seguendo il mio istinto, a traversare l’intera parete nord, nella speranza di raggiungere il couloir Norton, che intendevo seguire per arrivare in vetta.

Tuttavia, a causa di questo inevitabile traverso, quel giorno non riuscii a salire più di quattrocento metri di dislivello. Mi scoraggiai, cominciai ad avvertire forti dolori ai polmoni, gambe e braccia erano diventate di piombo, respiravo a scatti. Come sul Nanga Parbat di nuovo sentii quelle voci, avevo la sensazione che ci fosse qualcuno vicino a me! Quando il tempo cambiò – banchi di nubi cominciarono a sollevarsi –, fui sopraffatto dall’insicurezza, e a 8200 metri di quota dovetti allestire un nuovo bivacco. Sfinito mi infilai nella tenda per riprendermi, per mangiare e soprattutto bere. Intanto continuavo a provare la sensazione che qualcuno fosse lì accanto a me. Potevo quasi toccarlo. Mi sorpresi addirittura a tagliare in due la porzione di carne, per porgerla al mio interlocutore. Temevo di impazzire. Quel continuo fruscio, quei sussurri!

Quando la mattina successiva uscii dalla tenda, in un primo momento vidi ogni cosa pervasa da una luce intensissima, poi la nebbia si infittì di nuovo. Avrei dovuto osare lo stesso, rischiare il tutto per tutto? Partii con la speranza che il tempo schiarisse un po’. Lasciai indietro la tenda e alcuni pezzi molto pesanti dell’attrezzatura. Pensai fra me che di certo avrei ritrovato la traccia che mi apprestavo a battere nella pesante neve monsonica. Benché strisciassi, più che camminare, a ogni passo si faceva sempre più prepotente un’unica convinzione: ce la farò! A tratti le nubi si squarciavano per un attimo, e questo mi consentiva di osservare più in basso la vetta settentrionale, che sembrava già molto lontana. Riuscii a distinguere persino il tratto mediano del ghiacciaio Rongbuk, che simile a un fiume con i suoi meandri si estende maestoso fino a Rongbuk. A quel punto sapevo di essere ormai nella zona sommitale! Con le ultime forze mi trascinai verso l’alto, riuscivo a fare cinquanta, forse ottanta metri in un’ora. Poi finalmente riconobbi il treppiede posto sulla vetta, che raggiunsi il 20 agosto poco dopo le quindici.

Assolutamente esausto, senza pensare a niente, mi accasciai lì, indifferente, e rimasi seduto mezz’ora, forse un’ora, non lo so. Solo in seguito – obbedendo a un riflesso automatico – scattai qualche foto. La paura se n’era andata completamente. Di nuovo mi sentivo come sospeso, tutt’uno con il mondo. Per due volte mi ero spinto ai confini della Terra, ai confini di me stesso. Perché quindi farmi problemi per la discesa? Fui pervaso da una calma infinita. Mi trovavo al culmine di tutto ciò che avevo sognato, provato, pensato. Per lasciare la vetta dovetti radunare tutta la mia volontà.

Sfinito, compiendo meccanicamente un passo dopo l’altro, obbedendo solo all’istinto, riuscii a ridiscendere in due giorni. Una volta raggiunto il campo avanzato, dove Nena mi aspettava molto preoccupata, per la prima volta mi resi conto che non avrei potuto fare più di quanto avevo fatto. Nel delirio dei giorni successivi continuai a ricordare una frase di Saint-Exupéry: «Ti giuro, non c’è bestia che sarebbe mai riuscita a fare quel che ho fatto!»

COSÌ VICINO AL CIELO: L’ESPERIENZA DEL TIBET

Almeno dieci anni fa hai scritto: «L’esplorazione delle Alpi è ormai terminata». Questa è una delle ragioni che ti hanno portato a dedicarti in maniera così intensiva alle montagne di tutto il mondo, soprattutto in Tibet?

Non so neanch’io come mai il Tibet sia diventato il mio paese preferito... Forse esercita questa attrazione su di me perché da bambino riuscivo sempre e solo a vedere una piccola porzione di cielo. In val di Funes a destra e a sinistra le montagne salgono molto alte, e le grandi pareti delle Odle la chiudono sul fondo. Se poi il cielo è nuvoloso – cioè nero – provo una sensazione di strettezza. In Tibet invece il cielo mi sembra molto ampio, è come una tenda distesa sul paesaggio, dove l’orizzonte non è più definibile.

Com’è la situazione in Tibet per quanto riguarda la libertà religiosa?

Durante la rivoluzione culturale, dei circa 3500 monasteri ne sono stati distrutti grosso modo 3400. Questo ci dà un’idea della portata di questa lotta iconoclasta. Se faccio un paragone con il nostro paese, lì ci si è comportati in modo molto più brutale che non da noi fra le due guerre. È stato imposto il divieto di appendere le bandiere di preghiera, di girare i mulini di preghiera, era tutto vietato. Questa astinenza imposta per vent’anni ha suscitato un bisogno fortissimo della vecchia fede e un impegno instancabile per ritrovare l’antica cultura. Che deve essere riconquistata, riaccettata per essere posseduta. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la situazione in Alto Adige non è nemmeno paragonabile a quella del Tibet; nessuno soffre più la fame. Ancor più comprensione provo quindi per i kampa, i soli che per tanto tempo hanno opposto resistenza. Esprimono il loro lamento e riferiscono racconti raccapriccianti, ma anche loro in sostanza hanno imparato a convivere con la situazione; bisogna infatti ricordarsi che prima erano sottomessi e ridotti in schiavitù dal clero, dai Lama.

Il palazzo del Dalai Lama, il Potala, a Lhasa.

Il palazzo del Dalai Lama, il Potala, a Lhasa.

In che senso la rivoluzione culturale ha colpito anche i tibetani nomadi?

Per loro non è cambiato nulla. Vivono ancora come ai tempi di Sven Hedin, o come li descrisse Heinrich Harrer: in piccoli clan, di dieci o venti persone, vanno di pascolo in pascolo con le loro tende, le pentole, i fornelli alimentati dallo sterco di yak (in Tibet si riscalda quasi solo con lo sterco). Solo le bandiere di preghiera, che un tempo intessevano nel lungo pelo degli yak, sono sparite. Oggi usano una piccola bandiera rossa. Ma non ritengo che ciò esprima un credo politico imposto; molto più probabilmente si tratta di un’imitazione delle abitudini diffuse nelle città, dove la rivoluzione culturale si è affermata con maggiore incisività.

Potresti farci un esempio per chiarire la densità della popolazione in Tibet?

I tibetani hanno grandi territori a disposizione, su cui sono disseminati i villaggi. Per fare un confronto con l’Alto Adige: è come se una famiglia si trovasse in val Venosta, e quella più vicina in val Pusteria.

L’interesse per il lamaismo iniziò con i miei viaggi in Tibet.

L’interesse per il lamaismo iniziò con i miei viaggi in Tibet.

Adesso una domanda all’alpinista e capospedizione Reinhold Messner: quali sono le difficoltà per ottenere un permesso per il Tibet, e fino a che punto in montagna si è «perseguitati» dalla burocrazia cinese?

Da quando il Tibet è «pacificato» e gli ultimi kampa hanno deposto le armi, si sono aperte le porte a un turismo altamente specializzato, dato che ai cinesi interessa soprattutto la valuta straniera. Hanno studiato la legislazione di Nepal e Pakistan e hanno agito di conseguenza. Si redige un contratto per la spedizione, nel quale vengono elencati tutti i dettagli, i diritti e i doveri. È necessario avere al seguito un interprete e un ufficiale d’accompagnamento. A partire dal campo base non ci sono vincoli, si può andare e bivaccare dove si vuole. Bisogna solo provvedere alle proprie necessità e procedere. Ovviamente, è severamente vietato superare il confine con il Nepal.

(Die Südtiroler Illustrierte für Fernsehen und Freizeit, 1981, 19)