Capitolo quindici

«Ti fermi di nuovo fino a tardi?».

James si sedette dall’altra parte della mia scrivania. La giornata si era conclusa ed eravamo rimasti solo noi. Sempre più spesso andava a finire così, ormai. Non riuscivo a darmi uno stop.

«Penso di sì», dissi.

«Non so bene quali siano le cifre, ma sono quasi sicuro che non è necessario che ti stressi così».

«Non mi spaventa il lungo orario. Mi tiene lontana dalle preoccupazioni». Era una battuta solo a metà. Non ero ancora rassegnata alla nuova vita che Daniel voleva per me. Non che mi avesse dato una possibilità di scelta, ma avevo acconsentito a incontrare il suo team qualche giorno dopo. Nel frattempo avevo analizzato a fondo il loro piano marketing e avevo cercato delle strategie che mi permettessero di dare un contributo che accontentasse Daniel, senza tagliarmi fuori totalmente dalla mia azienda.

«Finirai per scoppiare, lo capisci?». James si protese in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e portandosi le mani al mento.

«Di che ti preoccupi, James? Onestamente non sto caricando voi».

«Se anche lo facessi, non mi importerebbe. È solo che a volte mi sembri triste».

Sospirai. «È davvero importante? Triste o no, sono qui e stiamo andando avanti». A chi interessava se volevo ammazzarmi di lavoro? Era una mia scelta.

«Di fatto non penso che sia un bene né per te né per l’azienda. Se crolli tu, a noi chi rimane? Il gruppo non è abbastanza grande da andare avanti senza di te. Se continui così, scoppierai nel giro di poche settimane. E allora? Se venisse giù qualcosa e avessimo veramente bisogno di te?»

«Stai facendo una tragedia sul niente», dissi cercando di dire qualcosa per tranquillizzarlo.

Per quanto passassi molto tempo a stretto contatto con Risa, era con James che sentivo maggiore affinità. Quando si trattava di lavoro, sembrava capire subito cosa volessi senza quasi bisogno di chiederglielo. Tra noi pareva esserci già quel legame silenzioso che nasce tra due persone che operano fianco a fianco da tanto tempo e ciò, in qualche modo, rendeva più tollerabile domande di quel genere. Ma non avrebbe comunque potuto capire la mia vita in quel momento.

«Va bene. Fai almeno una pausa? Permettimi di portarti fuori a mangiare qualcosa».

«Non ho fame». Era vero. In quei giorni non avevo quasi mai fame. Probabilmente sarei diventata magra come Sophia in un attimo, ma non per scelta. Solo non ero più attratta dal cibo, né da altro, per quel che importava.

«Okay, allora due passi. Concedimi un’ora e poi ti lascio in pace, promesso».

Alzai gli occhi al cielo.

«Per favore?».

Mi rivolse uno sguardo così innocente e determinato che mi fu impossibile resistere. Non riuscivo a capire perché si preoccupasse tanto, ma non potei negare che fece breccia nel mio cuore.

Mi tirai via dalla scrivania. «Va bene. Un’ora. Devo finire di scrivere questi contratti entro stasera». Non era vero, ma se fingere di accordargli un’ora significava sottrarmi al suo instancabile interrogatorio sulla mia salute mentale, lo avrei fatto.

Uscimmo dall’edificio e James si fermò davanti alla sua moto. Slacciò un casco e me ne porse un secondo sfilato da uno scompartimento diverso.

«Ah, no. Non vado in moto».

«Guido da quando ero un ragazzino. Ti prometto che non ti succederà niente. Vado piano».

«Questo non faceva parte dell’accordo».

«Non c’erano clausole sulle moto. Gesù, Erica, hai scritto troppi contratti». Mi fece un sorrisetto che sciolse un po’ la mia rabbia. «Mi hai concesso un’ora. Rilassati, okay? Sarà divertente».

Infilai il casco riluttante, sentendomi un po’ ridicola. Lui mi aiutò ad allacciarlo e mi diede un colpetto sulla testa che si aggiunse al mio stato di semicoscienza. Con cautela, presi posto dietro di lui.

James accese il motore. Mi prese le mani e si portò le mie braccia intorno alla vita. «Reggiti».

Lo feci, senza preoccupami che quel gesto ci avvicinava in modo poco professionale. Improvvisamente, e forse irrazionalmente, ebbi il terrore di volare via mentre si immetteva sulla strada e partiva in velocità. Mi tenni stretta, cercando di non morire di paura. Mi coprì una mano con la sua e me la strinse.

Non avevo idea di dove stessimo andando e non mi presi la briga di chiedere. Dopo qualche minuto mi rilassai un po’, non tanto da togliergli le braccia dalla vita, ma quanto bastava per godermi l’ebbrezza della velocità. Sfrecciammo nelle strade affollate e superammo le macchine bloccate nel traffico nel loro rientro a casa.

Proseguimmo fino a che non ci trovammo lungo l’oceano. La spiaggia era quasi deserta, potevo vedere soltanto qualcuno che faceva jogging o kitesurf molto lontano dalla riva. James parcheggiò e mi aiutò a scendere. Camminammo lungo la spiaggia insieme, dopo esserci tolti le scarpe alla fine del sentiero.

L’aria era piacevolmente calda e la brezza salmastra ci investiva. Le onde si infrangevano sulla riva. Non andavo spesso sull’oceano, ma ogni volta che mi capitava mi risultava più facile dimenticarmi delle preoccupazioni. Qualcosa nel movimento ipnotico e rassicurante delle onde e dell’orizzonte infinito del mare lavava via la confusione e lo stress che si erano annidati nella mia mente. Perfino allora, con tutto quello che stavo passando, provai un insperato senso di pace.

Avrei voluto rimanere così il più a lungo possibile. Presi mentalmente nota di tornarci più spesso. Valeva la pena fare il lungo tragitto in treno.

«Entriamo».

Risi. «Vuoi scherzare? Hai idea di quanto sia fredda l’acqua?»

«Lo so benissimo. Vengo a nuotare nell’oceano da sempre. Andiamo, non essere codarda». Le sue labbra si allargarono in un sorriso malizioso.

«No, grazie. Resto affezionata alle piscine riscaldate e ai mari più caldi».

Si tolse la maglietta. Il tatuaggio scuro che di solito spuntava dalle maniche era visibile per intero, le fiamme di un disegno elaborato gli lambivano la pelle. Era indubbiamente un bell’uomo. Non slanciato come Blake, ma del tutto tonico. Dedussi che trascorreva diverse ore in palestra.

«Sai cosa si dice dell’acqua salata, vero?».

Sollevai di nuovo lo sguardo, imbarazzata per essere stata colta a fissarlo. Ma i tatuaggi si possono guardare, no? È normale.

«Cosa si dice?». I miei occhi ripresero a vagare.

«L’oceano e le lacrime sono la cura per tutti i mali. Un tuffo in questo oceano e tornerai come nuova». Rimase lì davanti a me, mezzo nudo nei suoi calzoncini corti.

Distolsi lo sguardo e tracciai una linea sulla sabbia con il piede nudo. Oceano e lacrime, eh? Se fosse stato vero, sarei già dovuta guarire viste tutte le lacrime che avevo versato nelle ultime due settimane.

Prima che potessi di nuovo perdermi nei miei pensieri, James mi sollevò caricandomi sulla sua spalla. Vedevo la sabbia scorrere rapidamente sotto di me mentre mi portava verso l’oceano.

«No, James, lasciami!», gridai, cercando di sembrare arrabbiata, ma in realtà ero divertita mentre entrava in acqua. Alternavo strilli e risate incontrollate, scalciando e cercando di liberarmi dalla sua presa. Quando vidi che l’acqua gli arrivava oltre la vita iniziai a preoccuparmi. Non mi avrebbe davvero buttato dentro, no?

«James, basta, non ti azzardare! Mettimi giù!».

«Come vuoi tu, capo». E, detto quello, mi lanciò, concedendomi appena il tempo di riempirmi i polmoni prima di cadere pesantemente in acqua. Ripresi fiato subito. Il freddo dell’oceano mi avvolse, sconvolgendo i miei sensi. Mi lasciai affondare fin quasi a toccare il fondo. La spinta del mio corpo e le onde mi riportarono a galla un attimo dopo.

Feci un altro respiro profondo mentre James si allontanava a nuoto. Sorrisi e lo inseguii muovendo gambe e braccia più velocemente che potei. Me l’avrebbe pagata. Si girò giusto nel momento in cui lo raggiunsi. Mi aggrappai alle sue spalle e cercai di spingerlo in acqua con tutta la forza che avevo. Lo sforzo fu inutile. Mi prese in giro, facendo finta di annegare. Scomparve sott’acqua.

Rimasi lì e aspettai. Cercai di seguire il suo percorso, ma lo persi, sentendomi un po’ in ansia e allo stesso tempo anche euforica. La cosa si protrasse il tempo sufficiente da farmi iniziare a preoccupare davvero. Scrutai l’acqua intorno a me. Poi sentii le sue braccia intorno alle cosce e fui sollevata fuori dall’acqua. Gridai di nuovo tra le risate. Lui allentò la presa e io scivolai contro il suo corpo con un movimento lento e, maledizione, suggestivo. Tra noi non c’era altro che il sottile cotone dei miei vestiti, che lasciava ben poco all’immaginazione.

La mia risata si spense a quella sensazione. Il battito accelerò, il corpo iniziò a risvegliarsi in un modo che conoscevo bene. L’acqua non sembrava più tanto fredda, con le onde che ci lambivano la pelle mentre mi teneva stretta. L’azzurro brillante dei suoi occhi si scurì leggermente quando lo sguardo scese sulla mia bocca. Ansimavo. Cercai di convincermi che fosse solo per via della nuotata e per lo shock di essere stata lanciata in acqua. Solo che non riuscivo a riprendere fiato e la mano che non mi teneva stretta a lui scivolò lungo la mia coscia per poi afferrare la gamba dietro il ginocchio e portarsela intorno alla vita. Le mie braccia erano bloccate sulle sue spalle. Avevo paura di muovermi. Mi sistemò anche l’altra gamba e così mi ritrovai totalmente avvinghiata a lui, le nostre labbra a pochi centimetri.

«Dio, sei bellissima», sussurrò.

Mi fece scorrere le dita sugli zigomi e lungo la mandibola, nello stesso modo in cui aveva fatto quando ero tornata in ufficio dopo essermi vista con Daniel. Solo che ora i suoi occhi non erano preoccupati. Erano pieni di qualcosa di molto più serio, un desiderio che si stava lentamente facendo strada anche dentro di me. Le mie dita fremevano per muoversi, ma resistetti.

Chiusi gli occhi e l’immagine di Blake mi attraversò la mente. Quel ben noto dolore mi esplose dentro, come un pezzo di ghiaccio nel cuore. In imbarazzo, mi sciolsi dal corpo di James. Senza aspettare una reazione, mi tuffai in acqua come aveva fatto lui e nuotai più velocemente possibile verso la riva. Cazzo, cazzo, cazzo. Era l’ultima cosa di cui avessi bisogno in quel momento.

Uscii goffamente dall’acqua, il risucchio delle onde mi fece quasi cadere mentre cercavo di andare in direzione opposta. Mi sentii gelare ancora di più esposta all’aria, ma il sole era ancora alto in cielo. Strizzai al meglio la maglietta, i pantaloncini e i capelli. Stesa sulla sabbia calda, accolsi di buon grado il calore del sole. Chiusi gli occhi per la luce e cercai di concentrarmi sul rumore dell’oceano.

Il respiro si regolarizzò e mi chiesi pigramente se il mio momento di follia fosse finito. Cosa diavolo stavo facendo? Era sbagliato. Del tutto sbagliato.

James si stese accanto a me con un lieve fruscio dei suoi pantaloncini e un respiro tremante. Aprii un occhio per guardarlo. Era di fianco, poggiato sul gomito, e mi osservava. Un’ombra pensierosa gli segnava il viso bellissimo.

«Eccolo di nuovo». La sua voce era bassa.

«Cosa?»

«Quello sguardo. Avevo veramente sperato di essere riuscito a farlo sparire in qualche modo, invece eccolo qua».

Sospirai e mi portai un braccio sugli occhi. Volevo sciogliermi, dissolvermi come la sabbia nella marea. «Scusa».

«Di cosa ti scusi?».

Dovevo mettere un punto. Chiarire tutto con lui in modo che potessimo smettere di girarci intorno. Non potevo far soffrire due persone. In qualche modo dovevo fargli capire che potevamo essere solo amici. Ma se lui non avesse voluto la mia amicizia?

Lo guardai.

«Avevi ragione. Sto malissimo e in questo momento il lavoro è l’unica cosa che mi permette di non perdermi completamente. Sto cercando di risolvere alcune situazioni e concentrarmi sul lavoro è il solo modo che conosco ora».

«Sai, non c’è niente di male a sentirsi in confusione ogni tanto. Ma questo non vuol dire che devi allontanare tutti, soprattutto le persone che ci tengono a te».

Sospirai. «Lo so».

James non era il solo a cercare di farmi aprire. Marie mi aveva concesso tempo, ma capivo che era preoccupata. Non avevo ancora parlato con Alli e la crescente distanza tra noi mi pesava. Eppure ancora non riuscivo a fare un passo verso di lei a parte i miei vaghi messaggi. Era troppo vicina a Blake e in quel momento avevo bisogno della maggiore distanza possibile tra noi per tenerlo al sicuro.

«Non è stato così male, vero?».

Gli sorrisi. «È stato divertente. Mi sento davvero meglio».

Avrei voluto dire di più, ma nonostante il consiglio che mi aveva appena dato, pensai che tenerlo a una distanza di sicurezza emotiva fosse la cosa migliore da fare. Una parte di me voleva dirgli che provavo qualcosa di più, ammettere che nell’acqua c’era stato un momento intenso, per quanto breve, ma parlarne sarebbe stata un’infrazione maggiore alle mie inesistenti politiche e procedure interne aziendali. In più, se glielo avessi rivelato, avrei dovuto anche spiegargli quanto fossi ancora disperatamente innamorata del mio ex che, in quel preciso momento, stava con ogni probabilità legando Sophia a un letto per scoparla fino a farle perdere la testa. Allora avrei dovuto anche ammettere che non avrei mai smesso di amare Blake, per quanto ci avessi provato.

 

Dato che eravamo nei paraggi, chiesi a James di fare una piccola deviazione prima di rientrare in ufficio. Mi portò nella strada silenziosa che riconobbi dalle case nuove e dai giardini meticolosamente curati. Quando si fermò davanti all’edificio di Trevor, rimasi sconcertata dal trovare piantato nel giardino incolto il cartello di un’agenzia immobiliare che indicava che la casa era in vendita. In qualche modo quel luogo mi apparve ancora più abbandonato di prima.

Il cauto sollievo che avevo provato scomparve. Era un brutto segno. L’unico collegamento che avevo con Trevor era quella casa. Blake probabilmente non era approdato a nulla di valido nella sua ricerca sulla società di investimenti nel Texas, dal momento che non mi aveva più detto nulla. Anche se in effetti non gliene avevo dato la possibilità. Ero troppo impegnata a rompere con lui e, poi, a cercare di evitarlo.

«Immagino che non fosse in vendita quando sei venuta qui la prima volta».

Scossi il capo. «No. E non è niente di buono».

«Magari ha smesso di fare l’hacker e ha iniziato una nuova vita da qualche altra parte. Intrapreso una nuova carriera o qualcosa del genere».

«E mettersi in gioco per la prima volta nella sua vita? Ne dubito fortemente, ma hai guadagnato punti in quanto a pensiero positivo».

«Davvero, non c’è da preoccuparsi. Sii felice che ci abbia dato una tregua e speriamo che abbia perso interesse».

Sospirai. «Speriamo».

Riavviò il motore e ci rimettemmo in marcia.

Arrivammo a Commonwealth Avenue e James mi lasciò davanti all’appartamento. Mi sfilai il casco e glielo restituii. Ero quasi completamente asciutta, ma mi sentivo ancora in imbarazzo a stare lì. E soprattutto, dopo tutto quello che era successo, non sapevo cosa dire.

«Grazie per la pausa».

«Di niente. Dovremmo farne più spesso». Mi rivolse un sorriso timido.

Non volevo smontare i suoi sforzi di tirarmi su, ma l’attrazione fra noi era innegabile, più di quanto volessi ammettere. Non sapevo se era tutto un effetto collaterale della rottura o qualcosa di più. Quello di cui ero sicura, però, era che non avevo bisogno di ulteriori complicazioni.

«Ci vediamo domani, okay?». Feci un piccolo cenno di saluto e mi avviai all’appartamento.

Andai in camera mia e mi tolsi i vestiti e il reggiseno, ancora umidi di oceano. Rovistai nei cassetti cercando qualcosa di decente da mettere.

«Erica».

Mi girai di scatto con un grido e trovai Blake sulla soglia, le mani premute contro gli stipiti.

«Cosa ci fai qui?». Nello spazio di pochi secondi il mio cuore prese a battere all’impazzata. Ero esposta, solo con gli slip in quel momento, e lui incombeva sempre più vicino.

«Chi era quello?». La voce era bassa e calma.

«James».

La sua mano si posò sulla mia spalla, e spazzò via la sabbia dalla pelle. Il mio corpo prese calore a quel contatto. Sperai segretamente che le sue dita cominciassero a scivolarmi ovunque, ma le scostò. Incrociò le braccia e mi fissò.

«Giocare sulla sabbia con James. Non sembra una cosa molto innocente».

Infatti no, ma non glielo avrei mai detto.

«Te lo sei già scopato?».

Alzai gli occhi al cielo, esasperata da quella sua insistenza sul fatto che andassi a letto con James. «Non pensi che se me lo scopassi, lo starei facendo anche adesso?»

«No, a meno che tu non voglia che lo ammazzi a randellate. Se è così, invitalo a salire la prossima volta».

Si fece più vicino. L’atmosfera divenne elettrica. Il suo corpo sprigionava ondate di energia sessuale che mi stavano facendo impazzire. I miei progressi nel cercare di levarmelo dalla testa si erano appena disintegrati. Morivo dalla voglia di afferrargli i capelli e schiacciare il mio corpo contro il suo.

«Che mi dici di Sophia?». Parlai a bassa voce, sperando quasi che non mi sentisse, in modo da non dover ascoltare la sua risposta.

«Che c’entra?».

Serrai la mandibola. «Ti stai scopando lei?». Non avrebbe dovuto interessarmi, ma avevo bisogno di saperlo.

«Importerebbe?». La sua espressione era impassibile, fredda quasi.

Una gelosia maligna si impossessò di me. Socchiusi gli occhi. Non avevo diritto di essere arrabbiata, ma lo ero. Era una vile puttana e, ogni volta che la vedevo, non volevo fare altro che strapparle quegli occhi del cazzo.

Il fatto che a letto potesse dare a Blake quello che voleva non faceva che aggiungere benzina sul fuoco. Mi voltai e cercai di ignorare l’attrazione del suo corpo dietro di me. Pescai un paio di jeans e una maglietta a V aderente che metteva in bella mostra le mie tette. Non riusciva a togliermi le mani di dosso quando la indossavo. Il mio cervello stava andando in un folle corto circuito. Avrei dovuto fare in fretta e lasciare l’appartamento prima di fare qualcosa di stupido.

Aprii il cassetto e tirai fuori la biancheria asciutta. Prima di richiuderlo mi bloccai. Mi girai. «Sei già stato qui?»

«Manca qualcosa?». Fece un sorrisetto.

«Hai rubato il mio vibratore. Chi altri avrebbe potuto farlo?»

«Te l’ho già detto che sarei stato l’unico a farti venire. Per quanto mi riguarda, le cose non sono cambiate».

Ero senza parole.

Annullò la distanza tra noi aprendomi le gambe con la coscia. Mi mise una mano sul collo e tracciò una linea di fuoco dal seno ai fianchi.

«Ho la sensazione che tu ne abbia bisogno, però».

Mi si spezzò il respiro a quell’improvviso contatto delle sue mani con la mia pelle. Con una lentezza esasperante, seguì l’elastico dei miei slip fino al sedere e poi di nuovo davanti dove solleticò la pelle dell’interno coscia. Il suo tocco era elettrico, mi faceva sussultare in modo quasi doloroso. Raccolsi le forze per scacciare via la sua mano, pregando che mi lasciasse, ma non fece altro che avvicinarsi ancora di più, prendendomi in maniera ancora più aggressiva attraverso la stoffa degli slip.

«Non farlo, Blake, non posso». Ma, Dio se lo volevo. La sua bocca e le sue mani su di me, la fine di quella terribile tortura.

Le sue dita premevano deliziosamente contro di me, strofinandomi attraverso il tessuto.

«È mio, Erica. Io possiedo il tuo piacere. Lo sappiamo entrambi», mi sussurrò nell’orecchio, baciandomi il collo e facendo scorrere la sua lingua lungo la curva dell’orecchio. Oddio.

«Non posso… non posso farlo».

«Sì che puoi. Lo vuoi anche tu».

Spostò di lato gli slip e mi sollecitò il clitoride con il pollice.

«Cazzo, sei già bagnata per me». La sua voce era roca, quasi sofferente.

Sibilai, soffocando un gemito. Il diretto contatto con le sue dita esperte mi mandò in orbita. La testa mi si rovesciò all’indietro e avrei voluto gridare per le sensazioni che mi travolsero.

«Ti sono mancate? Le mie mani su di te, a scoparti?».

Mi morsi il labbro, non volevo rispondere. Pochi secondi dopo, ero già sul punto di venire. Lo afferrai per le spalle per bilanciare la potenza dell’orgasmo che mi consumava. Le dita affondarono mentre, come onda su onda, le spingeva dentro di me. La pelle si infiammò e la mente fu invasa da quel piacere che solo Blake poteva darmi.

Cazzo, era passato troppo tempo. Ho bisogno di questo. Ho bisogno di te. Sentivo il disperato desiderio di dirglielo.

Mi premette baci leggeri sul collo e sulle spalle mentre mi riprendevo.

«Ancora?».

La vibrazione della sua voce quasi mi scatenò di nuovo una totale frenesia. Le sue dita scivolarono sulle grandi labbra, proprio dove si aprivano, esercitando una leggera pressione come se volesse spingerle dentro. Sarebbero entrate così facilmente, loro e poi il suo pene. Il letto era proprio lì. Avremmo potuto rubare un istante e nessuno lo avrebbe saputo.

Ma un’infrazione ne avrebbe solo portate altre. Dovevo riprendere il controllo. Dovevo. Scossi il capo e feci un respiro profondo per calmare i nervi a pezzi.

«No». La mia voce era un ansimo, quasi un’implorazione. Gli tolsi la mano e mi spostai di lato. Mi mossi incerta verso il letto con i vestiti, le gambe molli. La testa mi ronzava mentre mi vestivo in tutta fretta. Lui mi guardava, apparentemente calmo, ma dietro gli occhi infuriava la tempesta.

Conoscevo quello sguardo. Di solito arrivava pochi secondi prima di sbattermi contro qualche superficie dura, per scoparmi o per farmelo desiderare. Si appoggiò al cassettone incrociando le caviglie e si succhiò i miei umori dalle dita. I jeans erano tesi sulla sua erezione, che non faceva alcuno sforzo di nascondere.

Cazzo. Distolsi lo sguardo e litigai con il bottone dei jeans. Mi tremavano troppo le mani. Finalmente riuscii a chiuderlo e mi fermai per qualche secondo davanti allo specchio per controllare la sabbia che avevo nei capelli. Non potevo rischiare facendomi una doccia in quel momento, anche se erano così ingarbugliati e pieni di granelli che ne avrei avuto bisogno.

Lo guardai di nuovo negli occhi. «Devo andare».

«Da lui?»

«No, a casa».

«Casa tua è questa».