In un café di Parigi
Nei primi anni del Novecento Parigi si sta espandendo velocemente. Nelle salette del Café des Manilleurs arrivano i rumori lontani dei lavori per la costruzione della stazione del metrò di Porte d’Orléans. Il locale, grande e sempre affollato, rumoroso, caldo, è il luogo d’incontro degli esuli russi. Qui amano ritrovarsi per parlare della situazione in patria e riferirsi le ultime notizie.
In una sera di primavera 1909 in cui Parigi è Parigi, cioè piovigginosa, umida e al tempo stesso vivace e vitale, una donna entra in quel Café e si siede nella saletta che il proprietario, in cambio di una modesta consumazione, concede agli esuli per le loro riunioni. È accompagnata da un’amica che conosce bene il locale e gli uomini che lo frequentano. Per Inessa, invece, è la prima volta.
Quando entra, timorosa e curiosa, un uomo sta parlando impetuosamente. Lo vede andare su e giù, fermarsi ogni tanto con le braccia conserte, tendersi, chinare la testa, restare qualche attimo in silenzio, appoggiarsi alla porta a osservare il piccolo uditorio e poi ricominciare. Sta parlando dell’organizzazione del Centro per l’emigrazione, della difficile situazione del partito socialdemocratico russo che perde iscritti e sostenitori, del forzato accordo dei bolscevichi con i «liquidatori» – i menscevichi – che è stato costretto ad accettare. I frequentatori di quella saletta lo ascoltano muti e attenti, Inessa sa bene chi è, anche se non lo aveva mai visto prima.
Qualche tempo prima, in Svizzera, aveva letto Lo sviluppo del capitalismo in Russia e ne era rimasta conquistata al punto di sposare la causa dei bolscevichi. Quella sera al Café des Manilleurs vede finalmente chi è stato a convincerla. È Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, ha quarant’anni e – come gli hanno riferito tutti i russi che ha incontrato – una sola, unica, grande passione: la rivoluzione. È l’ossessione della sua vita, lo scopo verso cui indirizza tutte le sue energie. Inessa nota che la sua figura non ha nulla di attraente: i vestiti non sono curati, i pantaloni troppo lunghi, sulla testa ormai calva è rimasta solo una corona di capelli rossi, ma gli occhi da mongolo, indagatori, a tratti diffidenti, sono due strette fessure brillanti. Sembra un contadino russo. Niente di più lontano dall’immagine romantica di un rivoluzionario. E non sembra neppure simpatico. Non sorride, non cerca l’approvazione di chi lo ascolta, si vede che segue quasi esclusivamente i suoi pensieri. Il modo in cui parla però è affascinante.
Anche Lenin osserva la sconosciuta. D’altra parte nessuno potrebbe fare a meno di notarla: Inessa si distingue dai normali frequentatori del Café des Manilleurs. Alta, figura sottile, morbidi capelli castani che spuntano da un cappellino alla moda, grandi occhi grigio-verdi. L’abito, anche se austero, è elegante, e di un’eleganza tutta parigina.
Alla fine della riunione qualcuno li presenta e i due comprendono immediatamente di avere molte cose da dirsi: le prospettive della rivoluzione nella loro terra lontana, le notizie che arrivano da laggiù, la situazione politica europea, l’avvenire dei socialdemocratici. E poi le loro letture. Scoprono di avere una passione in comune per il romanziere Černyševskij, autore di Che fare? Qualche anno prima, Lenin ha intitolato nello stesso modo uno dei suoi testi più importanti.
La vita personale viene toccata di striscio. Prima che Inessa gli venga presentata, a Lenin è stata sussurrata solo qualche informazione. A un certo punto, Inessa saluta con garbo ed esce dal Café. A Lenin pare che la conversazione sia stata interrotta bruscamente, ma forse – pensa – ha un altro appuntamento. Così anche lui saluta e ritorna nella piccola casa di rue Baunier, dove lo attende sua moglie. Nadja è una compagna premurosa, che da molti anni lo sostiene, lo cura, lo capisce. Lei c’è sempre quando la notte viene colto dai suoi terribili mal di testa e gli incubi non gli danno tregua. Mentre a rapidi passi si dirige verso il piccolo appartamento parigino, Lenin si rende conto che la prossima potrebbe essere un’altra notte orribile. Meglio mettersi subito a lavorare, deve scrivere tante lettere. Nadja protesterà, ne è sicuro, dirà che gran parte di quelle lettere può scriverle lei la mattina dopo e che lui deve riposare. «Riposare», glielo ripete continuamente.
La sera successiva, al Café des Manilleurs, Inessa non si fa vedere. Gli dicono che è partita, che forse ha raggiunto i figli da qualche parte in Europa. Vladimir Il’ič, ancora curioso, continua a fare domande per avere altre informazioni. Non è un’impresa difficile. Agli esuli russi piace chiacchierare in quella piccola comunità che si riunisce al Café des Manilleurs o che frequenta, pochi metri più in là, la sede del giornale Social-Demokrat si sa tutto di tutti. Lenin si meraviglia dell’età di Inessa, ha trentacinque anni – pensava fosse più giovane – e si è sposata nel 1893, a diciannove anni, a Puškino. Il suo cognome è Stéphane, e il suo vero nome non è Inessa, ma Elisabetta. Scopre anche che è la figlia illegittima di due personaggi dello spettacolo: il padre, Théodore Stéphane era cantante lirico, la madre, Nathalie Wild, attrice. Inessa era nata a Parigi e poi aveva vissuto in Russia. Ma sulle ragioni del trasferimento ci sono due versioni: una, per così dire, proletaria e l’altra borghese. Secondo la prima, Inessa è stata costretta a lasciare Parigi per Mosca perché, alla morte del padre, la madre, che aveva altre due figlie, non poteva mantenerla. A Mosca la zia istitutrice l’aveva portata con sé presso la famiglia Armand, dove la piccola parigina era stata trattata come i rampolli dalla facoltosa e generosa famiglia. Secondo questa versione, Inessa era un’orfana povera allevata da una zia proletaria, ma, grazie alla generosità degli Armand aveva avuto un’eccellente educazione. C’è poi l’altra versione, secondo cui Inessa era di famiglia borghese, anche se non ricca come gli Armand, e faceva parte di quella cerchia di russi di origine francese che costituiva, nella Mosca di fine Ottocento, un’enclave particolare. La nonna era vedova di un professore e la piccola aveva ricevuto una buona formazione grazie a lei, alla zia e a numerosi istitutori. Inessa parlava quattro lingue, era un’eccellente pianista e aveva fatto buone letture.
Gli esuli chiacchierano molto, spiegano, si contraddicono l’uno con l’altro, ciascuno di loro pensa di avere un pezzo di verità in più sulla donna apparsa la sera prima. Vladimir Il’ič ascolta, ma i suoi pensieri si allontanano dalla sala del Café. Si rincontreranno?