Donna tuttofare
Da Cracovia Lenin sommerge Inessa di messaggi con cui le dà direttive, chiede il suo intervento, la sommerge d’incarichi.
Lui, che ha voluto la rottura e l’ha gestita con una certa rudezza, non intende perdere Inessa. Naturalmente dice a se stesso solo una mezza verità: la compagna Armand è una collaboratrice preziosa e fidata, che ha portato a termine compiti che nessun’altro avrebbe potuto svolgere. Il suo lavoro e il suo impegno devono proseguire. E poi un bolscevico non può neppure prendere in considerazione che, dalla conclusione di una relazione sentimentale, possa conseguire la fine dell’impegno per il socialismo. Sarebbe troppo borghese per un rivoluzionario e una rivoluzionaria farsi turbare da problemi di cuore. Con i suoi messaggi vuole dare a se stesso e a Inessa la prova che lavorando insieme per la rivoluzione il rapporto continuerà come se nulla fosse avvenuto.
«La corrispondenza», nota Elwood autore di Inessa Armand: Revolutionary and Feminist, «riflette il nuovo ruolo che voleva lei ricoprisse nel partito. Doveva essere la sua Girlfriday, una leale e fidata subordinata che poteva utilizzare la sua conoscenza delle lingue dell’Europa occidentale e la sua permanenza a Parigi per portare avanti un’infinita quantità di compiti personali e politici. Doveva diventare un bastone, uno strumento con cui battere i bolscevichi esitanti rimettendoli sulla linea giusta e per inviare messaggi intransigenti ai suoi oppositori politici, portare a termine tutte le missioni scomode che lui preferiva evitare».
Quelli che Lenin affida a Inessa sono anche lavori banali, compiti modesti: procurargli i libri che vuole leggere o tradurre i suoi discorsi in francese e tedesco. Una volta le ordina di recuperare tutti i volumi che lui e Kamenev avevano lasciato in giro a Parigi, un’altra volta di intervenire presso il Social-Demokrat perché il giornale non aveva pubblicato, a suo parere, notizie esatte. Con lei spesso sfoga la sua rabbia sull’organizzazione degli esuli, che Inessa aveva diretto in passato, e che ora non funziona a dovere. Oppure si lamenta, inveisce, ordina, si arrabbia, scarica i suoi malumori per tutte le cose che non vanno, mostrando senza reticenze la parte più dura e autoritaria del suo carattere.
Perché una donna sensibile e orgogliosa, indipendente e padrona della sua vita, accetta questa subordinazione? Perché Inessa che ha sfidato l’Ochrana e il potere degli zar, che non ha mai abbassato la testa neanche in carcere o al confino, sopporta gli ordini anche scortesi di Lenin? La risposta non è solo una. Inessa è una bolscevica e, come Lenin, è convinta che i rapporti personali non debbano turbare quelli politici. Lei capisce e giustifica quel che altri probabilmente non comprenderebbero: i malumori, gli sfoghi contro Kautsky, la rabbia per le decisioni del Comitato centrale, il furore per la mancanza di fondi, le inquietudini per le notizie dalla Russia che continuano a essere allarmanti. Sa che sono stati arrestati i membri del Comitato centrale e della redazione della Pravda e che anche il georgiano Iosif Stalin, un altro dirigente bolscevico di cui Lenin si fida, è in carcere.
Poi ha intuito che Lenin vuole inviarle un segnale sulla fine inequivocabile della loro relazione e la rudezza è probabilmente lo strumento che sa usare e sebbene colpita ne è in qualche modo rassicurata. Ha temuto che la rottura sentimentale comportasse anche la conclusione di un rapporto di fiducia e invece è evidente che Vladimir Il’ič la cerca seppure per compiti spesso ingrati. Sente che, nonostante le scortesie, l’uomo che l’ha respinta è ancora attratto da lei, vuole una vicinanza. Solo dopo qualche mese affiora in lei un cambiamento, all’inizio quasi impercettibile e, con il passare delle settimane, più evidente. La «donna di fiducia» comincia a sentire la pesantezza dei suoi compiti e del suo ruolo. Inizia a risultarle faticoso correre da un quartiere all’altro di Parigi solo per rassicurare Vladimir Il’ič che, nonostante la fine del loro amore, lei continua a esaudire le sue richieste e a lavorare per la Causa. Inizia a notare la differenza fra il trattamento che Lenin ha nei suoi confronti e quello che riserva ai quadri dirigenti del partito. Scopre di stare meglio se lavora non su ciò che le viene imposto, ma su quello che lei ritiene importante.
Entra a far parte di un progetto che la appassiona: una rivista per le donne nella quale lavorano un gruppo di bolsceviche. Si chiamerà Rabotnica (La lavoratrice) e vi collaborano Konkordija Samojlova da San Pietroburgo, Nadja Krupskaja e Lilijana Zinov’eva da Cracovia, lei e Ljudmila Stal da Parigi. Con Ljudmila trascorre ore nei café di Saint-Michel a discutere, progettare articoli e si sente di nuovo se stessa. Tutte le redattrici, compresa Inessa, sanno che gli uomini del partito manifesteranno la loro contrarietà al progetto, ma lei ne parla con Lenin sapendo che questa volta lui non potrà opporsi. Non ha sempre sostenuto che le donne devono lottare per avere gli stessi diritti degli uomini? Non ha sempre detto che il contributo delle lavoratrici è indispensabile per la rivoluzione?
Rabotnica è una rivista importante. Nella sua redazione ci sono le militanti che in un futuro non molto lontano avrebbero lavorato per l’emancipazione delle donne nello Stato Sovietico. Scrive Barbara Evans Clements in Bolshevik Women che la rivista «mescola marxismo e femminismo per costruire le idee forza di quello che può essere definito femminismo bolscevico». Un femminismo che non riteneva gli uomini la causa delle discriminazioni, ma considerava la diseguaglianza una conseguenza della inumanità delle moderne fabbriche. Le donne potevano superarla solo lottando insieme agli uomini nel partito del proletariato per cambiare con loro, radicalmente, la situazione esistente.
Su Rabotnica Inessa riesce finalmente a pubblicare due articoli: uno sui diritti elettorali delle donne, uno sulla giornata lavorativa di otto ore e ne va molto orgogliosa. Lenin invece non è contento dell’iniziativa. Pensa che soldi, energia e lavoro andrebbero indirizzati altrove, ma questa volta non ha il coraggio di dirlo apertamente. Si tratterebbe di opporsi a Inessa e a Nadja. Così, si limita a fare di tutto perché Inessa non «sprechi» il suo tempo. Non le lascia tregua, chiedendole un impegno sempre maggiore in compiti semplici e noiosi, contando sul suo senso del dovere. Sa bene che un articolo del capo dei bolscevichi darebbe un indiscutibile prestigio al giornale che sta per nascere, ma non scrive alcunché per la nuova rivista. Inessa comincia a sentire una certa insofferenza.
Rabotnica riesce a vedere la luce, ma in condizioni difficilissime. A San Pietroburgo l’inizio è, a dir poco, burrascoso. Racconta Jean Fréville, nella sua biografia di Inessa, che la nascita della rivista, prevista per la giornata della donna del 1914, è accompagnata da brutalità e violenze inaspettate. Il governo aveva autorizzato le riunioni di redazione e la pubblicazione, ma l’atteggiamento benevolo e condiscendente si sarebbe rivelato una trappola. Alla vigilia dell’otto marzo i gendarmi fanno irruzione nel locale in cui cinque militanti leggono, archiviano, mettono in pagina gli articoli e, senza tener alcun conto dell’autorizzazione concessa, le arresta e le porta nella prigione di Vyburg, dove si aggiungono ad altre venticinque rivoluzionarie già arrestate in precedenza. «Che infelice e ironico destino», scriverà Konkordija Samojlova, «tutte noi avevamo sognato di aprire almeno per un giorno le grate delle grandi prigioni zariste, avevamo sognato di sentirci, non fosse che per un giorno, delle libere cittadine del mondo e invece siano cadute trenta alla volta nelle prigioni dello zar».
Ma non finisce così. Alle donne esuli in Europa – Inessa e Ljudmila a Parigi, Nadja e Lilijana a Cracovia – qualche giorno dopo arriva la notizia che il lavoro non è andato perduto. L’otto marzo le detenute hanno manifestato nelle prigioni e, anche se disperse immediatamente dalla polizia, ci sono state piccole manifestazioni in molte piazze di San Pietroburgo. Alcune militanti hanno preso rapidamente in redazione il posto di quelle arrestate e ce l’hanno fatta: il primo numero di Rabotnica ha visto la luce.