Inserto fotografico
Le vette delle Odle da sud, nelle Dolomiti: la mia patria di arrampicata. Sono salito centinaia di volte su queste punte. Qui ho capito la mia natura di arrampicatore, e le mie radici profonde in questo territorio.
Gschmargenhart, ai piedi delle Odle. In questo alpeggio ho trascorso insieme ai miei fratelli le estati della mia infanzia. Oggi, cinquant’anni dopo, questo alpeggio è diventato una specie di parco dei divertimenti. I numerosi ospiti, che teoricamente cercano il riposo fra i monti, in realtà lo hanno privato della sua quiete.
Ho realizzato tutte le mie prime «prime» sulle pareti nord delle «piccole» Odle.
La parete NO del Civetta ha segnato il mio passaggio alle grandi pareti.
Lo spigolo ovest della Marmolada (1973). L’arrampicata su roccia è stata la mia prima grande passione. Mi ha insegnato tutto: a concentrarmi su un problema, a individuare la via, a orientarmi.
Ho cominciato ad amare le immense pareti di ghiaccio avvicinandomi alla nord della Königsspitze.
Sulla parete sud del Dhaulagiri ho fallito, così come su quella del Lhotse e del Makalu. Per me è comunque importante averci provato.
Sulla parete nord del Cervino, coperta dal ghiaccio.
Sulla parete nord del «Kanch». Ho trovato gli ostacoli che andavo cercando dapprima sulla roccia, poi alle alte quote, in seguito nell’immensità dei deserti, alla fine nella politica e nella burocrazia. In qualche modo, sono sempre riuscito ad andare avanti.
La più difficile fra tutte le pareti che ho affrontato sugli ottomila: la parete NO dell’Annapurna.
L’Everest al di sopra del Nuptse.
Sulla parete NO dell’Annapurna.
Le mie avventure prevedono un grande impegno, pericoli e la costante tensione al limite. Come sulla parete nord del Kanchenjunga.
Nel silenzio del «Kanch» ho avvertito ancora più minaccioso il pericolo del ghiaccio che scricchiola.
Il pilastro Micheluzzi, sulla Marmolada. Qui ho provato la disperazione che deriva dall’esposizione.
Mai mi sono sentito così solo come sulla vetta del Nanga Parbat (1978).
Il Lhotse è stato il mio ultimo ottomila: in passato avevo dovuto ripiegare due volte sulla parete sud.
Con Hans Kammerlander ho portato a termine il concatenamento dei due Gasherbrum che superano gli ottomila metri.
Il «come» è stato per me sempre più importante della «conquista della vetta».
In cammino con bimbo e seguito.
Polo Sud, Polo Nord, Groenlandia e il deserto del Gobi divennero la mia grande sfida dopo gli ottomila. Più o meno ogni quindici anni sono andato alla ricerca di nuovi spazi d’azione adeguati alla mia età.
Nel Takla Makan ho sperimentato per la prima volta la profondità di un deserto.
Da solo nel mare di sabbia del Sahara.
Nella mia vita il ruolo più importante è occupato dalla mia famiglia. Ciò nonostante non ho mai rinunciato all’alpinismo: sul Ruwenzori, in Africa, con mia moglie.
Nella zona più alta della Mongolia: non mi ha affascinato solo l’attraversamento longitudinale del Gobi, ma anche le vette più alte degli Altai.
Il pack artico è in costante movimento. Al freddo, alla fatica e alla sensazione di essere esposti al pericolo si aggiungono la pressione dei ghiacci e la profondità scura e minacciosa del mare.
Non ho mai smesso di espormi volontariamente a qualcosa: al silenzio, alla vastità, alla solitudine, ai ghiacci alla deriva e alla sabbia del deserto.
Con la mia compagna Sabine e mio fratello Hubert prima della partenza per l’Artide.
Con mio fratello Hubert sono stato al Polo Nord e ho attraversato la Groenlandia in diagonale.
Con mio figlio Simon ho attraversato il Ténéré, nel Sahara.
La montagna sacra di Ama Dablam, nel Solo Khumbu, in Nepal.
Una montagna sacra dell’Africa orientale: Ol Doinyo Lengai. Oggi al centro dei miei interessi, oltre alla mia famiglia e al Messner Mountain Museum, c’è l’impegno sociale in favore delle comunità montane.
Un tibetano. Attualmente mi interessano più le persone che vivono la montagna che non le vette.
Dopo tanto tempo il Nanga Parbat ha restituito i resti di mio fratello Günther.
Castel Juval e il maso Oberortl. Come uomo politico ed ecologista mi sono battuto per la conservazione del paesaggio. Sento quindi molto forte la responsabilità nei confronti di questa regione.
Nella mia veste di contadino di montagna altoatesino mi impegno nella ricerca di modelli agro-pastorali stabili.
Il Kailash, la montagna sacra del Tibet, è ora al centro della mia attività museale.
Per quanto sia stato difficile superare migliaia di avventure, è stato molto più complicato trasformare le rovine di Sigmundskron in un museo.
Il fumo, forma di preghiera, esce dal chorten di Juval: è soprattutto la dimensione divina delle montagne ad affascinarmi.