La montagna dentro di me

 

La montagna: il mio paesaggio interiore

Fra i miei ricordi d’infanzia più lontani vi sono le calde e asciutte giornate primaverili in cui io e i miei fratelli ci sfogavamo correndo lungo i ripidi pendii coperti dai boschi che circondano il mio paese d’origine, in val di Funes, Alto Adige. Costruivamo casette, ci arrampicavamo sugli alberi più accessibili, andavamo a caccia di scoiattoli. Ben prima di approdare a scuola, da mio padre – preside della scuola del paese – avevamo imparato che era nostro compito andare a raccogliere la legna da ardere. Mettevamo la fascina e le pigne nei sacchi che trascinavamo fino in paese perché non riuscivamo ancora a trasportarli. Abitavamo nella parte bassa di Sankt Peter, all’epoca formato da non più di quindici case, per lo più cascine, lungo la strada. Poi c’erano la scuola, una trattoria, una macelleria, una drogheria e una chiesa, eretta su un’altura. I contadini ci davano dei «briganti»: durante le nostre scorribande non risparmiavamo né i prati, né i boschi, tanto meno i fienili. Non riesco a ricordare che in quel periodo abbia mai temuto che ci potesse capitare qualcosa, che potessimo smarrire la via del ritorno. Solo una volta ho avuto paura, quando i miei genitori erano saliti con me e mio fratello maggiore verso un bosco piuttosto alto, di proprietà della mamma. A un certo punto io e mio fratello non riuscivamo più a proseguire, così i nostri genitori ci lasciarono in un punto protetto. All’inizio eravamo rimasti in silenzio, poi però avevamo cominciato a urlare e sbraitare, fino a quando papà e mamma non erano tornati.

Fra i miei ricordi d’infanzia più belli vi sono i mesi estivi che per parecchi anni trascorsi insieme alla mia famiglia alla Gschmagenhartalm, una baita sopra la val di Funes, costruita su un prato enorme, proprio ai piedi delle Odle, la lunga e imponente catena di montagne frastagliate che si ergono verso il cielo come giganteschi campanili di chiese immaginarie. Il mio mondo era lì, il mondo delle mie montagne. Ancora oggi questo pezzetto di Terra è il mio luogo preferito nelle Dolomiti.

St Magdalena, nella val di Funes, sullo sfondo le Odle. Al di sotto delle vette la cupa collina boscosa di Gschmagenhart.

St Magdalena, nella val di Funes, sullo sfondo le Odle. Al di sotto delle vette la cupa collina boscosa di Gschmagenhart.

L’estate precedente l’inizio della scuola, quando avevo cinque anni, mio padre mi portò sulla vetta più alta delle Odle, il Sass Rigais (3027 m). Mio padre ci spiegò che altri alpinisti più in alto avrebbero potuto far cadere qualche pietra e che perciò avremmo sempre dovuto proteggerci sotto una sporgenza appena avessimo avvertito il fragore delle pietre che rotolavano. Quando fossimo stati in alto, poi, noi stessi avremmo dovuto prestare attenzione a non causare incidenti, dato che lo scioglimento del ghiaccio smuove il terreno. Traversare la morena fino ai piedi della parete verticale fu piuttosto impegnativo. Continuavo a chiedere ai miei genitori: «Quanto manca?» Raggiunta la parete cominciammo ad arrampicare sul serio. Mio padre estrasse dallo zaino la corda e attaccammo una fessura verticale. Poco prima della croce di vetta dovemmo affrontare una cresta sottile: sulla destra la parete precipitava verticale a valle, sulla sinistra si apriva una specie di buco nero. Provai spavento e inquietudine, e fui felice che un alpinista che stava scendendo mi tendesse la mano nei punti più impegnativi. In vetta ero stanco morto, ma orgoglioso di avercela fatta! Poi guardai giù: in fondo vedevo i pascoli, intorno a me le altre vette. Pensavo che quello fosse tutto il mondo. Allora non sapevo nulla della nord dell’Eiger, del Nanga Parbat, dell’Everest.

Con la mamma e mio fratello maggiore alla Brogles-Alm.

Con la mamma e mio fratello maggiore alla Brogles-Alm.

Negli anni successivi, con mio padre affrontammo quasi tutte le vette delle Odle. Ben presto sentii di essere in grado di superare le vie che sceglieva. Fra i dieci e i quindici anni poi io e mio fratello Günther cominciammo a essere indipendenti. Sceglievamo una vetta che ancora non conoscevamo oppure cercavamo una nuova via o una variante. Spesso ci sopravvalutavamo, ed eravamo costretti a gettare la spugna: non riuscivamo a progredire, oppure calcolavamo male i tempi e ci rendevamo conto che mai saremmo riusciti nell’impresa. Così eravamo obbligati a tornare indietro. Ma la settimana successiva tornavamo all’attacco. A ogni nuovo tentativo diventavamo più sicuri, il nostro bagaglio di esperienze si irrobustiva. La nostra capacità di riconoscere i pericoli sulla roccia e sul ghiaccio si perfezionava. Cominciammo a capire l’evoluzione del tempo atmosferico, e ben presto fummo in grado di stabilire se una fessura ghiacciata fosse affrontabile o meno. Non molto tempo dopo nostro papà non riuscì più a starci dietro. Cominciammo a non credergli quando ci raccontava che una certa parete era impossibile, solo perché da ragazzo lui e i suoi amici l’avevano tentata senza successo. Ci raccontò che sulla parete nord della Furchetta non c’era una via, impensabile salirla. Io sognavo giorno e notte di portare a termine quelle pareti. Nel sonno mi passavano davanti agli occhi, e intanto io salivo, salivo. Non erano incubi, e non cadevo mai. A sedici anni feci le pareti che mio padre non era riuscito a salire. A diciannove anni salii perfino la nord della Furchetta!

In quel periodo per me e mio fratello Günther esistevano solo le montagne. Con ogni parete di roccia che arrampicavamo stabilivamo un rapporto quasi intimo. Potrei dire che vivevo letteralmente sulla verticale. Per me era tutto. Se in quegli anni qualcuno mi avesse invitato a partecipare a una spedizione in Himalaya, avrei rifiutato dicendo: «Ma quelli non arrampicano, pestano solo la neve!» Non mi interessava. L’unica cosa che mi affascinava erano le pareti verticali o strapiombanti, i gradi di difficoltà più alti. Più l’arrampicata era libera, più profonda diventava la soddisfazione di arrivare in alto solo grazie alle proprie forze e senza troppe protezioni.

A sciare con papà.

A sciare con papà.

Nostro padre ci assecondava perché era colpito dalla nostra abilità e dal nostro slancio, forse perché si rendeva conto che non gli avremmo più obbedito, che saremmo partiti per imprese nostre. Ci aveva insegnato moltissime cose: sicura a spalla, installare una sosta, la regola dei tre punti, salire i camini; ci aveva mostrato cosa sono un diedro e una fessura; avevamo imparato a traversare le fessure innevate senza piccozza e ramponi; ci aveva parlato della scala di valutazione della difficoltà; sapeva cos’erano un primo, secondo o terzo grado, la sua esperienza l’aveva portato fin lì, e oltre non si era mai spinto, da capocordata coscienzioso quale era. Noi eravamo andati oltre, ormai era lui che si affidava a noi.

Fu in quel periodo che cominciammo a guardare oltre le vette delle Odle. Spesso ci trovavamo in quattro, due figli di contadini di Funes – Heindl Messner, un lontano parente, e Paul Kantioler, un ragazzo forte e coraggioso –, mio fratello Günther e io, per parlare e sognare delle grandi pareti dolomitiche. Ragionavamo in senso assolutamente sportivo: studiavamo nel dettaglio progetti di apertura di vie e di prime ripetizioni, parlavamo delle grandi pareti classiche, sognavamo il sesto grado, allora il massimo.

L’entusiasmo giovanile mi portava ad assorbire ogni cosa mi capitasse fra le mani nel campo della letteratura di montagna. Conoscevo Alpinismus, all’epoca la rivista di settore più importante, leggevo il Bergsteigerblatt, l’inserto settimanale di un quotidiano altoatesino. Mio padre mi aveva regalato una guida delle Dolomiti con tantissime informazioni su chi, e quando, aveva fatto una certa parete, e con un’illustrazione delle vie. Con quelle foto davanti agli occhi mi figuravo nuove linee di salita. Erano vie impegnative, che avrei cercato di superare con il minor numero possibile di chiodi: ambivo a essere più veloce ed elegante degli altri.

Ne parlavo in continuazione con Günther: volevo affrontare una parete considerata impossibile. Volevamo spingerci oltre il sesto grado. Passammo giornate intere a osservare le varie opzioni con il cannocchiale, a memorizzare le vie. Ed eravamo sempre più convinti di una cosa: dovevamo salire l’intera via in libera. Con questo obiettivo avremmo organizzato la nostra prima. Non avevo certo intenzione di fare buchi e piantare chiodi sulla prima parete liscia che mi sarei trovato di fronte. Mi sembrava poco sportivo, perché così tutto sarebbe stato possibile. Ovviamente non avrei potuto affrontare qualsiasi parete, perché con i mezzi a mia disposizione mi sarei arenato, ma in seguito con un paio di traversi verso destra o sinistra sarei riuscito a progettare le mie vie di salita e a realizzarne diverse con un grado di difficoltà molto elevato.