Capitolo undici

Vieni a fare colazione quando ti svegli.

Ti amo,

Blake

 

Rimisi il biglietto sul cuscino e mi stesi di nuovo. Fissai il soffitto come se ci fossero scritte le risposte alle mie domande. Avevo ancora tempo.

Mi avviai in bagno e provai a sistemarmi i capelli totalmente in disordine. Sui fianchi avevo lividi grandi come polpastrelli. Le natiche erano piene di piccoli puntini rossi, capillari rotti dalle severe frustate che mi aveva inferto Blake. Le guance erano paonazze.

Legata e alla mercé di Blake nel buio della notte, ero sopravvissuta al suo inaspettato ritorno, vincendo il panico e le paure. E soprattutto, in un certo senso, ne avevo avuto bisogno, per demolire la confusione che avevo in testa. I miei timori mi erano sembrati piccoli e insignificanti alla luce della tragedia incombente.

Dopo aver fatto la doccia ed essermi vestita, guardai fuori dalla finestra. La Tesla di Blake era parcheggiata lì davanti. Poche macchine dopo, c’era una Lincoln nera e mi sembrò proprio di cogliere uno scorcio di capelli rossi sul sedile del conducente. Poi il rumore di stoviglie in cucina richiamò la mia attenzione.

Entrai in soggiorno con cautela, i nervi a fior di pelle. C’era Sid al tostapane, che si stava preparando la colazione. Mi rilassai un po’, sollevata che non fosse Blake. Quanto meno non lo avevo trovato lì quella mattina. La notte non avevo avuto l’energia per prepararmi psicologicamente a un risveglio accanto a lui. Non avevo pianificato niente. Niente di niente.

«Ti sei alzato presto», dissi.

«Sì, sto cercando di impormi una tabella di marcia migliore. A quanto pare i nostri amici hacker sono in vacanza così non ho dovuto fare nottata e questo aiuta».

«Davvero? Si sono fermati?»

«Così pare».

«Wow». Ripensai al mio incontro con Trevor. Non aveva mostrato di avere neanche un briciolo di volontà di perdono nel cuore e la nostra conversazione non sembrava averlo minimamente convinto a porre fine agli attacchi. Forse però averlo rintracciato a casa sua lo aveva scosso a sufficienza da spingerlo a desistere. Mi chiesi se avesse riservato lo stesso trattamento alle altre joint venture di Blake o se avesse deciso di risparmiare solo me.

«Speriamo che si levino di mezzo, così possiamo finalmente tornare al lavoro».

«Pensi che sia possibile?»

«Non ne ho idea. Il codice ora è molto solido e mi riesce difficile pensare a come possano infrangerlo di nuovo, ma non possiamo difendere quello che non riusciamo a vedere. Immagino che dovremo aspettare e vedere se rispuntano fuori».

«Giusto», concordai. «Ascolta, Sid. Sono sicura che non farà molta differenza per te, ma vado a stare da un’amica per un po’, quindi, se non mi vedi in giro, sai il perché».

«Ma continuerai a venire in ufficio?»

«Certo».

Il viso era impassibile mentre sedeva al piano della cucina. Spezzò in due il suo biscotto Pop-Tarts ma, quando mi guardò, colsi un accenno di preoccupazione nei suoi occhi.

«Va tutto bene?».

Per quanto apparisse indifferente, sapere che si preoccupava era molto importante per me. Avevamo uno strano rapporto di amicizia, che si era fatto più profondo nel tempo. Non seppi bene cosa rispondergli.

«Penso che andrà bene. Lo dirà il tempo».

Sid annuì semplicemente, anche se ero stata alquanto sibillina e non ci credevo del tutto neanche io. Grazie al cielo non era uno che insisteva.

 

Bussai piano alla porta di Blake, anche se in tasca stringevo la sua chiave. Mi salutò con un sorriso che quasi mi tolse il fiato. Era stupendo con i jeans strappati e una semplice maglietta bianca. I capelli erano ribelli e spettinati. Nonostante la lunga notte appariva riposato e felice.

«Ciao, bellissima». Mi sollevò in braccio e mi baciò.

Ricambiai, schiava dell’abitudine di sciogliermi al suo tocco e bramando la sua pelle contro la mia. Cosa diavolo mi ero messa in testa? Tutto quello non sarebbe mai stato neanche lontanamente facile.

«Cosa vuoi per colazione?».

Mi posò a terra ma rimase vicino, attorcigliandosi un ciuffo dei miei capelli intorno al dito. Scossi il capo e distolsi lo sguardo, fisicamente incapace di guardarlo dritto negli occhi.

«Va tutto bene?»

«Sì». Rimasi così, stranamente paralizzata. «Possiamo… parlare?»

«Certo». Socchiuse gli occhi e fece un passo indietro verso l’interno, chiudendo la porta alle nostre spalle. Avanzò ancora, ma io indugiai all’ingresso, non volevo sentirmi troppo a mio agio. Non potevo comportarmi come sempre.

Mi dondolai avanti e indietro per un po’. Lui inarcò impercettibilmente le sopracciglia. Merda, avrei dovuto mandargli una mail. Non riuscivo a dirglielo a quattr’occhi.

Puoi farcela. Devi farcela.

«Penso che abbiamo bisogno di un po’ di spazio». Digrignai i denti per fermare il tremore che aveva preso il via. Strinsi i pugni, determinata a non cedere.

Tutto il calore e la rilassatezza sparirono dal suo viso. «Che significa?». Parlava a bassa voce, lo sentivo a malapena.

Merda, stava succedendo. Stava succedendo davvero.

«Vado a stare da Marie per un po’. Mi serve un po’ di tempo e penso che sarà più facile se vado via da qui».

«Tempo? Quanto tempo?»

«Non lo so».

Non ne avevo idea. Non avevo assolutamente abbandonato il piano di tirarci fuori da quel casino, ma avevo bisogno di stare un po’ con Daniel per capire come arrivarci. Nel frattempo, non potevo mettere in pericolo Blake. La sua vita… non potevo rischiarla. Il pensiero che Daniel mettesse in pratica la sua minaccia mi colpì di nuovo – un pensiero terribile, che mi diede la lucidità e la determinazione cui attaccarmi in quel momento.

Solo così lo avrei protetto. Lui mi aveva scelto, aveva provato a proteggermi ed ecco com’era andata a finire.

«Ma da dove diavolo salta fuori questa? Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

Scossi il capo, non volevo che si desse la colpa, ma sapevo che, in un modo o nell’altro, sarebbe stato così.

«È solo che è troppo in questo momento. Sono indietro con il lavoro, non riesco a concentrarmi. Poi è arrivata questa notizia di Mark ed è stato uno shock. Non ho davvero avuto tempo per metabolizzare tutto». Tristemente, la maggior parte delle cose era vera ed era forse l’unico motivo per cui riuscii a pronunciare quelle parole. «E non posso farlo se ho te vicino in questo momento».

Scosse il capo, gli occhi spalancati. Stavo per abbandonare il mondo sicuro di Blake e scivolare via dalla sua presa.

«No. Io… cazzo, no. Possiamo risolverla, qualunque cosa sia. Non abbiamo ancora avuto la possibilità di parlare da quando sono tornato, Erica, e ora mi butti addosso questa cosa?».

Lo interruppi subito, per paura di lasciargli condurre la conversazione. «Ho pensato a molte cose, e tanto, mentre eri via». A quanto ti amo, al fatto che non riesco quasi a respirare senza di te. «E penso che in questo momento sia la cosa migliore. Ti voglio bene, Bl…».

«Tu mi vuoi bene?». Si accigliò.

L’avevo punto sul vivo.

Fece un passo avanti e io indietreggiai contro la porta, come se il volume della sua voce potesse mettermi al tappeto. Sentivo la sua rabbia come un’esplosione fisica. Il veleno delle sue parole si fece rapidamente strada nei miei nervi. Le lacrime premevano e strizzai gli occhi per ricacciarle indietro.

«Ti prego, Blake, dammi solo un po’ di tempo. È tutto quello che ti chiedo». La mia voce era un sussurro.

«È per via di James?».

Lasciai che quel pensiero mi attraversasse la mente per un attimo. Mi stava fornendo una motivazione, una che lo avrebbe fatto soffrire profondamente. Avrei potuto ammettere quella bugia e mi avrebbe creduto. Di certo il pensiero di un’infedeltà sarebbe stato abbastanza devastante da danneggiare seriamente l’amore che provava per me, senza farlo dubitare che gli stessi dicendo la verità.

Scossi il capo. Non avrei potuto sopportare le conseguenze di una bugia come quella.

«No. Non ha niente a che vedere con James».

«C’è qualcosa che non mi stai dicendo, Erica. Come siamo passati da te ubriaca che volevi fare sesso al telefono con me, da ieri sera che, tra parentesi, è stato meraviglioso, a questo?».

Doveva avere risposte. Non mi avrebbe lasciato andare se non gliele avessi date. Forse quando fossimo arrivati ad accettare la separazione, avrei potuto dirgli qualcosa di sensato. Ma non in quel momento. Era tutto troppo duro. Se ne sarebbe accorto solo guardandomi.

C’erano troppi non detti, ma non potevo rivelargli la verità. Sarebbe andato da Daniel e ci saremmo trovati in un casino ancora peggiore. Gesù, forse nessuno di noi sarebbe sopravvissuto. Come in un film di Quentin Tarantino in cui alla fine perdi il conto dei cadaveri insanguinati che restano a terra. Noi saremmo stati tra quelli, senza nessun vincitore. Solo un fottuto grande ammasso sanguinolento.

«Ti amerò sempre», sussurrai, per paura di dire quelle parole con la passione che provavo davvero. Una volta dette, mi rilassai un po’. La verità sembrava la cosa giusta e aveva bisogno di sentirselo dire quanto meno. «Lo so che sei arrabbiato e ne hai tutto il diritto, ma ti prego, non dubitare di questo».

Si avvicinò, sollevando un braccio per appoggiarlo alla porta. Sobbalzai all’indietro. Mi sentii un animale maltrattato pronto a essere colpito, come in quella frazione di secondo pensai che stesse per accadere. Poi abbassò la mano e mi guardò duramente. Si infilò le dita tra i capelli. Feci un profondo respiro, desiderando di potergli rivelare chi aveva fatto nascere in me la paura di essere schiaffeggiata, per risparmiargli questo dolore.

Sarà doloroso. Ero lì per sferrare il colpo, non per ammorbidirlo.

Armeggiai con le fibbie dei miei braccialetti e sollevai i due fili brillanti per darglieli. Sperai per un secondo che li prendesse, li accettasse, ma lui restò immobile davanti a me, con quei suoi occhi nocciola piantati nei miei. Distolsi lo sguardo, incapace di sopportare la loro implorazione e con la paura che mi leggesse dentro. Quando mi fu chiaro che non li avrebbe presi, lo superai e li poggiai sul bancone con le chiavi di casa sua.

Mi voltai per andarmene.

«Fermati».

Guardai la porta, la mano sulla maniglia, pronta a girarla.

Era vicino. Il suo respiro rotto mi accarezzava la pelle.

«Lo stai facendo di nuovo. Stai scappando».

«Non sto scappando. Sto andando via».

«E se stavolta non ti lasciassi tornare indietro? Cazzo, quante volte devo permetterti di farci questo?».

Serrai la mascella; non sopportavo l’idea che potesse essere l’ultima possibilità che mi concedeva.

«Guardami, maledizione». Sbatté il palmo della mano contro la porta.

Sobbalzai per il rumore e per il tono della sua voce. Feci un profondo respiro e mi voltai lentamente per guardarlo.

«Dimmi la verità del perché lo stai facendo e io ti dirò perché è sbagliato».

«Te l’ho detto. Ho bisogno di tempo».

«Stronzate».

«Devo andare».

«No, tu devi stare qui con me. È questo il luogo cui appartieni».

Chiusi gli occhi e scossi il capo. Non riuscivo a credere di aver trovato la forza di arrivare a quel punto, ma dentro di me ero distrutta. Il mio amore per Blake lottava per prendere il controllo sulla reale minaccia da cui dovevo proteggerlo.

Dovevo andar via prima di perdere la mia determinazione. Mi voltai e me ne andai senza dire un’altra parola.

Cercai di sbrigarmi, ma l’enorme peso delle emozioni mi rallentava, mi annebbiava. In uno stato confusionale e distaccato feci tutti i movimenti richiesti per fare i bagagli, mentre le lacrime mi offuscavano la vista. Come ci fossi riuscita non lo avrei mai capito, ma infilai nella mia grossa valigia la maggior parte delle cose che mi sarebbero servite per una settimana.

Sid era in camera sua, non in vista, per cui, grazie al cielo, non dovetti incontrarlo di nuovo. Uscii e, per pura abitudine, passai in rassegna la strada in cerca della Escalade nera e di Clay. La minaccia rappresentata da Mark era stata eliminata e Blake era di nuovo in città. Non stavamo più insieme quindi non avevo più bisogno del baby-sitter. Nonostante fossi sempre stata contraria a quella faccenda della scorta, mi ero affezionata a Clay.

Il mio sguardo si spinse lungo la strada e notai una presenza meno gradita. Connor era appoggiato alla macchina. Quando mi vide si toccò il cappello. Nient’altro che un gesto, presunsi, dal momento che aveva sicuramente il compito di riferire a Daniel ogni mia mossa. Lo avrebbe fatto fino a che mio padre non si fosse convinto che tra me e Blake era finita.

Mi avviai verso di lui, tirandomi rumorosamente dietro la valigia. «Puoi dirgli che l’ho fatto. E adesso lasciami in pace, cazzo».

La sua faccia era severa e impassibile, esattamente come l’ultima volta che l’avevo visto. «Riferirò il messaggio».

Lo oltrepassai e fermai un taxi, iniziando il mio viaggio verso casa di Marie, alla periferia della città. Non appena lasciammo Commonwealth Avenue, mi accertai che Connor non ci seguisse. Grazie al cielo non lo fece. Marie era l’ultima persona su cui volevo attirare l’attenzione di Daniel. Non aveva idea che fossimo ancora in contatto e lei era una delle pochissime persone che sapevano quale fosse il vero rapporto tra me e lui.

Il taxi schizzò via nel poco traffico. La gente dava inizio alla propria giornata. Gente normale, felice, con problemi semplici. Io stavo lasciando l’unica casa che avessi mai conosciuto e Blake aveva ragione. Stavo scappando. Era una fuga inutile e disperata dal mondo che mi ero costruita e che amavo davvero.