Svizzera amara
Eppure, alla fine dell’estate, mentre il primo conflitto mondiale è in corso con tutta la sua sanguinosa drammaticità – l’Austria ha invaso la Serbia, i tedeschi, dopo aver dichiarato la guerra alla Russia, sono entrati in Belgio e nel Lussemburgo, per spingersi nel nord della Francia fino a fermarsi nel settembre del ’14, sconfitti nella celebre battaglia sulla Marna – Inessa, Vladimir Il’ič e Nadja hanno ripreso una vita in comune.
La guerra, in cui troveranno la morte nove milioni di soldati e sette di civili, non cambia molto la quotidianità dei coniugi Ul’janov e di Inessa, tutti trasferiti nella neutrale Svizzera. Le loro giornate non appaiono toccate dalle battaglie che, solo a qualche centinaio di chilometri da loro, dilaniano l’Europa.
A Berna – com’era stato prima a Parigi, a Cracovia, a Poronino – i tre sono vicini di casa e si frequentano riscoprendo la vecchia intimità. Nadja racconta quei giorni con lo stesso tono di sempre: «La stagione fu in quell’anno magnifica. Vivevamo a Distelweg, piccolo villaggio luminoso e tranquillo sul margine della foresta di Berna, che si estende per parecchi chilometri. Di fronte a casa nostra abitava Inessa, a cinque minuti gli Zinov’ev, a dieci gli Šklovskij. Vagabondavamo per ore intere per i sentieri della foresta ricoperti di foglie morte. Ci trovavamo di solito in tre, Vladimir Il’ič, Inessa e io. Il’ič ci esponeva il suo piano di lotta sul fronte internazionale. Inessa si appassionava sempre con lo stesso entusiasmo alle questioni politiche. Partecipò direttamente allo sviluppo della lotta, tenendo la corrispondenza, traducendo vari documenti in inglese e francese, studiando i materiali, prendendo abboccamenti con varie persone. Qualche volta restavamo per molto tempo seduti al sole sul declivio della collina coperta di cespugli. Il’ič abbozzava il piano dei suoi discorsi e dei suoi articoli, io studiavo l’italiano su un manuale di Toussain. Inessa cuciva una gonna e si riscaldava, deliziandosi al sole di autunno: non si era completamente rimessa dopo il periodo di detenzione». Le tempeste sentimentali sembrano cessate senza aver scalfito un’amicizia che appare forte come nel passato.
Ma che cosa è successo? Com’è possibile che la distanza, all’apparenza definitiva, sia stata di nuovo ricucita? Come in passato sono stati gli eventi della storia a riunirli. L’arrivo a Berna per i coniugi Ul’janov non era stata una libera scelta. Malgrado Lenin avesse previsto lo scoppio del conflitto mondiale, non aveva pensato che, dopo la dichiarazione di guerra alla Russia, sarebbe stato necessario lasciare Cracovia che era parte dell’impero austroungarico e quindi ormai territorio nemico. Era avvenuto così che le autorità austriache, dopo aver controllato per qualche tempo la vita del capo dei bolscevichi che ritenevano una spia, per maggiore sicurezza lo avevano arrestato. Era stato rilasciato dopo quindici giorni grazie all’intervento dei deputati socialisti austriaci che si erano fatti garanti presso le autorità e avevano fatto notare loro che Lenin, un nemico dello zar, non costituiva alcun pericolo per l’impero. Una volta fuori dal carcere, con i soldi recuperati in tutta fretta da Inessa, Lenin e Nadja erano riusciti a raggiungere la Svizzera.
Anche Inessa, dopo la partenza dei figli aveva avuto molte difficoltà. Come cittadina russa sul suolo austriaco era una nemica. E anche Parigi le era preclusa. In una Francia alleata della Russia una bolscevica nemica degli zar sarebbe stata nel mirino dell’Ochrana. Per questo era andata ad abitare a Montreux sulle montagne davanti al lago di Ginevra, mettendo, questa volta, una certa distanza tra sé e Lenin.
Aveva sempre amato le montagne e i laghi svizzeri, dove era stata altre volte. In quei paesini fra l’acqua e le montagne si sentiva a casa, poteva fare le sue passeggiate, guardare il lago, frequentare la libreria Rubakin in cui si organizzavano conferenze e serate musicali, e si poteva conversare e discutere con un gruppo di intellettuali bolscevichi che veniva chiamato «gruppo di Baugy» dal nome di una località vicina.
Il suo umore in quella fine estate del 1914 non era dei migliori, non solo per il ricordo ancora recente del disagio vissuto a Bruxelles, ma anche perché sapeva che tornare in Russia era ormai impensabile; non avrebbe visto i figli per molto tempo, non ci sarebbero state altre vacanze «frivole» e spensierate. Era così triste che non riusciva neppure a spedire ai suoi ragazzi lontani le lettere che pure aveva iniziato a scrivere nello stesso giorno in cui li aveva lasciati. E non se la sentiva di riprendere, dopo l’umiliazione subita a Bruxelles di cui lo riteneva responsabile, un contatto sereno con Vladimir Il’ič che, invece, continuava a inviarle messaggi affettuosi. «Mia carissima amica, i miei migliori auguri per la rivoluzione che comincia in Russia», le aveva scritto dopo l’entrata in guerra del loro paese.
Poi Kamenev le aveva fatto sapere che Lenin era stato arrestato, che Nadja era preoccupata, che i socialisti austriaci avrebbero fatto di tutto per liberarlo, ma che si dovevano trovare dei soldi per consentire il suo trasferimento dalla Galizia alla Svizzera. E lei aveva raccolto dei fondi e glieli aveva mandati, quindi aveva raggiunto i coniugi Ul’janov a Berna.
Si potrebbe, a questo punto, accettare per vero il quadro che Nadja Krupskaja dipinge: le passeggiate serene, il bel clima autunnale, il rapporto di amicizia a tre che la guerra e le difficoltà hanno rinsaldato. Ma, sapendo delle tensioni tra Inessa e Lenin, è bene non fidarsi troppo di quel che scrive Nadja. Il soggiorno nella cittadina svizzera non è idilliaco come lei lo presenta. Se le battaglie cruente del primo conflitto mondiale non toccano la loro vita quotidiana, ce ne sono altre che agitano gli animi.
C’è intanto – aspro e violento – il dibattito fra i socialdemocratici europei sulla partecipazione alla guerra. Per Lenin la situazione è chiara. Nei suoi scritti spiega che il conflitto è un bene perché porterà alla sconfitta russa e quindi alla rivoluzione. Compito dei bolscevichi è di contribuire a questa sconfitta, quello dei rivoluzionari europei è di ribellarsi ai loro governi.
Il punto è che i socialisti ancora una volta non condividono la sua posizione. «La sua visione disfattista», scrive Hélène Carrère d’Encausse, «non era comunque condivisa né dall’Internazionale né dai suoi compatrioti. L’Internazionale, riunitasi a Bruxelles il 29 e il 30 luglio, si separò senza aver deciso un’azione concertata per impedire il conflitto. La guerra anticipò il congresso e i socialisti più veementi abbandonarono la fraseologia internazionalista. Il 4 agosto, i socialdemocratici del Reichstadt votarono i crediti di guerra, Vandervelde entrò nel governo belga, in Francia l’union sacrée si estese a tutti i partiti. I socialisti», prosegue la storica nel suo Lenin, «sempre e comunque pronti a denunciare i propri governanti, scoprirono improvvisamente che la responsabilità della guerra incombeva sui governanti dei paesi nemici. La guerra fu allora dichiarata difensiva dai socialisti tedeschi, mentre i socialisti francesi e belgi si univano per far ricadere la colpa del conflitto sull’‘aggressione tedesca’. Il concetto di ‘guerra giusta’ si sostituì a quello di guerra inaccettabile. Soltanto i socialdemocratici russi si opposero alla guerra rifiutandosi in maggioranza di votare i crediti di guerra».
L’attenzione di Lenin, il suo tempo, le sue energie sono completamente assorbite dalla nuova situazione delicata e difficile che si è creata fra i partiti socialdemocratici europei. Scrive lettere, interventi, testi guida e Inessa, con lo zelo e la scrupolosità di sempre, lo aiuta nella sua strategia e svolge una parte consistente del lavoro. Sono molte le direttive che il capo dei bolscevichi deve inviare in tutta Europa, molti i testi che manda in giro con le sue opinioni, tante le lettere che riceve. Inessa è instancabile e, come sempre, ammirata. Nel fuoco della battaglia politica Vladimir Il’ič dà il meglio di sé: è concentrato, sa coinvolgere e trascinare, le sue idee sono chiare e nette. Anche lei è convinta che dalla guerra possa nascere la rivoluzione, conosce abbastanza la Russia per sapere che per gran parte del popolo il potere degli zar non è più sopportabile e che la guerra acuirà quel sentimento di ostilità. Per questo lavora con quello che Nadja definisce «il consueto impegno». Ed è pienamente solidale con Vladimir Il’ič.
Ma a Berna c’è anche la battaglia sotterranea dei sentimenti. Lo stato d’animo di Inessa in quel periodo è solo apparentemente simile a quello di Cracovia, quando era partita senza esitazione per San Pietroburgo solo perché Lenin glielo aveva chiesto, o a quello di Parigi, quando si era impegnata in lavori semplici e faticosi. In quell’autunno del 1914, continua a stimare il capo dei bolscevichi e sa anche che il loro legame non si è spezzato, lo ama ancora, ma non riesce a fare finta che sia tutto come prima. Se ne accorge proprio durante le passeggiate, che Nadja descrive serene, nelle foreste attorno a Berna: quella sorta di osmosi che aveva caratterizzato la prima fase della sua relazione con Vladimir Il’ič non c’è più. I suoi pensieri, in quelle mattine d’autunno, prendono spesso un corso diverso, un’altra direzione rispetto a quella del lavoro con lui. Lei vorrebbe avere la libertà di seguirli, fare altre letture, scrivere le proprie riflessioni, le piacerebbe allontanarsi, star sola. Non le piace più il ruolo di fedele amica di famiglia, in cui i coniugi Ul’janov l’hanno relegata. Quella vita a tre procura disagio. I sentimenti sopravvivono anche se accuratamente nascosti. E ci sono anche le paure, le reticenze. Inessa vede gli sforzi di Nadja. Capisce la fatica per riportare tutto a un rapporto fra vecchi amici. Osserva Vladimir Il’ič che mette in scena una disinvoltura artefatta. Si accorge a un certo punto di essere stanca. È l’ipocrisia ad affaticarla ed è infastidita della curiosità, appena trattenuta, dei compagni che li vedono di nuovo tutti e tre insieme e si chiedono quale sia ora il suo legame con Lenin. Vorrebbe lasciare il lavoro che ha ripreso i ritmi di sempre e impegnarsi in un’idea che da un po’ di tempo le frulla nella testa.
Ci ha riflettuto molto in quei giorni, tornando a casa la sera, dopo una passeggiata o dopo cena. Ha preso appunti, ha letto, ha studiato e ogni giorno aspetta impaziente il momento in cui il lavoro con Vladimir Il’ič finirà per potersi rifugiare nei suoi pensieri. Dopo la guerra, ne è sicura, la Russia sarebbe insorta. Proprio in vista della rivoluzione, è necessario pensare al ruolo e ai nuovi compiti delle donne nel partito e nel paese che i bolscevichi vogliono costruire. Anche per loro tutto deve cambiare.
I pensieri si rincorrono mentre calpesta le foglie nelle foreste di Berna, e nei piovosi pomeriggi autunnali diventano appunti scritti sulla carta. Ricorda la sua istintiva ribellione all’amato Tolstoj quando, parlando di Nataša, aveva definito completamente femminile solo una donna sposata. Rivede nella memoria la condizione delle prostitute di Mosca e il tentativo non riuscito di fare qualcosa per loro. E poi le operaie, che ha conosciuto nella sua esperienza di militante socialdemocratica, le loro lunghissime giornate di lavoro, il loro silenzio, l’obbedienza ai mariti. Ripercorre la sua esperienza. Era stata una donna ricca, privilegiata, rispettata, ma anche lei era segnata da un’esperienza che, nonostante gli anni trascorsi, non ha dimenticato. Era credente all’epoca, era andata in chiesa per partecipare a una cerimonia religiosa e le era stato impedito di entrare perché incinta e quindi impura. Non riesce ancora, dopo tanti anni, a cancellare l’umiliazione e la rabbia. Se Varvara o Inna, le sue due figlie ormai adolescenti, le avessero chiesto quando era diventata femminista, avrebbe risposto che era avvenuto sulla soglia di quella chiesa, di fronte a quell’assurda accusa.
Pensa al lavoro fatto con Rabotnica, importante, ma da proseguire. Forse i temi affrontati nella rivista non sono sufficienti. Con la rivoluzione se ne devono affrontare altri: il matrimonio, l’amore, per esempio. Il partito deve pensare anche a questo se vuole costruire una umanità nuova. Del resto molte donne ci stavano già pensando. Al congresso di San Pietroburgo aveva cominciato a riflettere sul legame inscindibile fra un amore libero e un reddito autonomo. Sono passati alcuni anni ed è venuto il tempo di riprendere in mano la questione.
I bolscevichi considerano il tema assolutamente secondario. Quante volte Inessa ha visto espressioni di sufficienza, o ha sentito l’aperta ostilità e il richiamo: «il partito ha cose più importanti cui pensare». Per questo non aveva più voglia di discutere e aveva in mente un libro, un pamphlet che avrebbe affrontato i nodi della condizione femminile.
Ne ha parlato con le sue figlie, due adolescenti che cominciano a voler capire di più del sesso, dell’amore, del rapporto con gli uomini. Proprio a loro Inessa vuole dedicare il suo nuovo lavoro. «Le vostre domande», dice alle due figlie, «sono il motivo principale che mi sprona a scriverlo».
Pensa anche che le riflessioni le serviranno per chiarire molte cose della difficile relazione con Vladimir Ilìch. Avevano provato a vivere un amore libero e non ci erano riusciti. Avevano dovuto constatare l’impossibilità di sottrarre i loro sentimenti alle regole del mondo borghese. Ora, con quel libro, può far capire all’uomo che ha amato più di quanto sia riuscita a dirgli nei momenti della passione o in quelli dolorosi della separazione.
Con sorpresa di Lenin e Nadja, Inessa lascia Berna e torna a vivere da sola. Nel suo rifugio sulle montagne svizzere di fronte al lago, mentre l’inverno gela i sentieri e la neve ricopre le montagne, riempie un foglio dopo l’altro. È soddisfatta della sua opera, ma a un certo punto, ha bisogno di comunicare con Vladimir Il’ič, di sentire il suo parere. Per anni ha dialogato con lui, l’ha ascoltato e qualche volta è stata ascoltata. Raccoglie i fogli, li mette in una busta e glieli invia.