Missione pericolosa

Nel luglio del 1912, Franciska Kazimirovna Jankevič, una contadina proveniente da Cracovia, attraversa in treno il confine con la Russia diretta a San Pietroburgo. Con lei, sullo stesso vagone, viaggia un giovane uomo. La contadina, che dai documenti risulta avere ventotto anni, è in realtà Inessa Armand che di anni ne ha trentotto. L’uomo che la accompagna si chiama Georgi Safarov, un armeno che ha frequentato la scuola di Longjumeau ed è considerato fra i fedelissimi di Lenin; anche lui viaggia con documenti falsi.

Il tragitto da Cracovia a San Pietroburgo è lungo. Inessa cerca di leggere, scrive qualche lettera, ma si perde nei pensieri. Anche se quella che si accinge a svolgere insieme a Safarov è una missione rischiosa, non è preoccupata: dopo essere fuggita dal confino di Mezen’, dopo il lavoro svolto clandestinamente per anni a Mosca, l’Ochrana non la spaventa e, una volta in Russia, sarà comunque protetta dagli Armand. Più che dal timore di venire scoperta dalla polizia, i suoi pensieri durante il viaggio sono dominati dall’emozione di ritornare in Russia dopo tre anni, da quando, clandestina, ha attraversato il confine per raggiungere Volodja a Nizza.

Durante quelle lunghe ore di treno, mentre il giovane compagno di viaggio, incurante dei sobbalzi, sonnecchia di fronte a lei, Inessa guarda fuori dal finestrino la campagna russa con i colori dell’estate, si emoziona e si entusiasma alla vista dei campi sterminati delle betulle bianche, che segnalano al viaggiatore l’arrivo in Russia. Il pensiero torna al suo ultimo incontro con Vladimir Il’ič. Aveva immaginato il momento in cui lo avrebbe rivisto. Il ricordo dei giorni di Parigi, del sentimento inatteso che avevano provato e del tempo passato insieme, l’avevano accompagnata fino a Cracovia.

La missione non era nei suoi programmi. Aveva intenzione di stabilirsi a Cracovia, dove Lenin e Nadja si erano trasferiti da qualche settimana. Restare a Parigi era diventato pericoloso, i controlli della polizia stavano diventando sempre più frequenti e il capo dei bolscevichi, dopo la conferenza di Praga, era riuscito a far convergere sulla sua figura l’opposizione non solo dei menscevichi, ma di tutti i rappresentanti dell’Internazionale socialista. Così, nella primavera del 1912, Lenin aveva scelto di trasferirsi a Cracovia.

La città presentava molti vantaggi. Nel cuore della Galizia – una regione che faceva parte dell’impero austro-ungarico e che veniva chiamata «piccola Polonia» – era bella e vivace, aveva un’importante università ed era circondata dalle montagne, fra le quali si poteva godere di meravigliosi paesaggi e di salutari passeggiate. E poi, cosa decisiva, era distante solo una decina di chilometri dal confine con la Russia. Grazie alle contadine, che ogni giorno arrivavano per il mercato e che per una modesta mancia accettavano di portare dall’altra parte ciò che veniva loro affidato, Lenin poteva mandare con più facilità i suoi articoli alla Pravda. Anche le riunioni erano meno complicate giacché i militanti attraversavano agevolmente il confine russo. Per qualche tempo il gruppo parigino si sarebbe diviso: Zinov’ev, la moglie Lilina e il figlio si sarebbero trasferiti a Cracovia con gli Ul’janov, mentre Kamenev sarebbe rimasto nella capitale francese. Inessa si sarebbe ricongiunta a loro qualche settimana dopo.

Quando finalmente era arrivata a Cracovia, aveva colto da subito che in casa Ul’janov il clima non era sereno. Le cose in Russia e nel partito non stavano andando secondo i piani, anzi, sembravano andare nella direzione opposta; la repressione, con un intervento sistematico e ben mirato, stava colpendo i quadri del nuovo partito; nella rete dell’Ochrana non cadevano solo i bolscevichi, ma anche molti menscevichi erano ormai ospiti delle prigioni zariste. Questi ultimi – e ne era indignato – pensavano che responsabile di quegli arresti fosse Malinovskij, che fosse lui a fornire all’Ochrana i nomi e a rivelare i luoghi delle riunioni. Ovviamente Vladimir Il’ič in quelle settimane lo aveva difeso a spada tratta perché – aveva spiegato a Inessa – nutriva assoluta fiducia in lui; ormai aveva un ruolo importante nella direzione del partito e altri incarichi gli sarebbero stati affidati in vista delle elezioni della Duma.

Ma non era solo la repressione a preoccupare Vladimir Il’ič. La fatica fatta per organizzare il partito bolscevico e per mettere in piedi un giornale che sostenesse le sue posizioni non stava dando i frutti sperati. La Pravda, il giornale che aveva rifondato, seguiva una linea diversa da quella di una netta divisione dai menscevichi decisa a Praga. Inessa aveva saputo da Lenin che una cinquantina di suoi articoli erano stati rifiutati. E lui aveva scritto lettere furibonde, che aveva fatto leggere anche a lei: «Perché», aveva chiesto, «avete eliminato il mio articolo sul congresso italiano? In generale non farebbe danno se avvisaste quando non accettate un articolo. Non è per nulla una richiesta eccessiva. Scrivere per il cestino della carta, cioè articoli che vengono respinti, è molto spiacevole».

Le notizie sulle elezioni della Duma, a cui il capo dei bolscevichi attribuiva una grande importanza, non erano meno preoccupanti. I bolscevichi russi, nonostante le decisioni di Praga, avrebbe voluto fare una campagna elettorale comune con i menscevichi. Un’alleanza era necessaria – sostenevano – per un successo elettorale e per aumentare il numero dei rappresentanti dell’insieme dei socialdemocratici che nell’ultima assemblea erano solo diciannove. Lenin non era d’accordo. L’alleanza elettorale avrebbe smentito di fatto la linea approvata a Praga solo qualche mese prima. Non era importante il numero degli eletti quanto le capacità e la fedeltà al partito. Voleva dei rappresentanti nella Duma, ma che rispondessero senza esitazioni e perplessità alla sua strategia.

Per questo Vladimir Il’ič ha deciso di intervenire e il modo lo aveva trovato, aveva spiegato guardando Inessa fisso negli occhi: qualcuno doveva andare clandestinamente in Russia e rimettere a posto le cose nel partito e nel giornale. Qualcuno di assoluta fiducia, che fosse in grado di intervenire secondo le sue direttive e abbastanza esperto da non cadere subito nelle maglie della polizia. Lenin era consapevole che si trattava di un grosso rischio. Ogni giorno riceveva notizia di nuove repressioni. Per questo lui non poteva andarci, lo avrebbero arrestato subito. Non poteva neanche mandare un compagno qualsiasi, per quanto disciplinato e volenteroso, non sarebbe stato all’altezza del compito. E tanto meno vi si poteva recare un dirigente come Kamenev o Zinov’ev. Quei dirigenti andavano preservati per il futuro, per quando sarebbero tornati in patria, per la rivoluzione. Il prescelto doveva avere capacità politiche, conoscenza della situazione, autorevolezza per intervenire fra i compagni e presso la Pravda e, soprattutto, non doveva avere paura di rischiare. Come, per esempio lei, Inessa. Certo il viaggio era pericoloso, ma se se la sentiva… Lui poteva affiancarle un compagno come il giovane Safarov che era appena arrivato a Cracovia con la moglie e che di sicuro sarebbe stato disponibile.

Inessa aveva visto gli occhi di Lenin brillare. L’aveva guardata con affetto e complicità. Seduto al tavolo della cucina, aveva atteso una sua risposta sorseggiando una tazza di tè. Lei gli aveva detto che era una buona idea ed era andata subito a prepararsi. La delusione di lasciare l’uomo che aveva scoperto di amare era stata superata dalla soddisfazione di fare qualcosa di utile. Non c’era stato neppure bisogno di rifare le valigie. Bisognava solo prendere il treno. Qualche giorno dopo, Lenin scriveva a Kamenev: «I due sono già in viaggio, se non saranno arrestati ci saranno molto utili».

Inessa e Safarov raggiungono San Pietroburgo senza essere fermati, ma l’Ochrana sa tutto. L’ha informata Malinovskij, l’uomo che, secondo il capo dei bolscevichi, è ingiustamente sospettato di essere una spia. Se la polizia non arresta subito la coppia è perché vuole osservare fino in fondo che cosa fa, prendere informazioni, conoscerne i contatti.

Inessa mette in conto di essere pedinata e sorvegliata, ma ha deciso di eseguire il suo compito fino in fondo. Deve far cambiare idea agli editori della Pravda, li conosce, è stata lei che, con l’aiuto di Aleksandr, ha messo insieme il gruppo che finanzia il giornale. E deve riportare sulla retta via i bolscevichi, che non stanno rispettando la linea del loro leader.

Il compito si rivela più complesso del previsto. Lenin non è simpatico al partito di San Pietroburgo che, peraltro, è diviso in piccoli gruppi, non collegati fra loro e sfiduciati. I soldi per il viaggio finiscono presto e Inessa è costretta a ricorrere ad Aleksandr con cui mantiene un’intensa corrispondenza. Gli editori della Pravda sono irritati con gli emissari di Lenin, si rifiutano di incontrarli anzi minacciano, se si presenteranno, di buttarli giù a calci dalle scale. Dicono di avere buoni motivi per non pubblicare alcuni articoli inviati da Cracovia: se le autorità li dovessero giudicare eversivi o pericolosi, impedirebbero l’uscita del giornale, è già avvenuto e non vogliono che accada ancora. C’è solo uno spiraglio prima di considerare fallito il tentativo di conquistarli alle direttive di Lenin. Konkordija Samojlova, la segretaria di redazione del giornale, che si occupa in particolare dei servizi dall’estero, è una femminista che Inessa conosce bene, e grazie al suo diplomatico intervento i due inviati riescono a ottenere un colloquio. I risultati sono scarsi. Il giornale rivendica il diritto di non pubblicare articoli inopportuni e quelli di Lenin – le dicono – qualche volta lo sono. Forse – spiegano ancora – il capo dei bolscevichi non ha completamente chiara la situazione a San Pietroburgo e in Russia. È bene che se ne renda conto.

Con il partito va meglio. Dopo lunghi incontri, i due messaggeri riescono a influenzare il percorso elettorale e, alle elezioni della Duma, un gruppo di bolscevichi – come Lenin ha chiesto – si presenta da solo, separato dai menscevichi.

Intanto l’Ochrana aspetta solo il momento opportuno per intervenire e questo si presenta il 14 settembre quando i due convocano una riunione con la Società femminile di mutuo soccorso. La polizia circonda il palazzo dove si svolge l’incontro e arresta quattordici persone fra cui Inessa, che cerca di qualificarsi come Franciska Kazimirovna Jankevič, ma alla fine è costretta a rivelare la sua identità. Racconta all’Ochrana di essere tornata in Russia per organizzare il ritorno a scuola dei suoi figli, ma non viene creduta; nell’appartamento che la ospita è stato trovato materiale di propaganda, documenti che riguardano la conferenza di Praga: prove inconfutabili di un’attività illegale e clandestina. E poi, dietro la polizia, c’è Malinovskij che fornisce informazioni dettagliate.

A Inessa, ancora una volta, toccano il carcere, l’isolamento, il freddo che fa ammalare, il cibo immangiabile, il silenzio, la rabbia. Le è concesso di vedere Aleksandr, di avere notizie dei figli, di ricevere dei libri, ma la salute si indebolisce e, dopo alcuni mesi, appaiono i primi segni della tubercolosi.

In prigione apprende, nel novembre del 1912, del successo dei bolscevichi alla Duma. Al parlamento russo è stato eletto un piccolo gruppo di bolscevichi fra cui Roman Malinovskij, proprio come Lenin voleva. Il suo lavoro – di questo, almeno, può essere soddisfatta – è stato utile.

Mentre Inessa aspetta il processo in carcere, a Cracovia Vladimir Il’ič continua la sua vita di sempre: studia, scrive, fa lunghe passeggiate, s’informa dello stato della rivoluzione dai tanti russi che varcano il confine, apprende che Inessa è stata arrestata e viene a sapere da un suo emissario che ha svolto un ottimo lavoro. Ma ha svolto bene il suo incarico anche Malinovskij che, facendo arrestare in pochi giorni diciotto militanti, ha assestato un duro colpo all’organizzazione bolscevica di San Pietroburgo.

Anche se si è preparati e si conoscono i modi per sopravvivere, sei mesi in una prigione zarista sono terribili. Aleksandr è preoccupato, anche perché ad ogni visita gli pare che Inessa stia peggio. Usando tutta la sua influenza e quella della sua famiglia, riesce ad arrivare a un compromesso con le autorità: paga una cauzione di ben 5400 rubli per fare uscire Inessa almeno fino al processo che dovrebbe celebrarsi in agosto. Si tratta di una cifra enorme, il prezzo di un’intera foresta venduta in tutta fretta dagli Armand, l’equivalente del salario quotidiano di diecimila lavoratori, ma lei è di nuovo libera e può tornare con i figli nella grande casa di Puškino, dove viene accolta con affetto e ammirazione. Cugini, zii, nipoti e cognati sanno che collabora con Lenin e che lui si fida ciecamente di lei.

La salute di Inessa migliora rapidamente e può fare con i figli e Aleksandr quel viaggio sul Volga fino a Sebastopoli che ha sempre desiderato. Ricorderà quei giorni qualche tempo più tardi in una lettera a Inna con parole di nostalgia: «Com’è bello il Volga. Specialmente nella prima mattina a Sebastopoli. Ricordo quando con Saša sono andata a incontrare Fedja. Era ancora buio e l’aurora arrivava lentamente. Quando sono giunta sulla riva c’era già la luce e il fiume e il cielo avevano un incredibile tono di rosa. Ho davvero molto amato la nostra vacanza a Sebastopoli».

La paura, però, non l’abbandona. Anche se è felice di stare con i figli, e ha ritrovato la rassicurante presenza di Aleksandr, è consapevole che sarà condannata e di nuovo mandata al confino, in quella gelida Mezen’ da cui era fuggita qualche anno prima. Soprattutto teme di non rivedere Vladimir Il’ič e di non poter più lavorare insieme a lui. Apprende in quei giorni che Lenin e Nadja non sono a Cracovia, ma in vacanza a Poronino, un paesino sui Carpazi che il capo dei bolscevichi definisce «meraviglioso», «pura Svizzera». Sa che con lui ci sono Zinov’ev e la sua famiglia, che è arrivato anche Kamenev e che lì si svolgeranno riunioni importanti fra cui quella del Comitato centrale del partito bolscevico. E lei non ci sarà, di nuovo prigioniera nelle terre ghiacchiate del mare del Nord.