Una telefonata
È sera inoltrata, nella casa ai piedi della montagna il camino è ancora acceso e Inessa è concentrata nella lettura quando lo squillo del telefono rompe il silenzio. All’altro capo del filo entusiasta ed eccitato Vladimir Il’ič chiama da Zurigo: «È scoppiata la rivoluzione», urla, «il popolo russo ha cacciato lo zar».
Inessa è stupita. Nei giorni precedenti le erano arrivate delle voci, ma aveva imparato a non dare troppo credito a quel che raccontavano gli esuli russi. Possibile che il sogno della rivoluzione sia diventato realtà? Possibile che quello per cui hanno tanto lottato sia avvenuto? E proprio allora, quando non se lo aspettavano? Ha mille domande da fare, ma Lenin è un fiume in piena. Le ha scritto nel pomeriggio – continua a raccontare infervorato – appena ha saputo la notizia, poi ha pensato che era meglio telefonare, forse avrebbe ricevuto il suo telegramma in ritardo, e invece lui voleva dirglielo immediatamente perché non c’era da perdere un’ora o un minuto. Neppure lui se lo aspettava, certo sapeva – quante volte glielo aveva detto? – che la Russia era matura per la rivoluzione, ma in quei giorni stava pensando a tutt’altro. Invece è avvenuto, e ora ci sono tante cose da fare, da decidere.
Inessa sente montare l’eccitazione di Vladimir Il’ič, capisce che ora si deve decidere «che fare», ma non riesce a inserirsi nel flusso di parole e non può far altro che tacere. Lenin, a un certo punto, si accorge del silenzio dall’altra parte e si interrompe. Lo interpreta come manifestazione di freddezza. «Avete sentito?» le ripete dispiaciuto e seccato, alzando il tono di voce, «abbiamo aspettato tanto e il momento è arrivato, ora tocca a noi. Dobbiamo partire al più presto. Che dite? Volete pensarci? Forse avete delle ragioni particolari, forse non state bene…»
Lenin si chiede perché Inessa non condivida la sua impazienza. Quando ha saputo della rivoluzione, ha immediatamente provato l’impulso di parlare con lei, di raccontarle ogni particolare, di farla partecipe dei suoi pensieri e dei suoi nuovi progetti. In quel momento le tempeste della loro relazione si sono quietate, le divergenze, le incomprensioni, i litigi, i timori degli ultimi mesi dissolti. «Ci sono tante cose da fare», continua a ripetere. E questa volta – insiste – per la rivoluzione vera, non per un sogno o una speranza. E anche se non avverte sintonia, le dice che devono vedersi: è necessario che lei riprenda i suoi contatti, che comunichi a tutti gli esuli che il momento tanto aspettato è arrivato, deve, deve… come sempre gli vengono in testa mille cose da organizzare. Ci vuole qualcuno che metta insieme articoli, telegrammi, informazioni, che legga i giornali stranieri, li traduca e fornisca a chi ancora non sa le informazioni su quanto è accaduto. Occorrerebbe trovare un piccolo gruppo, ma forse basta anche una sola persona che sia davvero capace. E chi meglio di lei?
A Inessa scappa un sorriso. Vladimir Il’ič è inguaribile. Continua a pensare a lei come alla compagna fidata e disponibile, che segue i suoi progetti e i suoi schemi accettando di volta in volta le soluzioni che lui propone. Benché il telefono costi – sa bene che Lenin e Nadja sono ridotti davvero in povertà e si meraviglia di quella telefonata così lunga – lui continua a raccontarle nei particolari quella giornata storica.
Era con Nadja nella loro stanza nella Spiegelgasse, quella che avevano affittato da un ciabattino, e avevano appena terminato un pranzo veloce. Nadja stava sbrigando alcune faccende e lui aveva deciso di uscire, di andar via da quella stanza soffocante satura del tanfo della vicina fabbrica di salsicce. Stava per andare in biblioteca quando avevano suonato alla porta. Era Bronski, un giovane compagno polacco. Era affannato e gli aveva comunicato con concitazione: «Avete sentito? In Russia c’è la rivoluzione». «Vi ricordate quante volte l’ho detto, quante volte l’ho scritto?», chiede a Inessa, ma non aspetta la risposta. «Dopo il 1905 il popolo russo si sarebbe ribellato di nuovo. Lo sapevo ed è successo. Sì, anch’io sul momento non ci ho creduto, anche perché il compagno Bronski era poco preciso. Sono riuscito solo a capire che la notizia era stata pubblicata sulla Neue Zurcher Zeitung, il quotidiano di Zurigo. Allora ho deciso di non aspettare per prendere il tè, ho detto a Nadja di mettersi il cappotto e siamo scesi di corsa giù nel paese per andare all’edicola. Abbiamo trovato una gran folla: i compagni, gli esuli erano già tutti lì che cercavano di leggere e di capire. Era tutto reale. Quello che mi aveva detto Bronski era tutto vero». La telefonata non può durare oltre, così conclude chiedendo a Inessa di raggiungerli a Zurigo.
Quella notte Inessa è molto turbata. Se la notizia della rivoluzione è vera, molte cose sono destinate a cambiare. Sa che Lenin ha ragione: devono trovare un modo per andare in Russia e, se ci torneranno, saranno di nuovo insieme. Sono tante le domande che non la fanno dormire. La Russia è davvero pronta per cambiare? E loro, i bolscevichi saranno in grado di dare al paese quella guida di cui ha bisogno? Il partito, il partito che hanno costruito, risponderà alle domande del popolo? E una volta lì, in patria, quale accoglienza troveranno? In che modo, inoltre, potrà evolvere il rapporto tra lei e Lenin? Che cosa ne sarà di loro nella nuova Russia?
Riflette sugli anni appena trascorsi: le fatiche, le notti passate a tradurre, i viaggi interminabili, le lotte, le contese.
Ogni tanto, quando siede al suo scrittoio, di fronte alla finestra dalla quale vede la grande distesa chiara del lago, le capita di guardare le lettere di Valdimir Il’ch che lei ha messo in ordine. Sono molte e questa volta – è sicura – Lenin non le vorrà indietro com’era accaduto tre anni prima. Allora temeva di essere compromesso, dopo è stato ben attento a non fare alcun accenno al passato, al loro amore e al dolore della rottura, anche se non ha mai smesso di dimostrarle attenzione e affetto. «Vorrei dirvi qualche parola di amicizia e tenervi stretta la mano. Mi avete scritto che le vostre mani e i vostri piedi sono gonfi per il freddo. È terribile. Ricordo che anche altre volte le vostre mani sono state gelide. Perché arrivare a questo?» Si era mostrato preoccupato per la sua salute e – convinto assertore dell’attività fisica – le aveva chiesto: «Andate a sciare? Dovreste proprio… è così bello sulle montagne d’inverno… c’è il profumo della Russia!» Aveva anche capito la sua amarezza: «Le vostre ultime lettere erano così piene di tristezza e mi hanno suscitato tali rimorsi che mi riesce difficile ritrovare una serenità. Vorrei chiedervi di non chiudervi nella solitudine, in una piccola città dove non c’è alcuna vita sociale… di strapparvi da quel luogo».
Vladimir Il’ič sapeva che lei preferiva non incontrarlo e ne era dispiaciuto. C’è una lettera che lei aveva riletto spesso nella quale sembra lasciarsi andare, dalla quale traspare l’afflizione per la scelta di vivere lontana da lui. «Vi prego», aveva scritto, «quando sceglierete un posto dove risiedere, non chiedetevi se è un posto nel quale per me è possibile raggiungervi. Sarebbe davvero assurdo, ridicolo e sconsiderato se condizionaste la scelta della vostra residenza alla mia possibile presenza».
Altre volte, com’era nel suo stile, era stato rude e sbrigativo. Le chiedeva di seguire i suoi progetti, di fare delle traduzioni in tempi rapidi, e la rimproverava se lei era meno veloce del previsto, si mostrava irritato dalle critiche che qualche volta lei osava fare.
Ai suoi scatti d’ira, alla sua rudezza in quei mesi lei aveva replicato sempre con il silenzio. Sapeva che lo avrebbe colpito più che con qualunque risposta, anche la più aggressiva e sarcastica. E Vladimir Il’ič si era preoccupato non poco. «Come mai non ricevo una vostra riga da tanto tempo? Mi avete promesso che mi avreste scritto ‘domani’ circa una settimana fa e ancora non ho ricevuto una parola». Quando aveva capito che il silenzio di lei era una ritorsione contro la sua abitudine a impartire ordini, a rimproverare, allora aveva cercato di minimizzare: «Si può immaginare che qualcuno possa adombrarsi per una così piccola cosa? Incredibile! D’altronde questo mutismo completo… è strano».
Poi c’era quella lettera in cui – gesto di suprema fiducia – le aveva annunciato che le avrebbe mandato la cassa del partito perché nelle sue mani sarebbe stata sicura.
Ora c’è la rivoluzione. Vladimir Il’ič le ha chiesto aiuto. Ma poi?
Nei giorni successivi l’ansia di Lenin non si placa: gli vengono in mente tante soluzioni per un rapido ritorno in Russia, ma sono una più folle e spericolata dell’altra. Perché – dice a Inessa – non va in Inghilterra e non indaga se sia possibile trovare un passaggio garantito per lui? A lei sembra un’ipotesi assurda. Si mostra tiepida e indecisa, gli fa capire con gentilezza che non è il caso. Lui è deluso, è suo dovere – pensa – tentare tutte le soluzioni, ma poi dimentica rapidamente la soluzione inglese e le chiede di cercare senza fare il suo nome uno svizzero o un russo che gli ceda il proprio passaporto, a Clarens, il paese in cui Inessa ora vive. Inessa gli spiega con pazienza che non è realistico. Allora le suggerisce di andare al consolato tedesco, di pagare, se necessario, degli avvocati. Poi la prega di convincere sua cognata Anna – è pur sempre un’Armand – a recarsi presso l’ambasciata russa di Berna. Oppure – ecco un’altra soluzione – si potrebbe trovare un socialdemocratico russo che chieda ai tedeschi il passaggio di un vagone di esuli rivoluzionari fino a Copenaghen.
Inessa mantiene un atteggiamento concreto e anche se con qualche fatica smonta i suoi piani uno per uno: l’ambasciata tedesca non farà nulla per un nemico e l’ambasciata russa si guarderà bene dal fornire il lasciapassare a un disfattista. Anche da lontano percepisce come le idee di Vladimir Il’ič, le sue lettere, le sue telefonate siano dettate dalla disperazione e dall’impotenza. Sta perdendo il controllo, pensa. Comunque questa volta lei non lo asseconderà, non sarà comprensiva. L’ultima idea del capo dei bolscevichi è quella di utilizzare il passaporto di uno svedese e fingersi sordomuto per non parlare alla frontiera e sfuggire ai controlli. Anche Nadja, che lo ascolta giorno e notte, ormai lo prende in giro. Quando lui le espone nei dettagli il piano dello «svedese sordomuto» ride di cuore. «Ti addormenti, vedi in sogno i menscevichi, urli ‘farabutti’ e il piano salta», dice divertita.
Vladimir Il’ič è esasperato e a un certo punto esplode. Vede attorno a sé troppa lentezza, non sopporta la ragionevolezza di Nadja e di Inessa. «Proprio non vi capisco. Secondo me oggi tutti dobbiamo avere una sola idea: partire al più presto. E tutti invece attendono non so che cosa». Lo preoccupa soprattutto l’atteggiamento di Inessa. Perché quella donna, che ha risolto problemi ben più difficili, non ha intenzione di risolvere quello di un viaggio in Russia? Gli pare che dietro la prudenza della compagna Armand si celi un diniego a ricostruire la complicità del passato, la sintonia che li aveva fatti lavorare così bene insieme. Che neppure la notizia della rivoluzione abbia fatto crollare il muro che c’era fra di loro.
I mesi che avevano preceduto l’annuncio della rivoluzione erano stati faticosi e duri per entrambi. Lenin aveva vissuto con Nadja a Zurigo, in una camera nella Spiegelgasse, per la prima volta nelle ristrettezze se non addirittura in povertà. Sua madre e sua suocera, dalle quali avevano sempre avuto un sostegno economico, erano morte, sua sorella, anche lei attenta e solidale, era esiliata ad Astrakan. Lenin passava le sue giornate dominato dall’angoscia e dalla disperazione. Sapeva che in Russia qualcosa si stava muovendo, sentiva crescere ogni giorno dentro di sé un’energia che però non sapeva come e dove convogliare se non in impeti rabbiosi contro tutti, in scritti furibondi, in scontri politici accesi e inutili con chiunque venisse in contatto con lui. Nadja lo chiamava «lupo bianco» e lo sopportava con l’usuale pazienza, Inessa si teneva a distanza e Lenin sentiva il peso di questa separazione. Le scriveva proponendole traduzioni, articoli, progetti e si arrabbiava con lei. Era ferito dall’indifferenza di Inessa che sembrava considerarlo solo un residuo della vita passata.
Anche la compagna Armand in quei mesi aveva sofferto di una profonda depressione. La tristezza e la sensazione di fallimento l’avevano spinta a isolarsi fra il lago e le montagne. Motivi di sconforto e di malinconia, ne aveva tanti: non vedeva i figli da anni e non li avrebbe visti a lungo, pensava con una stretta al cuore al piccolo Andrej che, ormai adolescente – lo dicono le lettere da Puškino – ha bisogno di cure. Varvara e Inna sono due donne con progetti e sogni. Inessa si rende conto dalle loro lettere che stanno scoprendo la vita senza di lei. E negli ultimi anni, sempre in esilio, ha seguito poco le scelte e i percorsi di Fëdor e Saša. Pensa di aver fatto molti sacrifici per la rivoluzione e per Vladimir Ilch e non se ne pente, ma non può fare a meno di trarre un bilancio che le sembra fallimentare: è sola, impotente nell’esilio svizzero, con poche possibilità di tornare in patria.