Capitolo dieci

«Fammi scendere qui».

Connor rallentò fino a fermarsi a pochi isolati dal mio ufficio. Allungai la mano sulla maniglia. Daniel mi afferrò per il polso, bloccandomi prima che potessi finalmente uscire dall’auto, come avevo desiderato per tutto il tragitto. Avevo preso in considerazione l’ipotesi di lanciarmi fuori dalla macchina in movimento, ma poi ci avevo ripensato.

«So che stai pensando che lo faccio per la campagna elettorale, ma lo faccio per te. Per noi. Io ho fatto un sacrificio e ora devi farne uno tu».

Fissai lo sguardo nel vuoto fuori dal finestrino. Dopo tutto quello che era successo, voleva la mia benedizione, il mio perdono? C’era quasi da ridere.

«Guardami».

Strizzai gli occhi prima di obbedire.

«È troppo coinvolto in questa faccenda e non ho altra scelta. Cerca di capire cosa c’è in ballo prima di decidere di odiarmi».

Colsi un lampo di rammarico nei suoi occhi. Forse stava tornando sobrio, ma la parte di me che una volta si sarebbe ammorbidita a quelle sue parole, era stata messa definitivamente a tacere. Solo pochi giorni prima avevo desiderato conoscerlo meglio. Ora avevo avuto un assaggio di chi era veramente – un uomo oscuro e violento sotto abiti e tessuti eleganti. Avevo visto troppo e non c’era modo di tornare indietro.

«Posso andare adesso?». Non ero sicura di quanto ancora sarei riuscita a sopportare la sua vicinanza. Iniziavo a bramare l’afa estiva all’esterno dell’auto, a fremere per liberarmi di lui e del suo maledetto scagnozzo. Le sue minacce e quel suo distorto amore paterno mi stavano soffocando. L’istinto di mettermi a urlare stava per venire a galla. Se non fossi uscita subito da quell’automobile, sarei scoppiata.

Alla fine mi lasciò andare. Scesi, sforzandomi di mantenere un minimo di grazia, quando invece avrei voluto precipitarmi fuori e scappare con la massima velocità che le mie gambe mi avessero permesso. Invece, tenni un passo normale fino all’ufficio, senza mai voltarmi indietro.

Quando arrivai, trovai James. Aveva lo sguardo incollato allo schermo del suo computer. Non appena mi vide, si alzò e mi venne vicino.

«Gesù, stai bene?».

Non avevo pianto, ma il mio viso era arrossato e congestionato. Tenni gli occhi bassi, quasi stordita e fin troppo cosciente del segno rosso che mi aveva lasciato Daniel quando mi aveva colpito. Speravo che a vederlo fosse meglio di come lo sentivo – fisicamente quanto meno. Niente poteva apparire tanto terribile come mi sentivo io dentro.

«Sto bene», risposi. Presi in considerazione l’eventualità di restare, lavorare a qualsiasi cosa mi sottoponesse, ma non riuscivo a pensare in maniera lucida. Non c’era verso. «Dovremo rimandare tutto a lunedì. Grazie comunque per essere venuto».

Rimase in silenzio per un attimo. Mi prese il mento, sollevandomi il viso perché lo guardassi negli occhi, sorprendentemente intensi. Non eravamo mai stati così vicini alla luce del sole perché potessi notarli, ma erano di un blu profondo e insondabile con venature grigie. Mi accarezzò delicatamente la pelle arrossata con il dorso della mano con espressione indecifrabile.

«Chi è stato?».

Feci un passo indietro, improvvisamente presa dal panico a quel contatto. «Nessuno. Non è niente. Sto bene».

Mi ritirai nel mio ufficio. Mi tremavano le mani così forte che a malapena riuscii a prendere le mie cose per infilarle nella borsa. James comparve non appena ebbi finito.

«Erica».

«Ci vediamo lunedì», borbottai velocemente mentre gli passavo davanti, lasciandolo prima che potesse dirmi altro.

 

Camminai per diversi isolati fino a che i miei piedi si stancarono di portarmi oltre. Mi fermai su una panchina di un parco nel cuore della città. Le strade erano silenziose. Le nuvole avevano cominciato a diradarsi e il sole sembrava quasi deciso a uscire fuori di nuovo. Sfortunatamente poteva fare ben poco per risollevarmi l’umore.

La minaccia di Daniel riecheggiava nella mia mente. Se avesse messo in gioco qualsiasi cosa che non fosse la vita di una persona, avrei pensato che fosse un bluff. Ma lui aveva ucciso Mark. Ed era andato così oltre da farlo sembrare un suicidio e la polizia, anche se non fosse stata pagata, l’avrebbe bevuta. Altrimenti Daniel non avrebbe corso il rischio. Il caso era chiuso, la vita di qualcuno spenta. Non che la vita di Mark fosse la più onorevole, ma chi era Daniel per decidere? Aveva assassinato il suo figliastro.

Che cosa gli avrebbe impedito di fare lo stesso con Blake? Aveva ragione. Blake se lo poteva vendere e comprare. Ma Daniel era potente e aveva un’impressionante rete di contatti costruita generazione dopo generazione. Non dubitavo che avrebbe potuto far togliere di mezzo qualcuno se lo avesse ritenuto necessario. L’unica perplessità che avevo era se sarebbe stato capace di farlo pur sapendo quanto Blake fosse importante per me. Dipendeva molto da quanto io lo fossi per Daniel. Da una parte mi aveva detto che ero il suo orgoglio e la sua gioia. Dall’altra, mi aveva dato un tale ceffone da sbattermi contro la macchina e sembrava compiacersi di esercitare quel tipo di controllo su di me. Non lo avrei definito amore.

Ma dovevo trovare il modo di uscire da quel casino e far sì che io e Blake potessimo restare insieme. Se avessi avuto un po’ più di tempo, avrei potuto consolidare il mio rapporto con Daniel e fargli capire che Blake non rappresentava una minaccia, non era suo nemico. Se ci fossi riuscita, io e Blake avremmo avuto un futuro. In un modo o nell’altro dovevo però convincere Blake ad allontanarci per un periodo e non era una richiesta che riuscivo a immaginare in quel momento. Avevamo litigato e battibeccato e ci eravamo dati addosso, ma volevamo stare insieme. Eravamo più vicini che mai. A quel punto, invece, dovevo prenderne le distanze. Se non lo avessi fatto… non riuscivo neanche a pensare a cosa sarebbe potuto succedere.

E con chi ne avrei potuto parlare? Non potevo fidarmi di Alli perché era troppo vicina a Heath. Marie si sarebbe preoccupata troppo o, peggio, sarebbe andata alla polizia. Chiunque avesse saputo che Daniel aveva ucciso una persona, anche se presumibilmente per il mio bene, sarebbe stato solo un altro a rischiare la vita. Avrei dovuto portare da sola il peso di quella terribile verità, almeno per il momento.

Non sapevo bene quando sarebbe rientrato Blake dalla California, ma la prima cosa da fare era lasciare l’appartamento prima che tornasse. Chiamai Marie.

«Va tutto bene?», mi chiese.

«Ho bisogno di parlare con te di Daniel».

Rimase in silenzio per un momento. «A che proposito?»

«Voglio sapere cos’è successo tra lui e mia madre. Tutto quello che sai».

La udii sospirare e in quel preciso momento capii che non mi avrebbe reso le cose tanto facili.

«Erica, stai parlando con la persona sbagliata. Tua madre lo conosceva, non io».

«E tu conoscevi lei. Sei la persona che le era più vicina quando stavano insieme».

«E allora? Hanno avuto una relazione breve e appassionata e poi hanno preso strade diverse. Questo è quanto. Non so cosa vuoi che ti dica, onestamente».

Chiusi gli occhi e pensai a mia madre. Al suo viso. Ai suoi bei capelli biondi e al suo sorriso, al modo in cui mi stringeva quando più mi serviva conforto. Avevo bisogno di lei in quel momento, più che mai. Sentii un groppo in gola per l’emozione e feci un respiro profondo per liberarmene. Piangerci sopra non mi avrebbe portato da nessuna parte. Mia madre era morta e mio padre era uno psicopatico. Ecco la realtà della mia vita.

«Posso venire a stare da te per un po’? Magari un paio di settimane fino a che non trovo un’altra sistemazione?», dissi infine.

«Certamente. Vuoi che ti venga a prendere? Mi stai facendo preoccupare». Aveva cambiato tono: non era più sulla difensiva, ma mi dimostrava tutto il suo supporto. Far credere a lei che stavo bene, però, sarebbe stato più facile che convincere Blake a interrompere la nostra relazione.

«No, faccio io. Non preoccuparti, okay?»

«Okay, sono qui».

Riagganciai e iniziai il lungo tragitto verso casa.

 

Trascorsi l’ultima notte nel mio appartamento. Ero esausta per gli avvenimenti di quella giornata e avevo bisogno di fare ordine nei miei pensieri prima di prendere in considerazione l’idea di affrontare chiunque.

Ma dormire non fu un grande sollievo dopo la giornata che avevo avuto. Nel sonno fui tormentata tanto quanto lo ero stata ore prima. Mi svegliai di soprassalto, in preda al terrore che fosse accaduto qualcosa, ricoperta da un sudore freddo. Mi infilai sotto le coperte. Nella finzione dei sogni i miei peggiori incubi mi apparivano reali. Che Daniel avesse messo in pratica le sue minacce. Che Blake fosse scomparso. Perso, irrimediabilmente. Mi rannicchiai in posizione fetale e mi concentrai per tornare alla realtà. Blake era sano e salvo, ma solo se fossi riuscita a tenerlo al sicuro.

L’opprimente pensiero che, in un modo o nell’altro, ero stata io a causare tutto quello a me, a tutti noi, prese il sopravvento. Perché ero stata io, no? In qualsiasi modo la considerassi, tutto riportava a me. Mark era morto e la sua povera madre non avrebbe mai saputo la verità. Dopo i suoi tentativi per salvare me, da Mark e dalla verità, ora era Blake nel mirino di Daniel. E io avevo davanti un futuro così ignoto che non potevo nemmeno sondare. Una vita al fianco di Daniel, finché lui non avesse niente da ridire in proposito. Non riuscivo a immaginare cosa significasse far parte della sua vita di politica, avidità e manipolazione. Una vita che senza dubbio Mark aveva conosciuto fin troppo bene.

Mi aggrappai all’immagine della vita che avevo sperato per me. Una visione che prima non riuscivo a mettere a fuoco, forse per paura di cosa comportasse; una in cui io e Blake avevamo un futuro insieme, in cui appartenevamo l’uno all’altra e nessuno minacciava di portarcela via. Avevo osato pensare al matrimonio, a costruire una famiglia. Fui sopraffatta dalle lacrime, che esaurirono le mie ultime forze, fino a che non caddi di nuovo in un sonno senza ristoro.

Daniel emergeva dalla nebbia. Mi trovava, mi inseguiva. Poteva farlo perché Blake se n’era andato per sempre. La scena si ripeteva all’infinito finché non mi rendevo conto che non avrei mai avuto scampo. Entravo e uscivo da uno stato di coscienza, cercando di rimuovere quei pensieri terribili dal mio organismo. A un tratto al freddo si sostituì un calore improvviso. Spossata da quel senso di sollievo, mi rilassai. Sentii Blake tutt’intorno a me che scacciava il pianto. Il mio amante. Il potere del nostro amore avrebbe sicuramente controbilanciato le minacce di Daniel e l’incertezza che in quel momento mi trovavo ad affrontare. In qualche modo riusciva ad andare avanti…. Nei miei sogni cercai di credere fortemente che fosse così. Mi aggrappai a quella promessa.

Ma non era un sogno. Blake era con me, che mi accarezzava con tutto il suo amore, spazzando via le preoccupazioni con i baci. Nella fioca luce della stanza aprii gli occhi e incontrai i suoi. Così familiari e già così estranei, mi guardavano pieni d’amore, di preoccupazione. Mi prese tra le braccia e mi baciò appassionatamente e a fondo. Lo baciai a mia volta con il disperato desiderio di averlo di nuovo con me. Lo respirai, non riuscendo quasi a credere che fosse reale.

«Un altro incubo?», sussurrò.

Scossi il capo. No, è la mia vita a essere un incubo ora. Mi strinsi il labbro tra i denti perché smettesse di tremare. Lui non sapeva. Non potevo dirglielo.

Lo liberò con il pollice e portò di nuovo la sua bocca sulla mia. In un attimo si stese vicino a me, con ancora i vestiti del viaggio. I pensieri mi affollavano la mente mentre cercavo di separare i sogni dalla realtà. Il sollievo che fosse di nuovo con me fu rapidamente sopraffatto da quello che significava. Mi aggrappai a lui, prendendolo per le spalle come se potesse lasciarmi ancora. Dovevo tenerlo vicino a me.

«Mi sei mancata così tanto». Mi baciò il collo, la mandibola, poi di nuovo le labbra, come se non ne avesse abbastanza di me, ma non sapesse da dove cominciare. «Non potrò più stare lontano da te così».

L’amore nella sua voce, rotta dall’emozione, mi distrusse. Se solo non mi avesse amato, sarebbe stato tutto più facile. Il mio cuore avrei potuto curarlo, e mi sarei rimessa in sesto come avevo già fatto altre volte. Ma il pensiero di lasciarlo, l’idea che lui potesse soffrire una frazione di quanto avrei sofferto io per quella separazione, era insopportabile.

Infilò una mano sotto la mia canottiera, palpandomi il seno e sfiorandomi il capezzolo con il pollice. Poi lo pizzicò e io annaspai, inarcando la schiena.

«Fai l’amore con me, Blake. Ti prego, non posso più aspettare».

Lasciai scivolare la mia mano sul suo corpo, ricordandone ogni superficie, la parte soda dei muscoli che portavano sotto la vita dei jeans. Schiacciai le labbra contro le sue e mi avvinghiai intorno a lui in ogni modo possibile. L’intensità di quello che provavo si irradiò su gambe e braccia e mi agitai per rimuovere tutti i lembi di stoffa che ci separavano. Niente contava più in quel momento. Dovevo solo amarlo quella notte, concederci il massimo.

Lui si spogliò e un secondo dopo si abbassò su di me, coprendo il mio corpo con il calore del suo. La sensazione della sua pelle sulla mia mi vinse. Non lo avevo mai voluto così tanto, mai amato così tanto. Feci scorrere le mani sul suo petto e giù lungo il suo corpo fino a che non raggiunsi la sua erezione, quella pelle di seta bruciava tra le mie mani. Non riuscii ad aspettare un minuto di più per averlo. Lo guidai dentro di me e lui mi penetrò in profondità con un’unica spinta.

Un urlo rauco mi uscì dalle labbra con quella penetrazione improvvisa. Niente mi era mai sembrato tanto giusto. Rimanemmo così a lungo, tenendoci stretti l’uno all’altro, come se uno dei due potesse scomparire da un momento all’altro.

«Sono a casa ora. Proprio qui».

Iniziò a muoversi dentro di me, incredibilmente a fondo, facendomi inarcare e bramare ogni lenta spinta. Avvolsi braccia e gambe intorno a lui fino a che i nostri corpi non aderirono completamente, del tutto avvinghiati.

Mi prese la guancia nella mano, intrappolandomi nel suo sguardo. Non ce la facevo. Chiusi gli occhi e mi girai dall’altra parte. Avevo paura di quello che avrebbe potuto vedere se avesse guardato troppo a fondo. Mi costrinse di nuovo a girarmi verso di lui e mi baciò, spingendosi più in fondo che poté. Sussultai, godendomi quelle familiari ondate di calore che saturavano ogni cellula del mio essere. Braccia e gambe fremevano.

Cercai di non pensare all’altro lato della medaglia, la lunga caduta dalla straordinaria beatitudine che mi dava all’oscurità di una vita senza di lui. Cercai di non pensarci, ma la fredda e dura realtà si insinuò nel mio cervello.

Il tempo scorreva, il mio corpo rifiutava di ascendere, ribellandosi a quel richiamo irresistibile. Se solo avessi potuto fermare quel momento – i nostri corpi stretti all’inverosimile, scivolosi per il calore della nostra passione, all’infinito. Avrei potuto vivere così, senza mai raggiungere la cima, se avesse voluto dire non ridiscendere mai.

Distolsi lo sguardo, fissando il buio della camera, i miei pensieri troppo lontani da noi. Lui mi rigirò il viso verso di sé, l’espressione provata, la pelle tesa e arrossata.

«Maledizione, che succede?».

Balbettai, cercando di trovare le parole. «Mi dispiace, non ti fermare, ti prego».

«A cosa stai pensando?»

«A niente, non voglio pensare ad altro che a te».

Si bloccò, poi, senza preavviso, si tirò via da me e lasciò il letto. Frugò nella borsa da viaggio accanto alla porta. Non avevo idea di come riuscisse a vedere con quel buio.

«Che stai facendo?»

«Faccio in modo di portarti in uno stato mentale migliore».

Il letto si abbassò di nuovo sotto il suo peso.

«Ho pensato alcune cose mentre ero via, piccola, e penso che serva più a te che a me. Cominceremo lentamente, però».

Mi mancò il fiato mentre mi tendeva le braccia sopra la testa, incastrandomi i polsi in due morbide manette di cuoio, legando poi la giuntura a una delle sbarre del letto.

«Ecco. Così va meglio. Stai bene?»

«Che hai intenzione di fare?». Era una preghiera a bassa voce. Una parte di me era impaurita da quello che poteva fare, ma avevo bisogno di qualcosa e subito.

Mi prese per i fianchi e mi tirò giù fino a che le mie braccia non furono tese al massimo sopra alla mia testa. Il mio respiro si strozzò, i muscoli si contrassero per via della posizione. Mi stampò un bacio umido tra i seni e sospirai. Muovendosi da uno all’altro, solleticò i capezzoli con leggeri colpi di lingua, fino a renderli ipersensibili, quasi dolorosamente duri e protesi senza pudore in quella lenta tortura. Li morse con delicatezza e il mio corpo si contorse dal piacere che mi esplodeva dentro.

Continuò a passarmi in rassegna con una mano mentre l’altra scivolò tra le mie cosce sul nucleo del mio desiderio. Mi sollecitò il clitoride, scivolando sulla vagina e poi di nuovo indietro, mentre dentro di me le palpitazioni acceleravano con i suoi movimenti.

Quando pensavo che non avrei più resistito, si fermò e mi girò a pancia in giù, tirandomi le braccia al massimo. La giuntura delle manette si torse intorno alla sbarra, aumentando la tensione sui miei polsi.

Mi leccò lungo la schiena facendomi fremere. Le sue cosce strusciavano sulle mie mentre le sue mani scorrevano delicatamente sulla mia schiena, strizzandomi le cosce e il sedere.

«Mmh quanto mi è mancato questo. Ho pensato di sculacciarti ogni notte che sono stato via».

Mi morsi il labbro. Sapevo cosa stava arrivando e mi bagnai per l’anticipazione, il languore tra le gambe iniziava a pulsare.

«Non ti sei comportata molto bene mentre sono stato via, non è vero?».

Scossi il capo più che potei.

Il suo palmo si stampò duramente sul mio sedere. Sussultai per lo shock del dolore. Poi mi invase un’inaspettata ondata di piacere.

«Qualcun altro ha messo le mani su di te. Faremo in modo che non succeda mai più, vero?».

Mi imbarazzai al ricordo di James.

«Erica, rispondimi». La sua voce era dura e tagliente e la sua mano mi colpì duramente lì dove si era scagliata poco prima.

«No, prometto», gemetti, sempre più cosciente dell’umidità che aumentava tra le mie gambe.

Continuò a punire lo stesso punto, fino a che la mia testa non prese a ronzarmi per un misto di adrenalina e inspiegabile desiderio. Non erano gentili sculacciate giocose. Erano forti e dure, riecheggiavano nella stanza, ognuna di esse mi provocava un bruciore che mi faceva irrigidire in un’attesa ansiosa della successiva.

Era così severo sulla mia pelle che giurai fosse una vera punizione.

Volevo che fosse così, e mi concessi di crederlo. Mi convinsi che Blake mi stesse punendo e glielo lasciai fare. Per aver scatenato la sua gelosia, per aver permesso a James di avvicinarsi tanto. E per quello che stavo per fare a lui, a noi, lo meritavo.

«Ti voglio sentire». La sua mano mi colpì di nuovo, risvegliando la pelle ormai insensibile per l’endorfina. «Voglio sentire quei piccoli gemiti disperati che mi fai. Sapere che quello che ti sto facendo ti fa impazzire dentro quel tuo corpicino stretto».

Non emisi alcun suono, le grida mi si fermarono in gola.

«Erica», sbottò. La voce tagliente mi fece rinsavire.

«Ancora», gridai, «Ne voglio ancora. Più forte». Inspiegabilmente, lo dissi.

Respirò con affanno. «Ne sei sicura?».

Sollevai i fianchi verso la sua presa e mi aggrappai alle sbarre del letto. «Blake, ti prego», gemetti, vinta dal bramoso desiderio di una punizione che meritavo così tanto.

Lui lasciò il letto e sentii di nuovo dei movimenti accanto a me e poi ancora un rumore di vestiti che cadevano a terra. Tornò su di me, a cavalcioni.

Una larga striscia di cuoio seguì il suo tocco, fredda contro la mia pelle ardente. I palmi mi si bagnarono di sudore per la paura e la lussuria, e scivolavano sulle sbarre. Un lieve tremore si fece strada nel mio corpo. Il petto ansante, cercai di riprendere fiato e aspettai.

«Dimmi se è troppo», mormorò. «Usa il tuo… dimmi semplicemente basta, okay?».

Mi inarcai, il mio corpo chiedeva di più, anche se la mente non ne coglieva ancora il senso. Qualunque dolore fosse venuto, me l’ero guadagnato o stavo per farlo.

«Fallo».

Udii il rumore del cuoio sulla mia pelle prima ancora che il dolore arrivasse al cervello. Spalancai la bocca in un grido silenzioso mentre sentivo le fitte pulsanti. Cazzo, cazzo se faceva male.

Si fermò, aspettando che dicessi qualcosa. Poiché non lo feci, mi diede un’altra frustata. Morsi il cuscino sotto di me e repressi un grido. Era innegabile che facesse male. Tutto il mio corpo si irrigidiva a ogni colpo. Perché lo stai facendo? Le lacrime mi bruciavano gli occhi, la gola era chiusa dall’emozione repressa. Te lo meriti. L’hai voluto tu. Prenditele. Prenditele tutte.

«Stai bene, piccola?»

«Continua, continua, cazzo», gracchiai, la voce rotta dall’urgenza di piangere.

Lui esitò, poi rilasciò la striscia di cuoio con precisione misurata. Ancora e ancora, mi flagellò sul sedere e sulle cosce. In un modo o nell’altro il dolore spezzava l’infelicità che era caduta su di me. Singhiozzai nel cuscino. Le lacrime si sparsero ovunque, impregnando la stoffa, purificandomi, distruggendomi.

Accolsi la punizione, accettai la manifestazione fisica di quello che mi si agitava dentro. Tutto era liberatorio. Il mio corpo si afflosciò, anche mentre lui continuava, come se fossi totalmente distrutta, spogliata, nuda; ridotta allo stato più esposto che potessi immaginare. Non riuscivo a capire perché, ma c’era qualcosa che mi sembrava terribilmente giusto in tutto quello.

Quando i miei singhiozzi rallentarono, si fermò e lanciò via la cinghia. Mi baciò la schiena dolcemente, le mani come una piuma sulla mia pelle, a lenire il dolore. Il calore del suo corpo copriva il mio. La sua erezione era posata sul mio sedere, un peso perfino eccessivo per la carne dolorante in quel punto. Piacere e dolore. Era un maestro e dare entrambe le cose insieme. Ora avevo bisogno di piacere. Ero pronta.

«L’hai affrontata davvero bene. So che non è stato facile. Sono orgoglioso di te».

Mi si strinse il cuore al conforto che provai quando sentii la sua voce. Era dolce e affettuosa, un gradito cambiamento rispetto al dominatore che mi aveva appena punito. «Ora ti scopo, e tu verrai quando te lo dirò io. Se non lo farai, ti punirò di nuovo. Capito?».

Piagnucolai il mio sì. Anche se detto a bassa voce, il suo comando lo avevo sentito.

Mi baciò tra le scapole, i denti mi graffiarono la pelle. Fremetti, i capezzoli divennero turgidi a quella sensazione. Mi girò di nuovo e mi aprì le gambe in modo che potesse posizionarsi in mezzo.

Abbassandosi su di me, mi mise una mano su un fianco mentre con l’altra mi scostava i capelli fradici di lacrime. Mi asciugò il viso, e il desiderio che era nei suoi occhi cambiò. Gli angoli si socchiusero preoccupati.

«Scusami, davvero», annaspai, così sovraccarica di emozione che pensai che il petto mi esplodesse del tutto. Non avrebbe mai saputo quanto avrei voluto scusarmi.

Le linee dure intorno ai suoi occhi si rilassarono e mi prese la bocca con un bacio lento e profondo. Accennò a far entrare in me il glande dilatato, ma mi penetrò a malapena.

«Mentirei se dicessi che non volevo che ti scusassi, Erica. Non sai cosa mi fa vederti così, mentre mi dai tutta te stessa».

«Ti prego», gemetti, inarcandomi al contatto, con un bisogno disperato di lui.

Il respirò mi si bloccò quando mi penetrò completamente e all’improvviso. Fu una sensazione violenta e opprimente, una potente ondata di piacere sopra al dolore.

«Oh, cazzo», gridai.

«Erica», mormorò. «Ho bisogno di questo. Ho bisogno di te».

Qualcosa mi scattò dentro, tra le sue parole, il trattenermi e la sua penetrazione violenta. Fui assalita da una fame che mi consumava e mi contrassi disperatamente intorno a lui. Lui uscì e poi affondò di nuovo. Mi avvinghiai con le dita alle sbarre alle quali mi aveva legato e un grido sordo mi scappò dalle labbra.

«Sì, piccola, lasciati andare».

Il suono rauco della sua voce mi portò all’apice. Solo che la vetta era diventata una valanga e non potevo più scappare. Ancora poche spinte e avrei ceduto, senza alcuna speranza di contrastare le sensazioni. L’orgasmo stava arrivando, che mi piacesse o no. Ero persa nel mondo che aveva creato per me, ubriaca del piacere di cui ero stata assetata.

Si spinse in profondità, i fianchi sbattevano contro i miei con scatti violenti. Pompò dentro di me, mentre il suo pene cresceva inverosimilmente a ogni spinta. Mi morse il lobo dell’orecchio, succhiandolo, poi graffiandolo con i denti.

«Mia. Sei mia. Proprio come adesso. Il tuo corpo, il tuo cuore. Ogni parte di te». Continuò a sussurrarmelo nell’orecchio e non mi permise di dimenticarlo neanche per un secondo.

«Sono tua». Le lacrime tornarono e nel mio corpo cedette anche l’ultima delle resistenze.

«Vieni, adesso, piccola. Dammi tutto».

Il cuoio delle manette mi segnava la pelle mentre mi divincolavo. Con le braccia tese e le gambe aperte al massimo, ero completamente alla sua mercé. Ogni muscolo si contrasse ed esplosi. Le cosce abbracciarono i suoi fianchi mentre il mio sesso pulsava all’apice del piacere. Poi caddi pesantemente, scossa da fremiti incontrollati, tesa al massimo dall’orgasmo che mi attraversava e con il suo nome sulle labbra. Per una frazione di secondo, il peso dei miei pensieri si dissolse e niente ebbe più importanza.

«Erica», gemette.

Il suo corpo sussultò contro di me. Le sue mani mi afferrarono i fianchi ferocemente mentre anche lui trovava il suo sfogo.

Si contrasse, poi si afflosciò su di me, abbandonandosi, il respiro affannoso.

Mi sciolse le mani e massaggiò la pelle arrossata dei polsi. Poi catturò la mia bocca in baci lenti da togliere il fiato, mentre mi asciugava le ultime lacrime. Eravamo entrambi esausti, distrutti da quell’esperienza. Con le poche forze che mi erano rimaste, lo strinsi tra le mie braccia, agganciando le gambe ai suoi fianchi. Dovevo essere rassicurata dalla sua vicinanza. Non potevo lasciarlo andare in quel momento.

Restammo così, senza parlare, a lungo. L’intensità di quanto era accaduto mi lasciò senza fiato, mentre la mia mente vagava sulle possibili implicazioni. Visto cosa ci aspettava l’indomani, forse non ci sarebbero state conseguenze.

«Scusa», sussurrò infine.

«Ti amo», risposi, prima di cadere in un sonno profondo e senza sogni.