Una malattia dell’anima

Polina Vinogradskaja è una delle più care amiche di Inessa. In un gelido giorno dell’inverno 1919, non avendo da tempo sue notizie decide di andarla a trovare. Quando arriva al suo appartamento, bussa a lungo e sta per andarsene convinta che in casa non ci sia nessuno quando la porta si apre. Inessa ha una brutta cera e si capisce che si è trascinata a fatica fino alla porta d’ingresso. Polina è così turbata che, prima di chiederle notizie della salute, le domanda come mai i figli l’abbiano lasciata sola. Riceve una risposta secca: «I ragazzi stanno lavorando e non possono certo fermarsi per un motivo così stupido come la mia malattia». L’amica entra e poi racconterà: «Nell’appartamento c’era un terribile freddo: non era in funzione alcun riscaldamento. Uno strato spesso di polvere copriva ogni cosa. Solo i libri erano ordinati nelle librerie. Lei era terribilmente raffreddata. Tossiva ed era scossa dai brividi. Soffiava sulle dita per scaldarle. Era così sciupata che feci fatica a riconoscerla. Indossava una vecchia giacca da camera. Tuttavia non si lamentava. Mi chiese ansiosamente, con la sua voce roca, notizie dal fronte e fu contenta delle nostre vittorie. Volevo fare un tè ma non trovai neppure un fiammifero. La lasciai che tremava ancora».

La vita è davvero dura a Mosca. Lo si può leggere nei libri di storia, nei lunghi racconti dei mesi e degli anni successivi alla rivoluzione. Ma è più difficile trovare resoconti che riportino quanto sia pesante e difficile anche per gli abitanti del Cremlino, per coloro che solo qualche anno più tardi faranno parte di una burocrazia privilegiata e dispotica. Nel tempo che segue immediatamente la rivoluzione, di quei vantaggi non c’è ancora traccia. Se le condizioni dei cittadini della repubblica dei Soviet sono terribili, quelle dei potenti che ne hanno conquistato la direzione differiscono di poco. L’austerità è la regola alla quale il gruppo dirigente bolscevico si uniforma nella convinzione, forte e radicata, che nelle difficoltà non si può avere nulla più del popolo. Angelica Balabanoff, una dirigente bolscevica che, dopo il 1921, lasciò Mosca e denunciò nei suoi libri le azioni della čeka, la violenza dei gruppi dirigenti e il terrore rosso, non sospettabile quindi di agiografie di qualche tipo, racconta in questo modo un pranzo con Lenin e Nadja qualche tempo dopo l’attentato al capo del Cremlino. In tavola – riferisce Balabanoff – fu messo pane e formaggio e anche una piccola fetta di carne. Lenin ci tenne a precisare: «Lo zucchero me l’hanno portato dall’Ucraina; il pane certi contadini della Russia centrale; la carne me l’ha prescritta il medico e non so dove l’abbiano presa. Vogliono che io mangi carne durante la convalescenza», concluse facendo capire che considerava la cosa inopportuna e persino stravagante.

Non è quindi strano che Inessa, una delle più influenti, se non la più influente donna della Russia rivoluzionaria, nei giorni dell’inverno moscovita non abbia neppure la legna per scaldarsi e viva nel freddo e nelle ristrettezze. E lei, nonostante non sia certo disabituata ai sacrifici, sente il peso di quelle condizioni e si ammala.

Lenin nel suo ufficio al Cremlino è preoccupato. Perché lei non si fa viva? Non un biglietto, non una telefonata. Nonostante si carichi ogni giorno sulle spalle gli enormi problemi di un paese stremato dalla carestia e ancora dilaniato dalla guerra, il pensiero di Inessa non lo abbandona: è abituato a sentirne i passi nel corridoio che conduce al suo appartamento privato, il rapido tocco sulla porta che precede il suo ingresso. Vorrebbe telefonarle, ma il telefono non funziona. Apprende da Polina che Inessa è ammalata e allora le scrive: «Volevo telefonarvi quando ho sentito che eravate malata, ma il telefono non funziona. Ditemi il numero e lo farò riparare». Non riceve alcuna notizia. È troppo sofferente – pensa Vladimir Il’ič – per rispondere anche a una lettera. Oppure non vuole parlare della sua salute perché non ama mostrarsi debole. Dopo due giorni le scrive ancora e il tono della lettera questa volta è ansioso: «Ditemi che cosa c’è che non va. Sono tempi spaventosi. In giro c’è tifo, influenza spagnola, colera… Quanto avete di febbre? Avete bisogno di medicine? Vi prego, ditemelo sinceramente. Dovete stare di nuovo bene».

Le lettere e i biglietti dal Cremlino si susseguono con toni sempre più inquieti: Inessa ha chiamato un dottore? Deve seguirne gli ordini, prendere le medicine prescritte, non uscire di casa, i figli non la devono lasciare, ma stare con lei e informarlo di tutto. Lenin cerca di intervenire, ma senza risultati. Inessa non vuole parlare della sua malattia, preferisce aspettare la guarigione in solitudine. A Vladimir Il’ič non resta che mettersi in contatto direttamente con il medico e con i figli: «Il dottore dice che è una polmonite. Dovete stare davvero attenta. Dite alle vostre figlie di telefonarmi ogni giorno. Ditemi sinceramente di che cosa avete bisogno. Legna per il fuoco? Chi si occupa di accenderlo? Avete del cibo? Chi cucina per voi? Chi si occupa delle compresse contro il raffreddore? Voi non mi rispondete. Non è giusto. Mandatemi anche un bigliettino. Vostro Lenin. P.S. Hanno rimesso a posto il telefono?»

Vladimir Il’ič s’informa anche del numero del piede, vuole procurarle un paio di galosce. Teme che la malattia di Inessa sia grave e che lei glielo nasconda ma, soprattutto, comincia a intuire che qualcosa potrebbe essersi spezzato non solo nel corpo. Forse lui, che ha conosciuto ed è stato vittima della depressione, ne riconosce i sintomi.

Eppure Inessa torna al lavoro. Per decisione del Polit-buro è incaricata di organizzare la Conferenza internazionale delle donne comuniste che il Comintern ha messo in calendario per la fine di luglio del 1920 negli stessi giorni in cui si svolge il suo secondo congresso. Le difficoltà politiche e pratiche sono tante. Deve lavorare quasi da sola, curando ogni fase, dalla proposta di programma all’organizzazione logistica. Lo Ženotdel non ha alcun contatto con i movimenti delle donne comuniste dei paesi occidentali, non c’è stato il tempo per costruirlo. Non possono dare alcun aiuto e contributo alla conferenza neanche le due bolsceviche con un’esperienza internazionale: Alexandra Kollontaj è anche lei malata, Nadja Krupskaja è impegnata nel commissariato per l’educazione. In più c’è la diffidenza degli stessi partiti del Comintern che dovrebbero sostenere quella conferenza. Inessa si rende conto che l’Internazionale comunista non ha alcuna intenzione di fornire risorse e supporto ed è completamente disinteressata all’organizzazione dell’incontro il cui svolgimento diventa particolarmente macchinoso. Il 30 luglio, dopo alcuni giorni di congresso comune a San Pietroburgo, le delegate si recano a Mosca per una sessione di lavori dedicata alla questione femminile, quindi, al termine di quattro giorni di dibattito, tornano nella vecchia capitale con una relazione da presentare alla sessione conclusiva. La discussione a Mosca si concentra soprattutto sul modello organizzativo. Le delegate tedesche, inglesi e svedesi vogliono un’organizzazione delle donne separata dal partito, le francesi non ne vogliono sapere e sostengono che i problemi femminili devono essere rinviati a dopo la rivoluzione. Molte sono sospettose nei confronti del femminismo, che considerano una pericolosa deviazione. Inessa tiene in mano la situazione proponendo con convinzione il modello russo: le donne possono costruire un loro organismo, ma interno al partito. Alla fine la proposta Sovietica prevale. Fra difficoltà e diffidenze, Inessa può consegnare ai bolscevichi un buon risultato e ritenersi soddisfatta. Ma non riesce a provare alcun senso di vittoria: non si regge sulle gambe, la sua grande energia si è come prosciugata. Si sente apatica, indifferente a quel che le accade attorno ed è in preda a una stanchezza che è penetrata nel profondo.

Nella sua ultima foto scattata nell’agosto del 1920 non fa neppure lo sforzo di accennare un sorriso. Non c’è traccia di quelle fantasiose acconciature che abbiamo visto altre volte, gli occhi sono seri, quasi cupi, i capelli corti circondano il viso in modo sciatto, trascurato.

La direzione dell’Internazionale delle donne, dopo il successo della Conferenza, dovrebbe essere affidata a lei, ma lo stesso Lenin che vuole proporre il suo nome, ha dei dubbi: la salute di Inessa è gravemente danneggiata, prima di qualunque nuova importante responsabilità, deve curarsi. Glielo dice con prudenza e con gentilezza, ha capito che Inessa è ormai in uno stato di enorme sofferenza e lui vuole usare ogni riguardo.

 

Chi ha cercato di ricostruire la vita di Inessa Armand ha a questo punto un’altra difficoltà. Deve andare alle origini e alle cause di una malattia del corpo e dello spirito che nell’agosto del 1920 appare preoccupante. Ma non sempre le cause sono immediatamente evidenti o comprensibili. Inessa è sicuramente una donna forte. Lo dimostra la sua vita prima e dopo l’incontro con Vladimir Il’ič. Nei tre anni successivi alla rivoluzione è stata una protagonista della costruzione del socialismo in Russia e, al netto di ogni retorica, ha fatto parte del gruppo di uomini e di donne che hanno cambiato la storia. Il rapporto d’amore tormentato e burrascoso con Vladimir Il’ič si è rivelato capace di affrontare situazioni inedite e difficoltose e di sopravvivere a prove ardue e pesanti. Ora qualcosa però si è inceppato.

Nell’estate del 1920, l’afflizione e l’angoscia prevalgono. Quanto si potrà andare avanti, a quante sofferenze dovranno ancora sottostare gli uomini e le donne di quell’immenso paese?

Lenin ritiene di poter fare e decidere, ma è in grado di incidere meno di quanto pensi. Non perché sia debole, e non sia il capo indiscusso, ma perché le scelte passate determinano senza scampo quelle presenti. E le decisioni precedenti non sono state sempre le più giuste, le più opportune, anche se – come lui si ostina a ripetere – erano inevitabili. I plotoni di esecuzione, le carceri affollate di «traditori»: Inessa non può fare a meno di pensarci. Davvero la rivoluzione non poteva che scegliere una strada terribile e sanguinosa?

Ha deciso di rimanere a fianco di Vladimir Il’ič e di fidarsi di lui. Per questo continuerà a lavorare senza esitazioni, vincendo la stanchezza e andando avanti. Solo questo, tre anni dopo l’Ottobre, può essere il suo modo di amarlo ancora.