Morire nel Caucaso

Nel suo ufficio del Cremlino, Lenin telefona a Inessa e le chiede di raggiungerlo. Da dove lei abita all’appartamento del capo dell’Urss ci sono solo qualche centinaio di metri. I servizi di vigilanza della cittadella moscovita la conoscono bene; arriverà in pochi minuti.

Quel pomeriggio Vladimir Il’ič ha interrotto la lettura dei suoi dossier, ha chiesto che non gli passassero telefonate, ha riallineato con la solita maniacale precisione le penne e le matite sullo scrittoio e ora attende, camminando su e giù per la stanza zeppa di libri, fermandosi di tanto in tanto di fronte alla grande carta geografica delle Repubbliche socialiste appesa su una parete o al ritratto di Marx di fronte alla scrivania. È concentrato a cercare le parole giuste; deve essere gentile ma deciso, convincerla a lasciare il lavoro, partire e curarsi.

Nelle ultime settimane si è persuaso che spetti a lui intervenire. Non è certo un uomo che indulga in profonde analisi psicologiche, ma è turbato. Il superlavoro degli ultimi mesi, la vita spartana, gli stenti, che in quei mesi non hanno risparmiato neppure i dirigenti di partito, hanno sicuramente contribuito alla malattia di lei. Inessa ha lavorato tanto, ha dovuto affrontare difficoltà enormi, ha mangiato poco e male, ha attraversato un gelido inverno moscovita, ha combattuto aspre ed estenuanti battaglie politiche. Lenin pensa allo sguardo spento, alla stanchezza senza desideri, alla depressione e vuole concentrarsi su una sola questione: fare in modo che lei si curi, guarisca e torni a essere la donna che è sempre stata. Per ripristinare l’equilibrio fisico ed emotivo ha bisogno di riposo.

L’impresa non si rivela facile. Inessa raggiunge rapidamente il suo studio, non ha perduto – pensa Vladimir Il’ič mentre la sente arrivare – il passo veloce, ma il sorriso che gli rivolge è diverso, ha un’amarezza nuova e, come Lenin sospettava, non vuole saperne di lasciare Mosca. La responsabilità dello Ženotdel – gli dice Inessa – impone un lavoro costante. Sarebbe stato più facile se avesse potuto dirle di tornare per qualche settimana a Puškino, a breve distanza da Mosca, nella vecchia casa degli Armand fra quegli alberi e quei giardini che avevano avuto una parte così importante nella sua vita. Ma Lenin sa quel che probabilmente Inessa ancora ignora: Puškino non è più quella di un tempo, la tenuta degli Armand è in rovina, gli alberi trasformati in legna da ardere, i giardini inselvatichiti, gli animali vi pascolano ormai liberamente, la casa è stata saccheggiata e quel che resta è immerso nella sporcizia e nel disordine. Non è davvero il caso che lei veda tutto questo, ma non è neppure opportuno che vada all’estero, per esempio in Francia: c’è infatti il concreto pericolo che venga arrestata. Allora le propone di andare in un sanatorio nel Caucaso, tra le montagne; sotto la protezione dei compagni del partito potrà riposarsi e curarsi. E poi con vigore rinnovato – Lenin afferma di essere sicuro che avverrà presto – potrà riprendere i suoi compiti. Non deve preoccuparsi di nulla – la rassicura –, lui stesso si rivolgerà ai dirigenti locali perché le trovino una sistemazione in una città termale. Anche Andrej è malato – le ricorda –, è minacciato dalla tisi che ha ucciso suo padre ed è bene che si curi. Il capo del Cremlino pensa che le condizioni del figlio possano essere la leva migliore per convincere Inessa che, sia pure a malincuore, alla fine accetta di allontanarsi da Mosca.

Vladimir Il’ič tira un sospiro di sollievo, ma solo una parte del lavoro è fatta. Quella del Caucaso gli è sembrata la soluzione migliore, ma conosce la situazione in Russia, e sa che, in particolare in quelle zone, è instabile, che la guerra contro le armate bianche è ancora in corso, che il viaggio è lungo e non è detto che Inessa, una volta giunta nella città termale, riceva le cure promesse. Con la metodicità e la testardaggine che gli sono proprie, comincia a organizzare il viaggio. Prende carta e penna e scrive a Sergo Ordžonikidze, il capo del comitato rivoluzionario nel Caucaso, che conosce bene la presidente dello Ženotdel essendo stato a suo tempo uno degli studenti della scuola di Longjumeau. Gli trasmette questi ordini: deve mandare immediatamente un telegramma ai dirigenti del partito di Kislovodsk, dove si trova un sanatorio, per organizzare il soggiorno della compagna Inessa e di suo figlio.

Ma Lenin non è ancora tranquillo. Il Caucaso è lontano e non è sicuro che i suoi ordini vengano eseguiti, quindi scrive ancora, chiede una risposta immediata, vuole sapere con precisione se le sue raccomandazioni sono state seguite. Due giorni dopo, evidentemente preoccupato dalle notizie che gli giungono dai fronti di guerra, manda un’altra lettera a Ordžonikidze. Se la situazione a Kuban’ diventa pericolosa – gli dice – deve «prendere contatto immediatamente con Inessa Armand in modo che lei e suo figlio possano evacuare a Petrovsk o ad Astrachan’ senza indugio…».

Alla fine chiede a Inessa di raggiungerlo ancora al Cremlino, vuole rivederla, desidera salutarla. Trova il tempo per una tazza di tè, tiene strette a lungo le sue mani, alla fine salutandola le consegna una lettera per il direttore del sanatorio in cui lo prega di garantirle un buon alloggio e un buon trattamento. Appena Inessa lascia il suo studio, è assalito da una nuova inquietudine e scrive a Ordžonikidze: «Non dimenticate che avete promesso di organizzare un buon trattamento per Inessa e per suo figlio…»

Inessa, con la sua amica Polina Vinogradskaja e Andrej, arriva a Kislovodsk dopo quattro giorni di viaggio decisa a prendersi cura di se stessa. Sa che Lenin ha mosso mari e monti, ma ha una certa esperienza su come vanno le cose in Russia in quegli anni e non si aspetta molto. Sono tempi in cui può accadere che neppure il capo del Cremlino riesca a ottenere qualcosa di buono, almeno sul piano alberghiero. E così accade. Il sanatorio non è proprio quel luogo di cura che Inessa aveva immaginato e in cui Lenin aveva sperato. Poiché nell’edificio principale, il più ospitale e attrezzato, non c’è posto, le viene data una stanza in una dependance in cui il letto è scomodo e non c’è energia elettrica. La notte si sentono gli inquietanti colpi di fucile delle armate bianche. La guerra civile, che ufficialmente è finita in aprile, in quelle terre continua, vicina e minacciosa.

Potrebbe tornare indietro, chiedere al partito di aiutarla a riprendere la strada per Mosca, ma è troppo stanca per cambiare i programmi precedenti e anche se tutto – le scomodità, il pericolo – indurrebbero a lasciare il sanatorio, decide di rimanere. Dopo il lungo viaggio l’importante è riposare, chiudere gli occhi e, anche in quel letto scomodo, dormire il più possibile. I compagni del partito locale consapevoli del disagio cui è costretta, incalzati dalle lettere di Lenin, si affannano attorno a lei per soddisfare ogni sua richiesta. Lei chiede un cuscino per riposare meglio. «Dormo giorno e notte», scrive a sua figlia Inna. E quando non dorme rimane sola, silenziosa, con un libro in mano oppure, sempre in solitudine, fa lunghe passeggiate sulle montagne. Non ha voglia di stare con i compagni, rifugge anche alcuni cari amici degli anni del suo esilio in Europa, con i quali ha condiviso esperienze fondamentali. «Sento un selvaggio bisogno di essere sola», scrive nel suo diario, «mi sento stanca anche quando gli altri parlano attorno a me… mi chiedo se questa sensazione di morte interiore passerà mai».

Nelle lunghe ore di solitudine riflette ed è come se si osservasse dall’esterno e si trovasse cambiata. È sempre stata socievole, allegra, disponibile, infaticabile. Come diceva Nadja Krupskaja quando si trovavano insieme esuli a Parigi, «irradiava calore e gioia di vivere». Ora trova strano «che la gente attorno a lei rida e provi piacere nella conversazione». «Io», leggiamo nel suo diario, «rido o sorrido non perché mi sento allegra ma perché qualche volta devo sorridere…». La donna che amava crogiolarsi al sole, che aspettava l’alba in montagna, che passeggiava fino allo sfinimento sulle rive del Volga, che si addormentava sui prati, si sorprende per la sua indifferenza verso la natura e per il suo distacco nei confronti degli uomini e delle donne: «Prima mi avvicinavo a chiunque con un sentimento di calore. Ora mi sento indifferente e annoiata nei confronti di tutti».

L’analisi del suo cambiamento interiore è spietata: «Gli unici sentimenti che ancora provo sono per V.I e per i miei figli. Rispetto agli altri è come se il mio cuore fosse morto. Io ho esaurito ogni riserva di amore e di compassione nei confronti della gente con la quale prima ero così aperta. Non ho nessuno a parte V.I. e i miei figli. Non ho rapporti con altri se non nel mio lavoro. E la gente sente questa morte e mi ripaga con la stessa antipatia. Ora anche la mia attitudine al lavoro si sta affievolendo».

Ha solo quarantasei anni, nessuna malattia grave, ma nelle sue parole aleggia un sentimento di morte che diventa un presentimento, un’angoscia dalla quale non vuole fare alcuno sforzo per staccarsi. Solo quando la vita appare inutile si selezionano con tanta precisione le esperienze fondamentali, quelle per cui vale ancora la pena di vivere.

Il distacco dal mondo si accentua in ogni riga del suo diario e il senso di una prossima fine ogni giorno diventa più forte: «Ricordo la resurrezione di Lazzaro. Sapeva che su di lui erano rimasti i segni della morte e questo avrebbe spaventato la gente, così fece in modo che sentissero il bisogno di allontanarsi. Anch’io sono un cadavere vivente e questo è terribile soprattutto quando la vita attorno a te continua».

Concentrata sul bilancio della sua vita e dei suoi affetti, Inessa non è interessata a ciò che invece preoccupa tutti gli altri: la guerra, la certezza che i Bianchi, sempre più vicini a Kislovodsk, possano essere ormai una minaccia concreta. Nel pericolo la sua unica preoccupazione è il figlio Andrej che ha solo sedici anni: «Non sono come quelle matrone romane che sono pronte a sacrificare i propri figli per la patria. Io non potrei farlo. Posso sacrificare me stessa, ma non Andrej».

A Mosca Lenin si informa ogni giorno di quello che succede nel Caucaso, comincia a prevedere il peggio e a pentirsi di aver costretto Inessa ad andare a curarsi in quelle terre. Chiede continue notizie, cerca di impartire indicazioni, sollecita una protezione che sente difficile, fa pesare, quando gli pare necessario, che è il capo. Quando ha chiaro che la situazione ha superato il livello di guardia, scrive una lettera ai dirigenti locali del partito ricordando che sono loro affidati Inessa e Andrej: devono assolutamente proteggerli. Per la sua ostinata e autoritaria pressione, e per paura di qualche conseguenza, due membri del partito locale si decidono a parlare con Inessa: deve abbandonare Kislovodsk immediatamente, quella è ormai una zona pericolosa e loro non possono garantire per la sua vita e quella di suo figlio. E poi – aggiungono – sono ordini di Lenin. I due devono scontrarsi con la testardaggine della compagna Armand che non vuole saperne di andar via, è arrivata fin laggiù – dice – e vuole restarci. Si mostra scettica, ironica, non ha paura. Anche quando la sua amica Polina Vinogradskaja decide di tornare a Mosca, lei non desiste. Le sue vacanze non sono finite e lei vuole farle fino in fondo. In realtà, neppure il reale pericolo per la sua vita e per quella di Andrej riesce ad allontanarla dalla profonda apatia, dalla depressione nella quale è piombata. Non ha paura perché niente le sta veramente a cuore.

Per capire i motivi che hanno prodotto quella morte interiore bisogna tornare alle pagine del suo diario. «Mi sembra di camminare fra la gente cercando di nascondere loro il mio segreto e cioè che sono una morta fra i vivi. Come un attore che per centinaia di volte deve ripetere la stessa scena per la quale non ha più interesse, ripeto a memoria i gesti, i sorrisi, anche le parole che prima usavo quando mi sentivo ricca di emozioni. Ora il mio cuore è morto, il mio animo è silenzioso ed io non riesco a nascondere alla gente il mio triste mistero. C’è una corrente fredda che le persone sentono venire da me. E questo le allontana. Ora non sono più stanca ma questa morte interiore resta con me. E poiché non ho calore, non lo irradio e sono incapace di donare felicità».

La Causa cui Inessa aveva dedicato la vita, l’Utopia che aveva sperato di realizzare le avevano chiesto una disciplina e una trasformazione profonda, l’avevano obbligata a regole che prevedevano l’esclusione dei sentimenti e delle emozioni dalla vita pubblica in nome della subordinazione assoluta alle ragioni della rivoluzione. Nasce da lì il doloroso inaridimento che Inessa lamenta, quel senso d’inutilità, quella mancanza incolmabile? Anche l’amore per Vladimir Il’ič era stato costretto nei canali ben definiti dei rapporti politici e di partito e non aveva avuto vita autonoma. Era stato un’esperienza e un’avventura unica ed esaltante quando il socialismo era la speranza e la rivoluzione ancora attesa, poi, proprio ciò per cui avevano lottato aveva costretto il loro sentimento in spazi troppo angusti: all’interno delle necessità della politica e dell’edificazione dello Stato dei Soviet.

Inessa non è pentita, anzi è convinta di aver fatto la scelta giusta, ma nello stesso tempo sa che ha perso: «Siamo ancora molto lontani dal momento in cui gli interessi personali e quelli della società coincideranno, oggi non può esserci vita personale perché tutto il nostro tempo e i nostri sforzi sono dedicati alla causa comune. Può darsi che altri possano trovare un po’ di tempo e un piccolo angolo di felicità. Io non so come riuscire a ottenerlo per me stessa». Sono parole di resa.

Le autorità locali ordinano l’evacuazione e a metà settembre tutti gli ospiti del sanatorio sono costretti a lasciare Kislovodsk. La sera prima di partire si organizza una piccola festa. C’è un pianoforte e qualcuno propone a Inessa di suonare. Chi glielo chiede non sa che è una straordinaria pianista, che la musica è una delle sue gioie più intense. Negli ultimi anni anche questo piacere era stato cancellato. C’era poco tempo nella Russia della rivoluzione bolscevica per la musica e lei si era adeguata e aveva messo da parte il pianoforte. Riprende a suonarlo quella sera prima della partenza. Per qualche ora il suo volto si anima di nuovo, gli occhi riprendono a brillare, le mani inseguono le note con una vitalità inattesa, lo scialle che doveva ripararla dal freddo le scivola dalle spalle. Ogni stanchezza si dilegua insieme alla preoccupazione per il giorno che sta arrivando e per il pericolo del viaggio imminente. E la musica stupisce e incanta, arriva in fondo all’animo di chi ascolta, si diffonde fino ai boschi vicini e riesce a coprire il rumore dei fucili dei Bianchi.

Poi la notte finisce e all’alba Inessa riprende il cammino che la sua stanchezza avrebbe voluto evitare, ma cui non ha potuto opporre resistenza. Lascia la cittadina insieme al figlio, all’amica Ljudmila con suo marito, a un altro ospite del sanatorio, il dottor Ružejnikov, con la moglie incinta. Il treno si dirige a Vladikavkaz e il viaggio si svolge – com’era prevedibile – sotto i colpi dei fucili e dell’artiglieria dei Bianchi. Lei rimane calma e osserva con una certa ironia le paure dei piccoli burocrati di partito che li accompagnano. A Vladikavkaz cercano un luogo per riposare, ma non lo trovano. La città è piena di rifugiati dalla Georgia e di cosacchi e poi – apprendono con una certa angoscia – ci sono stati alcuni casi di colera. Inessa è preoccupata per le due donne incinte che viaggiano con lei. Meglio evitare di stare lì più tempo del necessario, meglio non rischiare. E, dopo essersi consultata con il dottor Ružejnikov, decide che dormiranno ancora una notte in treno. In quel disastro, nonostante tutto, rimane il luogo più sicuro e più pulito.

Il giorno dopo si riparte e si arriva a Beslan, una piccola stazione di campagna, che colpisce i viaggiatori per la miseria e per la sporcizia, eccessive e preoccupanti persino in quei duri tempi di fame e di guerra. Devono fermarsi, il cibo è finito e occorre procurarselo. Inessa si assume il compito di cercare qualcosa, comincia a girare per le strade del paese, entra in contatto con i contadini, con i piccoli commercianti, contratta, acquista quel che può. Sa bene che il piccolo gruppo di viaggiatori si è affidato a lei. C’è Andrej cui provvedere, ci sono due donne incinte, c’è il marito della sua amica Ljudmila gravemente malato di tbc. Così le sue capacità organizzative, il suo impulso a occuparsi degli altri, l’innato senso di responsabilità che ne hanno fatto negli anni una dirigente bolscevica emergono inaspettatamente ancora una volta e prevalgono sulla spossatezza, sulla tristezza, sullo sfinimento. Alla fine è esausta, ma riesce nel suo intento: ottiene un po’ di latte, qualche uovo, un po’ di frutta, un risultato straordinario. Torna quasi allegra fra i suoi compagni perché con quel poco che ha racimolato può preparare un pasto per tutti.

A Beslan Inessa contrae il colera.

Quando il piccolo drappello di viaggiatori che si è rifocillato si muove e finalmente arriva a Natičik, non c’è ancora in lei alcun segno di malattia, anzi, in quelle ore in cui il morbo fa il suo inesorabile corso, Inessa sembra aver acquistato forza e vivacità. Occuparsi degli altri le ha fatto bene. Nonostante la stanchezza del viaggio, spinta dai compagni del partito locale, partecipa a una riunione nella quale si discute dell’ultimo libro di Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, e lei, attiva e partecipe, difende Vladimir Il’ič e le sue idee con la passione di sempre. Torna nella dacia che la ospita eccitata dalla discussione.

La malattia si manifesta nella notte. Cade in preda al vomito, alla diarrea e capisce di essere condannata. Cerca di allontanare da sé Andrej che vuole starle vicino e le due compagne di viaggio che vorrebbero provare ad alleviare i suoi dolori. La portano nell’ospedale locale, ma la diagnosi è chiara. Muore all’alba del 24 settembre 1920.

L’11 settembre, meno di due settimane prima della sua morte, aveva scritto sul diario in poche righe, che lei non sa essere le ultime, la sua verità: «Per le persone romantiche l’amore occupa il primo posto nella vita, è sopra ogni altra cosa. E fino a poco tempo fa ero più vicina a questa idea di quanto non sia ora. In realtà è vero che per me l’amore non è mai stata la sola cosa. Insieme all’amore c’era sempre anche la Causa e nel passato non poche volte ho sacrificato la mia felicità e il mio amore per questa».

Ci vuole più di una settimana perché a Natičik arrivi una bara di zinco e ci vogliono otto giorni perché il treno con il corpo di Inessa giunga alla stazione di Kazan’, dove ad attenderla c’è Lenin.