Nel carcere dello zar
«Fui svegliata la mattina da un terribile rumore e trovai la polizia nella nostra stanza che metteva tutto sottosopra, anche i letti di noi bambini. Mia madre era in piedi al nostro fianco assolutamente calma. Mi sorrise e mi fece segno di non piangere». Così Inna, la terzogenita di Inessa, che all’epoca aveva sei anni, ricorda quel giorno del febbraio 1905 quando, alle quattro del mattino, la polizia fa irruzione nell’appartamento dove abita con la madre e lo zio Volodja. Mentre i figli più grandi sono stati informati della possibilità dell’irruzione, i più piccoli, Varja e Andrej, iniziano a piangere. «Non capivano che cosa stesse avvenendo», dice Inna.
La polizia cerca armi e materiale illegale. La stanza di Vanja, uno studente, figlio di un servitore di casa Armand, che l’illuminata famiglia ha fatto studiare e che viene ospitato da Inessa nell’appartamento dell’Arbat perché la aiuta nel lavoro politico clandestino, è piena di volantini e libri proibiti. Nella stanza di Volodja e Inessa, la polizia trova un revolver e delle pallottole. Probabilmente appartengono a Vanja che, secondo le indicazioni del partito socialista rivoluzionario, se necessario, può usare le armi e l’esplosivo. Inessa e Volodja, socialdemocratici, sono contrari. Vengono comunque arrestati tutti e tre. Prima di uscire, Inessa fa in tempo a sussurrare a Inna: «Non dire a nessuno che sono stata arrestata». E la bambina mantiene il segreto.
Nei mesi precedenti, dopo avere aderito al partito socialdemocratico Inessa si è impegnata senza sosta nella militanza: correndo più di qualche rischio ha organizzato riunioni, fatto conoscere le idee dei leader in esilio, distribuito i libri portati clandestinamente dalla Svizzera e il materiale di propaganda. I fermenti di ribellione si stanno diffondendo e a Mosca è sempre più facile incappare in raduni spontanei nelle strade. La rabbia e la voglia di rovesciare il sistema zarista sono venuti allo scoperto. E l’apparato repressivo reagisce con più controlli e maggiore violenza. Le manifestazioni contro lo zar hanno spesso un esito cruento. Lo stesso Vanja – lo studente di casa Armand – è stato ferito in uno scontro di piazza e si è presentato a casa completamente coperto di sangue. «Non ci sono parole per dirti della mia paura», scrive in quell’occasione Inessa ad Aleksandr, «i bambini non potranno mai dimenticare».
Le preoccupazioni del regime sono fondate. La fiamma della ribellione sta galoppando con una rapidità sorprendente da una parte all’altra dello sconfinato territorio russo. Nel 1904 le proteste di piazza erano state numerose, le fabbriche si erano fermate a più riprese, gli studenti avevano organizzato cortei, i ferrovieri aderito all’azione rivoluzionaria nata dai contadini. Nel 1905 le agitazioni continuano.
La causa iniziale dell’insofferenza di tanta parte del popolo è stata la guerra. La Russia, in conflitto con i giapponesi, ha cercato di impressionare il nemico mandando nei mari dell’est la sua potente flotta che, però, è stata in gran parte affondata. Dopo la prima sonora e inaspettata disfatta, sono seguite una sconfitta dopo l’altra e la fiamma del patriottismo, che si era levata alta all’inizio del conflitto, alla notizia delle battaglie perdute, alla conta dei morti e alla vista dei treni che tornavano indietro carichi di feriti, si è rapidamente spenta. Al suo posto, sono subentrate indignazione e rabbia contro un sistema di governo incapace di rinnovamento e uno zar che si è dimostrato ottuso.
Poi il 9 gennaio del 1905 era arrivata una terribile notizia da San Pietroburgo. La polizia zarista ha ucciso centinaia d’innocenti che, guidati da padre Gapon – un pope che aveva fondato una sorta di sindacato chiamato Assemblea degli operai russi – si sono recati al Palazzo d’Inverno per chiedere al governo migliori condizioni di vita. I gendarmi hanno sparato sui dimostranti. La manifestazione si è trasformata in una carneficina, un evento che si rivelerà profondamente traumatico non solo per San Pietroburgo, ma per tutta la società russa: la domenica di sangue. «Per il fatto che fosse pacifica e disarmata, e convinta che il proprio progetto fosse stato accolto», scrive Hélène Carrère d’Encausse nella sua biografia di Lenin, «la folla non tenne conto degli avvertimenti, né dell’ordine di disperdersi che le era stato intimato. Proprio per il fatto che le autorità non avevano ascoltato e compreso i dimostranti, le truppe che li fronteggiarono fecero fuoco e, spaventate dai manifestanti, che non lo erano di meno, provocarono uno spaventoso massacro. La domenica della marcia pacifica del popolo verso il suo sovrano, si trasformò nel giro di qualche ora nella ‘domenica di sangue’, la domenica della rottura fra il popolo e lo zar. Gapon la riassumerà in questo tragico motto: ‘Non ci sono più né Dio né zar’».
La domenica di sangue costituisce un punto di svolta. Quando l’indignazione per le centinaia di morti innocenti si estende da San Pietroburgo a Mosca, provoca nuove tensioni, sommovimenti, scioperi, manifestazioni. Inessa che, continuando il suo lavoro clandestino, è consapevole di quanto sia tesa la situazione si comporta con prudenza. «Sulle sponde del fiume Moscova tutti hanno interrotto il lavoro», racconta ad Aleksandr con cui mantiene una fitta corrispondenza nella quale le dettagliate notizie sui figli si intrecciano a quelle politiche e sociali, «non solo le fabbriche, ma anche i laboratori e le piccole industrie come le lavanderie. Si sono fermati anche i tipografi, il che significa che nessun giornale è stato inviato a San Pietroburgo».
Anche a Mosca la polizia spara sui manifestanti e scopre, dalla identificazione dei cadaveri, che socialdemocratici e socialrivoluzionari stanno marciando uniti. Qualche giorno prima dell’arrivo della polizia nell’appartamento di Inessa e Volodja, Ivan Kaljaev, socialista rivoluzionario, uccide con una bomba il governatore generale di Mosca, il granduca Sergej Aleksandrovič Romanov. La conseguenza è che il ministro degli Interni intensifica ulteriormente la repressione ed estende le retate.
Se la paranoia degli zaristi è al suo culmine, l’immagine che Inessa cerca di trasmettere – quella di madre e signora della borghesia – per coprire il suo lavoro politico non può reggere a lungo alle indagini accurate della gendarmeria. E infatti l’irruzione nel suo appartamento alle prime ore del mattino non la trova impreparata. L’ha messa in conto e ha chiesto ai figli grandi di occuparsi dei piccoli nell’eventualità di una sua assenza.
Dopo l’arresto viene separata da Volodja e da Vanja. I due uomini vengono rinchiusi nella locale prigione di Mjasnickaja, mentre lei è condotta a Basmannaja, un carcere femminile, che dopo i numerosi disordini, è stato aperto anche agli uomini. Qui trova una massa di violenti che urlano giorno e notte. «È peggio di quanto pensassi, sono in mezzo agli ubriaconi. Durante la notte questi debosciati vengono portati all’interno, picchiati senza pietà e sbattuti in cella. Sono precipitata dal paradiso all’inferno», scrive sconvolta. Ha paura, teme sia le guardie che i detenuti e non riesce a chiudere occhio. E poi è preoccupata per Volodja che ha una salute precaria; è malato di tubercolosi ed è stato rinchiuso in un carcere noto per le basse temperature e le cattive condizioni igienico-sanitarie.
L’appartenenza al partito socialdemocratico, più moderato e contrario ai metodi violenti del partito socialista-rivoluzionario, non sarebbe bastata a farli uscire dalla prigione. Il regime, di fronte al dilagare delle proteste, non ha voglia di fare distinzioni troppo sottili. Inessa, per quanto impaurita, non è una donna povera, analfabeta o inconsapevole dei suoi diritti come la maggior parte di coloro che si trovano a Basmannaja. Inoltre fa parte della potente famiglia Armand e questo la consola, le dà forza. Sa bene che, fuori dal carcere, Aleksandr sta facendo il possibile per ottenere il suo rilascio. Nelle lettere che gli invia dal carcere lo rassicura. «Riguardo alle tue premure per la mia liberazione non affannarti troppo: io mi sento bene, sono in buona salute… Riguardo all’interessamento presso il governatore generale non so cosa dirti: se questo è il normale procedimento per la liberazione su cauzione allora rivolgiti a lui, ma se questo è ‘un riguardo particolare’ allora meglio di no». Sa anche che contro di lei c’è solo il ritrovamento di un revolver: non è poco, ma non dimostra la partecipazione a manifestazioni eversive o ad attentati.
Dalla cella scrive al governatore e chiede di essere trasferita in un’altra prigione o di essere messa in isolamento. Ottiene il trasferimento in una cella distaccata e qui sperimenta ciò che non immaginava: una condizione, se è possibile, peggiore della precedente, che rischia di minare gravemente anche il suo equilibrio psichico. Il silenzio assoluto la annichilisce, annulla ogni spinta vitale. Passa le ore sperando in un rumore, un passo, una voce, ma nessuno parla, anche le guardie, per regolamento, non dicono una parola. Il giorno e la notte si susseguono senza alcuna distinzione. Si ammala ed è costretta a scrivere ancora al governatore per chiedere di poter godere di qualche minuto d’aria in più e di poter scambiare almeno qualche parola con gli altri carcerati.
È difficile capire come, ma Inessa riesce a scrivere delle lettere e a farle arrivare a destinazione. Il destinatario è sempre Aleksandr. Tornato da un viaggio in Oriente, si trova adesso a Puškino, con i figli, e da qui le risponde con un calore che sembra non tenere conto del tradimento di lei. Le dice che farà di tutto per liberarla. Lei spera, ma sente che sta perdendo energie, si aggrappa ogni giorno alle poche attività che le sono permesse, pensa ai figli. Scrive ad Aleksandr: «Quando ero libera, con i ragazzi avevamo progettato un viaggio sul Volga e di visitare i laghi della Finlandia. Se vuoi e hai dei soldi, potresti realizzare tu questo sogno». E aggiunge: «Chiedi ai bambini di raccogliere nel bosco alcuni fiori di campo e mandameli nello stesso modo in cui mandi le lettere. Ho così voglia di fiori selvatici». Le lettere di Aleksandr la informano anche su cosa sta succedendo fuori dalla prigione, come sta andando la guerra e come procede la spinta verso la rivoluzione. Il sangue, la violenza, le sofferenze che ha visto per le strade di Mosca la portano a riflessioni amare. «Mi dicono», scrive ancora ad Aleksandr, «che la sconfitta della guerra è imminente e questo è un bene per la rivoluzione Ma quando penso alla gente affamata che deve pagarne il prezzo, allora mi prende una terribile paura e mi sembra che li stiamo portando verso il disastro. Dobbiamo al più presto liberarci da questo giogo dannoso e funesto. C’è una sola via da percorrere…»
Alla fine la famiglia Armand riesce a spuntarla. Dopo tre mesi di detenzione, il 3 giugno, Inessa è di nuovo libera e anche Volodja e Vanja escono dal carcere. Purtroppo le condizioni di salute del primo si rivelano peggiori del previsto: la tubercolosi si è aggravata. Per questo deve, secondo le usanze dell’epoca, lasciare il clima freddo e ostile della Russia e andare a curarsi nel sud dell’Europa o sulle montagne svizzere. Inessa dovrebbe accompagnarlo, ma non vorrebbe. Non ha visto i figli per molto tempo, le piacerebbe stare con loro e riprendere la militanza politica. Solo dopo qualche giorno si decide a partire perché capisce che Volodja ha bisogno di lei. Avviene così che nel luglio del 1905, proprio nel momento in cui la storia in Russia sembra iniziare un nuovo corso, Inessa è lontana dal cuore degli eventi. Non assiste coi suoi occhi alla nascita dei Soviet. Apprende con ritardo dell’ammutinamento della corazzata Potëmkin e dello sciopero generale dei ferrovieri che ha bloccato l’immenso paese. Si trova a Nizza quando legge che lo zar si è piegato ed è stato costretto a concedere il suffragio universale.