Capitolo sei

La musica era alta, riecheggiava contro le pareti della casa. Anche da fuori il suono era assordante. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a pensare. Le mie gambe si muovevano troppo lentamente, la mente era annebbiata dall’alcol. Stavamo camminando all’esterno. Non capii perché fin quando non mi spinse giù nell’erba tra le ombre scure del giardino. Non avevo le forze per liberarmi del peso del suo corpo che mi schiacciava a terra. Prima ancora di rendermene conto, mi stava lacerando dentro come una lama, digrignando i denti.

Aprii la bocca per urlare, ma non ne uscì niente, non avevo più voce. Scossa dai sussulti, mi ribellavo, cieca e senza voce, quando mi chiamò per nome.

Mi conosceva. Conosceva il mio nome.

«Erica!».

La voce di Blake invase il mio incubo. Spalancai gli occhi.

«Stavi sognando».

Mi accarezzò le braccia. Ogni tocco mi provocava dolore.

«No». Mi scostai, lottando per tornare alla realtà. «Ti prego, no. Non mi toccare, non ci riesco…».

Mi divincolai e quasi caddi dal letto nella smania di sfuggire alla sua presa. Raggiunsi barcollando il bagno e mi sorressi al lavandino. Quella che vidi nello specchio era un’immagine che conoscevo, che non vedevo da tanto tempo. Avevo gli occhi stanchi e annebbiati, le guance in fiamme per le emozioni risvegliate dell’incubo. Mi sciacquai il viso, l’acqua gelata mi raffreddò e mi riportò al presente.

A poco a poco, mi ricordai di quanto accaduto la sera prima. Dentro di me riaffiorò la sofferenza. Ero tornata al punto di partenza. Dopo tutto quello che avevo fatto per autoconvincermi che sarei riuscita a gestire il ritorno di Mark nella mia vita, ero di nuovo punto e daccapo. Avevo vissuto sempre guardandomi le spalle, aspettando di vederlo spuntare dietro ogni angolo. Ma ora le probabilità che mi trovasse erano molto più alte. Mi scappò un singhiozzo e mi accasciai in ginocchio sul pavimento freddo e duro.

Blake entrò e si inginocchiò a poca distanza.

«L’ho fatto, Blake. L’ho riportato indietro. È solo colpa mia».

«Chi, piccola?»

«Mark». La mia voce era un sussurro, ingoiato dai singhiozzi. Mi strinsi le braccia intorno al corpo, cercando di lenire la sofferenza. Dio, era così intensa che mi scorreva nelle vene a ogni battito.

Mi si contorse lo stomaco al ricordo dei tormenti fisici e morali attraverso i quali mi aveva fatto passare quell’uomo. Avevo dimenticato l’effetto che riusciva ad avere su di me, dopo tutti quegli anni. Cercai di riprendere fiato e azzardai un’occhiata a Blake, in preda all’angoscia nel vedermi così devastata.

Trasalì, con un’espressione tesa. Era preoccupato, ma cercava di controllarsi. Le mani sulle ginocchia si strinsero a pugno. «Dimmi cosa devo fare».

Mentre consideravo la sua richiesta, era piombato il silenzio. In quelle condizioni avevo un debolissimo controllo su di me.

«Vuoi che vada via?»

«No», mi affrettai a rispondere. «Ti prego, non te ne andare. Non… non voglio stare sola».

Repressi una nuova ondata di lacrime al pensiero di non averlo accanto. Volevo andargli incontro, ricordargli quanto avessi bisogno di lui, ma ero irrimediabilmente chiusa in me stessa, non volevo e non potevo tenere nessuno vicino in quello stato mentale. Il solo pensiero di affrontare tutto da sola, però, era insopportabile.

«Allora non mi muovo da qui». Si spostò, appoggiandosi alla parete del bagno e osservandomi con uno sguardo intenso.

Al suono avvolgente della sua voce mi rilassai un po’. Feci un profondo respiro e mi asciugai le lacrime sparse. «Parlami», dissi.

«Di cosa?»

«Qualsiasi cosa. Dimmi qualcosa… di bello. Voglio sentire la tua voce».

Il suo viso si rilassò e gli occhi si addolcirono. «La nostra è la storia più bella che conosca. Non ho mai pensato di poter incontrare una come te. Sei bellissima, intelligente. E forte. Dio, sei veramente forte. A volte mi sorprendi davvero».

Le lacrime si riaffacciarono di nuovo, come se il mio corpo volesse espellere tutte le emozioni che montavano dentro di me. Amavo moltissimo Blake. Probabilmente non avrebbe mai capito quanto. Schiacciata da quel peso enorme, mi sentivo tutto tranne che forte, ma sapere che lui mi vedeva così accese un barlume di speranza, la speranza che in qualche modo sarei riuscita a superare la cosa.

«Mi stai uccidendo, Erica. Vederti così mi distrugge. Dimmi cosa devo fare. Come posso sistemare questa faccenda?».

Risi debolmente. «Non puoi sistemare me, Blake. Ma grazie per l’offerta».

Feci un altro respiro, decisa a tirarmi su dal pavimento. Mi alzai e rimasi scioccata da quello che vidi riflesso nello specchio. Avevo gli occhi gonfi e arrossati. Il mio aspetto rifletteva la devastazione interiore che provavo. Mi gettai ancora acqua sul viso e mi asciugai prima di rientrare in camera.

Mi buttai a peso morto sul letto, raggomitolandomi sotto la coperta, in realtà superflua in quella notte calda. Ma avevo bisogno del conforto di sentirmi avvolta, perché sapevo che non avrei potuto gestire le mani di Blake su di me in quel momento. Il mio cuore le voleva, ma ero troppo esposta, spaventata da quella che avrebbe potuto essere la reazione a qualunque contatto fisico. Blake mi venne accanto e ci guardammo negli occhi, lontani l’uno dall’altro come non eravamo mai stati quando avevamo dormito nello stesso letto.

«Scusami», sussurrai.

«Non c’è niente di cui debba scusarti».

«Non dovresti avere a che fare con tutto questo».

«Neanche tu, ma eccoci qua. E non me ne andrò da nessuna parte fino a che non sarai tu a dirmi di andar via».

Allungai la mano a prendere la sua. Ci addormentammo così, mano nella mano; quel semplice gesto fu sufficiente per ricordarmi che ognuno di noi poteva contare sull’altro.

 

Mi svegliai nel letto vuoto, in una camera invasa dal profumo della colazione. Il sorriso sparì quando mi alzai. La testa mi pulsava come se avessi passato la notte a bere invece che a piangere.

Mi infilai i pantaloni della tuta e raggiunsi Blake in cucina. Si girò dai fornelli dove stata preparando le uova strapazzate.

«Come ti senti?»

«Meglio». Presi posto su uno degli sgabelli dell’isola.

Mi versò una tazza di caffè, con una copiosa dose di zucchero e panna, proprio come piaceva a me. Lo ringraziai e ne bevvi un sorso, sentendomi un po’ più pronta a iniziare la giornata.

Preparò due piatti e mangiammo seduti l’uno di fronte all’altro. Manteneva la distanza di cui avevo avuto bisogno la notte prima.

«Ti va di parlare di quello che è successo?», chiese a bassa voce.

Il mio terrore aveva dominato la notte appena trascorsa e Blake non aveva idea di cosa lo avesse scatenato. Non avevo voluto dirglielo, per non preoccuparlo, ma lui era stato con me durante tutte quelle ore da incubo. Era rimasto lì per me come nessun altro aveva mai fatto. Meritava delle risposte, più di quanto io avessi voglia di dargliene.

Guardai fuori, nel luminoso cielo della mattina. Il sole inondava già l’appartamento attraverso le grandi finestre del soggiorno.

«Mi sono imbattuta in Mark ieri sera», dissi guardandolo.

I muscoli del suo viso si irrigidirono e tutta la sua postura cambiò, come se Mark si trovasse lì e lui fosse pronto allo scontro.

«Cosa ha detto?».

Deglutii, cercando le parole giuste. Mark era stato piuttosto vago, ma le sue intenzioni erano state più che chiare quando mi aveva bloccato durante il ballo. Ora lo sapevo. «Mi ha lasciato intendere che… mi cercherà ancora».

Blake posò la forchetta sul piatto. «Perché non me lo hai detto? Non ne avevo la minima idea».

«Non volevo farti preoccupare. Lo so come sei fatto. Ti saresti innervosito e avresti avuto una reazione esagerata».

«Maledizione, è vero, mi innervosisco. Gesù, Erica. Devo saperle queste cose». Fece un profondo respiro e si passò una mano tra i capelli. «Ti metto sotto protezione, a partire da oggi».

«No, Blake. Davvero, è questo che intendo. Stai reagendo in maniera eccessiva».

«Quando qualcuno minaccia di stuprare la mia ragazza, io reagisco. Chiamala come ti pare, ma che io sia maledetto se lo farò avvicinare minimamente a te».

«Prendere una guardia del corpo per tenermi sotto controllo tutti i giorni è un’esagerazione. Non vivrò all’ombra della sua minaccia per il resto della mia esistenza. Non posso vivere così. Ho già vissuto così e non posso farlo più».

«Allora ieri sera? Non ti ho mai visto in quello stato. Eri assolutamente inconsolabile». Strinse i pugni sul piano. «Non potevo neanche a toccarti».

«Non è sempre così terribile». Erano passati mesi dall’ultima volta che avevo avuto quell’incubo. Trovarmi a stretto contatto con Mark aveva ravvivato il ricordo, riaperto la ferita. Rabbrividii a quel pensiero mentre giocherellavo con il cibo nel piatto. Mi era passato l’appetito, al suo posto sentivo un peso allo stomaco perché le parole di Blake erano fondamentalmente vere. Dovevo abituarmi alla paura che Mark mi aveva piantato nella testa, ma non avevo ancora capito bene come avrei potuto farlo. Tuttavia, ero abbastanza certa che assumere una guardia del corpo a tempo pieno non fosse la soluzione.

«Se facciamo così, vince lui. Puoi almeno cercare di capire questo?»

«Io penso che lui vinca se trova il modo di stare di nuovo da solo con te. Dimmi che questa eventualità non ti preoccupa».

Trasalii al solo pensiero. «Quella volta sono stata un bersaglio facile. Cristo, ero quasi incosciente. Adesso sta solo cercando di spaventarmi. Sono sicura che questo è il suo obiettivo. Tra te e Daniel, non vedo proprio come possa riuscirci, realisticamente parlando». Tutti pensieri ragionevoli, ma non ne ero poi così convinta.

«Beh, farò in modo di assicurarmi che non ci riesca».

Gli si contrasse la mascella, la sua espressione era determinata. Non lo vedevo così da quando aveva fatto saltare il mio accordo con Max.

«Che cosa hai in mente?»

«Oggi dovresti rimanere a casa, Erica. È stata una nottataccia. Hai bisogno di riposarti». La sua bocca era una linea dura.

Aspettai che mi guardasse, ma lui si mise subito a riordinare la cucina.

«Smettila di cambiare discorso».

«Non sto cambiando discorso. Hai l’aspetto di chi è andato e tornato dall’inferno. Prenditi la giornata libera».

«Grazie tante», dissi tirandomi via dal tavolo.

Mentre scomparivo nella mia stanza sentii che mi richiamava, ma mi chiusi la porta alle spalle. Avrei voluto rimediare alla distanza che si era creata tra noi la notte prima, ma ero troppo stanca ed emotivamente esausta per litigare con lui in quel momento.

Nel tempo in cui feci una doccia e mi vestii, Blake se ne era andato. Mi sentii improvvisamente a disagio mentre raccoglievo i documenti per andare a lavorare. Non me l’avrebbe perdonata. Quando si metteva in testa una cosa non c’era niente che avrebbe potuto fargli cambiare idea. Se si trattava della mia sicurezza, poi, non avrebbe lasciato niente al caso.

Mi maledissi per essere crollata quella notte, ma il pensiero di dover affrontare tutto da sola, come avevo fatto tante altre volte, mi era sembrato perfino peggio. Mi stavo abituando a farmi vedere vulnerabile da Blake, a mostrargli le mie cicatrici, il mio passato. Quando lo avevo fatto, non mi aveva giudicato e, in qualche modo, il dolore aveva perso una buona parte della sua presa su di me.

Avevo in mano le chiavi e la borsa e mi stavo dirigendo alla porta quando entrò Sid. Sembrava distrutto quanto me, pallido, nonostante la pelle olivastra, e con le occhiaie.

«Stai rientrando solo ora?»

«Già». Si strofinò il collo e posò la borsa a terra. «Ho fatto nottata per tenere su il sito. Gran bel divertimento».

«È tutto a posto?»

«Per ora sì. Il padreterno mi sta sostituendo per farmi riposare un po’».

«Mi dispiace, Sid. Me ne occuperò. Te lo prometto».

Si strinse nelle spalle, evidentemente troppo esausto per credere alle mie parole, e si trascinò nella sua stanza.

 

Andai dritta nel mio ufficio senza preoccuparmi di salutare nessuno. Risa non colse il suggerimento e si affacciò dal paravento, con lo sguardo luminoso e in perfetto ordine come al solito.

In quel momento non avevo l’energia per gestire i problemi o le domande di nessuno, ma prima che potessi dirle di darmi un minuto, si sedette sulla sedia davanti alla mia scrivania.

«Ho grandi notizie». Fece un sorrisetto, i capelli scuri lunghi sulle spalle le incorniciavano il viso.

Inarcai le sopracciglia, sentendo già l’agitazione. Solo qualcosa di veramente monumentale avrebbe potuto spostare la mia concentrazione quella mattina.

«Che cosa?»

«Ho ottenuto una riunione con il direttore marketing della Bryant’s per una potenziale sponsorizzazione».

Bryant’s era uno dei più grandi rivenditori di abbigliamento del Nordest. Avere una riunione con loro era in effetti abbastanza monumentale da attirare la mia attenzione.

Scossi il capo, nel dubbio di aver capito bene. «E come è successo?»

«Max. Ha un aggancio. Gli ho fatto capire con chi volevamo entrare in contatto e lui si è offerto di aiutarmi. Ho appena finito di parlare con quelli della Bryant’s e abbiamo una riunione fissata per domani mattina».

«Wow, c’è pochissimo tempo».

«Lo so, ma ho pensato che dovessimo prendere quello che ci offrivano. Prima è, meglio è, no?»

«Assolutamente. Fammi avere tutti i particolari. Ci andremo insieme».

«Vuoi rivedere qualcuna delle opzioni che potremmo proporre, così poi posso redigere una presentazione?».

Raccolsi i pensieri e sospirai. La mia missione per quella mattina doveva passare in secondo piano. «Certo. Che cosa hai?».