Capitolo tredici
Il resto della settimana passò in una sorta di intontimento. Non lasciai quasi mai l’ufficio. La mia concentrazione sul lavoro, inizialmente ben accetta, era degenerata in uno stato compulsivo di testardaggine ad andare avanti nonostante la mancanza di sonno. Anche quando dormivo, non riposavo pienamente a causa delle visioni che mi perseguitavano.
In qualche modo, lo sforzo e la pressione che mi ero imposta per continuare a lavorare mascheravano gran parte del dolore. La gigantesca voragine che mi si era aperta nel petto al posto del cuore non sembrava tanto devastante se fingevo di preoccuparmi solo di numeri e liste e di portare avanti l’attività a rotta di collo. Tutti in ufficio tenevano il passo. A quel ritmo forse non avrei avuto bisogno dei soldi di Daniel. Quello che volevo era ripagare Blake il prima possibile in ogni caso.
Ero nel pieno di una riunione con Risa quando Daniel telefonò. Le dissi che dovevo prendere la chiamata e aspettai che uscisse prima di rispondere.
«Ciao».
«Erica, sono qui sotto. Vorrei parlare con te». Aveva un tono freddo e autoritario. «Esci dal retro».
Riagganciai e comunicai a Risa che dovevo anticipare la pausa pranzo. Uscii dalla porta di servizio e, nel vicolo, trovai Connor in attesa al volante della Lincoln. Daniel era appoggiato alla carrozzeria e fumava una sigaretta, con il solito abito scuro e colletto bianco. Il tipico politico, pensai, mentre la mia mente si affannava a domandarsi il motivo per cui fosse lì. Marie, Blake… Non riuscivo a parlare per la paura che mi attanagliava in quel momento.
«Hai fame?».
Scossi il capo, più per la confusione che per rispondere alla domanda. «Cosa succede?»
«Niente. Andiamo a pranzo». Si tirò via dall’auto e gettò la sigaretta. Aprì la portiera e mi fece cenno di entrare, con espressione indecifrabile.
Mi costrinsi a muovermi. Una volta mi sarei emozionata a vederlo, per quanto potesse apparire intimidatorio. Una volta il tempo trascorso insieme sarebbe stato ben accetto, ma ora dovevo farmi forza sulle gambe per seguirlo in macchina.
«Connor, portaci da O’Neill’s».
Feci qualche respiro profondo per calmare i nervi. O’Neill’s suonava abbastanza innocuo. Forse voleva davvero andare a pranzo. Tutte quelle notti insonni avevano accresciuto la mia ansia all’inverosimile.
«Qual è il motivo per cui hai voluto vedermi?»
«Sarei voluto venirti a trovare prima, ma ho pensato che ti servisse un po’ di tempo. Come stanno le cose con Landon?».
Sentii un’ondata di sollievo quando mi resi conto che Blake era al sicuro, ma fu subito rimpiazzata dal doloroso ricordo della nostra separazione.
«Non saprei. Non lo vedo da giorni». Fissai fuori dal finestrino, sperando che non mi facesse ritornare sui particolari della nostra rottura.
«Bene. A quanto pare ha accettato la cosa, presumo».
Mi strinsi nelle spalle, cercando di ignorare la fitta al cuore al pensiero che Blake alla fine si fosse arreso. Era quello che volevo no? Non lo sentivo da una settimana, un fatto che allo stesso tempo mi dava conforto e mi tormentava. Deglutii per ingoiare le lacrime che mi bruciavano gli occhi. Non era il momento.
«Era davvero così importante per te?».
La sua voce era più dolce di quanto mi sarei aspettata e mi voltai per guardarlo in faccia, asciugando gli occhi umidi con un battito di palpebre. Giurai di aver visto un accenno di sofferenza in lui ma, più razionalmente, mi dissi che doveva essere solo una mia proiezione.
Soppesai la domanda. Blake significava tutto per me, ma sarebbe stato un bene dirlo a Daniel?
«Ti ho fatto una domanda».
«È l’unico uomo che abbia mai amato».
Si irrigidì leggermente e guardò altrove.
Tra la mia affermazione e la sua strana reazione mi sentii un po’ più audace. «Non ho tempo da perdere in queste piccole riunioni. Possiamo andare dritti al punto del perché sono qui?»
«Modera i toni». Socchiuse gli occhi per una frazione di secondo, il che mi ricordò quanto potesse diventare spaventoso in un attimo. Mi domandai da chi avessi preso il mio carattere; in quel campo non avrei mai potuto competere con Daniel.
«Ti ho detto che ti sto portando a pranzo».
Incrociai le braccia, accertandomi di stare il più lontano possibile da lui. Connor ci portò a sud della città e superammo diversi isolati di ville a schiera, fino a che non arrivammo sul viale principale di un piccolo sobborgo.
«Dove siamo?»
«Nel vecchio quartiere. È qui che sono cresciuti tuo nonno e suo padre, prima che essere un Fitzgerald significasse qualcosa».
Rimasi seduta a guardare fuori. Non ero mai stata in quella parte della città. Era molto diversa dalle strade affollate di turisti del centro. Non era neanche una zona esattamente sicura. Connor ci lasciò davanti a una taverna all’angolo. Su una vecchia insegna si leggeva la scritta O’NEILL’S.
Seguii Daniel fuori dall’auto e con un certo disagio gli rimasi accanto mentre stringeva la mano di un uomo seduto su uno sgabello proprio all’ingresso. Era un grosso fascio di muscoli come Connor, ma con i capelli neri e gli occhi perlopiù nascosti dai ciuffi e da un cappello di tweed. Salutò Daniel per nome e ci fece passare.
Entrammo nella sala buia della taverna e prendemmo posto nell’angolo più lontano. Daniel ordinò le birre e due hamburger. Senza dubbio O’Neill’s aveva un menu piuttosto limitato per cui non feci osservazioni. Per quello, ma anche perché dovevo scegliere le mie battaglie con Daniel, a meno che non volessi prendere l’abitudine di nascondere i lividi. Dio, ero felice che mia madre non mi vedesse in quel momento.
«Vorrei parlare di lavoro», iniziò.
Non volevo ancora affrontare quel discorso. Avevo bisogno di saperne di più su di lui se volevo trovare il modo di uscire da quel ginepraio. «Come sta Margo?», chiesi, sperando di deviare la discussione dal suo grande progetto per la mia vita.
«Come ci si aspetta che stia». Buttò giù una buona parte della sua birra. Io lasciai lì la mia.
«Vuole che io ti stia lontana, lo sai? Al gala me lo ha detto piuttosto chiaramente. Sarebbe ben contenta di non vedermi nei paraggi della tua campagna elettorale o della tua vita privata».
«Sì, è vero, ma queste decisioni non spettano a lei».
«Non creerà tensioni tra voi se io andassi così spudoratamente contro i suoi desideri?»
«Margo è l’ultima delle nostre preoccupazioni».
«Forse potresti illuminarmi su cosa ti preoccupa. La minaccia di uccidere Blake e liquidare la mia azienda sono ancora in cima alle tue priorità?».
Sogghignò. «Se pensi che quella bocca non ti causerà dei guai solo perché siamo in un locale pubblico, ti sbagli di grosso».
Mi guardai velocemente intorno. Il locale era quasi vuoto e i padroni non sembravano i tipi da preoccuparsi di una piccola discussione sorta durante un pranzo. Per non parlare del fatto che Daniel aveva l’aria di essere un cliente di riguardo. Forse erano proprio quelle persone che si facevano carico dei lavori sporchi, quando bisognava occuparsi di figure come Mark.
Mio padre aveva ragione. Fare l’insolente con lui probabilmente non mi avrebbe portato molto lontano. Mi imbronciai.
Posò un grosso fascicolo di carte sul tavolo e lo spinse verso di me. «Questo è il nostro piano di marketing. Non ho tempo di leggerlo e se anche lo facessi non sono sicuro che ci capirei granché. Mi hanno detto che è molto generico dal momento che stiamo rispondendo quotidianamente a nuovi sviluppi politici e locali e le cose cambiano. A breve inizieremo l’iter dell’assunzione per sostituire la persona che ha guidato tutto finora. È una facciata, ovviamente, perché tu sarai l’unica candidata».
«E la mia azienda?»
«Landon è uscito di scena e riceverai presto il denaro che ti serve. Trova un modo di mandarla avanti senza di te o vendila. Non mi importa».
«Se mi dai più tempo posso fare tutto da sola senza il tuo aiuto».
«Quanto tempo?»
«Un paio di mesi, forse. Non sono sicura», mentii. Realisticamente parlando, me ne sarebbero serviti sei, se non di più.
«No. Non c’è tutto questo tempo».
Mi protesi in avanti, sperando di persuaderlo. «Daniel, posso aiutarti a trovare qualcuno per quella posizione. Qualcuno con la mia stessa preparazione e le mie stesse qualità. Non capisco perché…».
«Erica, questa non è una negoziazione». La sua voce si inasprì abbastanza da attirare qualche sguardo dal locale. «Tu lavorerai alla campagna elettorale. Lavorerai per me. Ora vedo che stai cercando un modo creativo per uscire da tutto questo. Se lo fai, stai pur certa di tenere a mente una cosa. Non mi importa quanto Landon sia importante per te. Potrebbe anche essere il padre dei tuoi figli e io non esiterei a sbarazzarmi di lui. Non esiterei un secondo. Hai capito? Perché penso di non essere stato abbastanza chiaro l’ultima volta».
Il cameriere ci posò davanti gli hamburger e sparì senza dire una parola. Fissai il piatto. Non avevo il minimo appetito, quella minaccia mi aveva dato il voltastomaco.
«Erica».
Chiusi gli occhi e pronunciai le parole con più calma possibile: «Ho capito perfettamente. Se mi assumi per il mio cervello, comunque, potresti almeno dirmi fino a che punto dovrei mentire e lasciare che la gente mi calpesti. O tu sei l’unico che lo farà?»
«Qui non si tratta di te, stronzetta».
Sbatté la mano sul tavolo attirando altri sguardi annoiati dal locale. Spaventata, mi ritrassi sulla sedia per guadagnare qualche centimetro di distanza in più dalla sua rabbia.
«È per qualcosa di più importante e di maggiore successo di quanto non sia mai stata tu. La mia famiglia. La nostra famiglia. Abbiamo impiegato generazioni per strisciare via da posti come questo in modo da poter fare qualcosa di più grande. E tu ora ne farai parte. Una piccola, ma importante parte, e quanto prima te ne renderai conto, meglio sarà per te. E adesso mangia il tuo hamburger».
«Non ho fame», mormorai.
I suoi occhi si fecero così gelidi che presi immediatamente una patatina e iniziai a morderla. Mangiammo in silenzio e di tanto in tanto i nostri sguardi si incrociavano, freddi specchi azzurri l’uno dell’altro. Sarebbe stata una fortuna sfuggire alla sua collera per il tragitto di ritorno. Non si trattava di un battibecco con Blake o di tenere la gente a bada sul lavoro. Stavo stuzzicando un cane che neanche dormiva. Daniel poteva essere orgoglioso dei miei risultati, ma non avevo il lusso di essere la bimba di papà che poteva rivolgerglisi con quel tono. Non quando c’era in ballo la vita di Blake. In un modo o nell’altro dovevo imparare a tenere la bocca chiusa o giocarmela in altra maniera, perché affrontarlo così spudoratamente non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Connor mi lasciò in ufficio dopo un tragitto perlopiù silenzioso, fatta eccezione per la promessa di Daniel di farmi sapere quando mi sarei dovuta presentare alla loro sede centrale per incontrare lo staff. Avevo preso mentalmente nota e per il resto del percorso avevo fissato fuori dal finestrino, sentendo che la vita mi stava sfuggendo di mano.
Quando entrai trovai Risa seduta alla scrivania di James intenta a sorridergli e chiacchierare mentre lui spostava l’attenzione tra lei e il suo computer, chiaramente a disagio. Qualcosa di quella situazione mi fece scattare.
«Risa, posso parlarti un attimo?».
Raddrizzò la schiena, come se avessi rotto un incantesimo tra loro due che esisteva solo nella sua mente. Poi mi seguì nel mio ufficio.
«Questa storia deve finire», dissi schiettamente senza riuscire ad ammorbidire il colpo.
«Cosa?»
«Questo tuo modo di fare con James. Non possiamo permetterci questo tipo di distrazioni. Mi serve che ti concentri sul lavoro, non che passi la metà della giornata a flirtare alla sua scrivania».
«Non capisco cosa vuoi dire». Corrugò la fronte e si mise i capelli dietro le orecchie con un gesto nervoso.
«So che non abbiamo delle regole ufficiali circa i rapporti da mantenere in ufficio, anche perché, francamente, non pensavo che fosse un problema. Ma ora lo è e comincio a capire perché alcune aziende lo mettano per iscritto. Posa gli occhi su qualcun altro. Ho bisogno che lui lavori e che tu resti concentrata».
Chiuse la bocca di scatto e la sua faccia divenne rossa come un peperone. Non riuscii a capire se fosse più imbarazzata o arrabbiata, ma quel richiamo l’aveva colta totalmente impreparata. L’avevo ripresa qualche volta, ma mai rimproverata in modo così diretto. Solo che non avevo più la pazienza di girarci intorno. Non quel giorno.
«E allora tu e Blake?».
Per buona parte delle ultime due ore mi ero trattenuta dal dire a Daniel quello che pensavo davvero di lui. Avrei dovuto scegliere un momento migliore per parlarle, ma ormai c’eravamo. Mi espressi lentamente, cercando di non perdere il controllo.
«Lui è un finanziatore, non un impiegato e la nostra relazione non è affar tuo».
Lei protese le labbra e batté a terra la punta del piede.
«Okay, andiamo avanti. Ci sono aggiornamenti?», dissi sperando di annullare la tensione e tornare al lavoro.
Lei mi fissò per un secondo facendo un respiro profondo. «Parteciperò a un fund raising sabato. È una fondazione che finanzia corsi di informatica per i ragazzi dei quartieri poveri. Max pensa che sarebbe utile per noi essere presenti».
«Certo, mi sembra una cosa che possiamo seguire».
«L’ho pensato anch’io, ma non sapevo se il budget prevedesse le donazioni».
«Sono certa che potremo mettere insieme qualcosa».
«Grandioso. Fammi sapere e io organizzo».
«Sai, questo è il genere di eventi a cui parteciperei io».
Cercai di non sentirmi offesa dal suo sguardo sorpreso.
«Non pensavo. Sembri molto distratta ultimamente. Non volevo infastidirti con questo. So che hai altre cose da fare e occuparsi delle pubbliche relazioni è il mio lavoro. Scusami, immagino che avrei dovuto chiedertelo».
«Non c’è problema, ho avuto un sacco di cose da fare».
«Ci vuoi venire? Posso chiamare Max e farmi rimediare un biglietto in più».
Per un attimo presi in considerazione la sua proposta. Era da un po’ che non andavo oltre casa di Marie e l’ufficio. L’idea di stare tra la gente quando ancora mi sentivo così devastata mi terrorizzava abbastanza, ma una distrazione mi avrebbe fatto bene. Se non altro, fare pubbliche relazioni era meglio che stare sola con i miei pensieri.
«Penso che verrei in effetti. Potrebbe essere un cambio di marcia».
«Va bene, vedo cosa posso fare». Mi rivolse un sorriso tirato e se ne andò bruscamente.
Sospirai tra me e me, contenta che avessimo parlato. Se l’era presa, ma non volevo che le tensioni tra noi influenzassero il lavoro. E sapeva il cielo se non ero stata un disastro ambulante nelle ultime due settimane. Ero consapevole di come mi sentivo dentro, ma non avevo idea di come venissi percepita dal di fuori e per la maggior parte del tempo non me ne ero preoccupata. C’erano troppe cose in ballo in quel momento. Non avevo abbastanza energie per star dietro anche ai sentimenti dei dipendenti sul posto di lavoro.
Il resto della giornata passò velocemente. Ignorai il plico che mi aveva dato Daniel. Mi piaceva così tanto il lavoro che facevo, che di sicuro avrei provato un sincero interesse per i suoi contenuti. Era esattamente quello che voleva lui e non potevo accettare l’idea di assecondarlo in quel preciso istante. Aveva rovinato la mia relazione con Blake e io ero decisa a ritardare il più possibile il mio ingresso nella macchina politica dei Fitzgerald.