Capitolo otto

Risa sembrò confusa quando salimmo sui sedili posteriori della Escalade. Indossavamo entrambe un tailleur nero e i tacchi e, per una volta, sentii di aver messo tanto impegno quanto lei nel curare il look.

«Chi è?», sussurrò quando Clay si mise al volante.

Avevo dimenticato di dirle che ci avrebbe accompagnato in macchina la mia security personale. «È Clay. La mia guardia del corpo slash baby-sitter». Feci in modo che mi sentisse dal sedile posteriore. «Si assicura che mi tenga lontana dai guai. Giusto, Clay?»

«Sì, signora». Si immise nella strada trafficata accompagnandoci a destinazione.

Colsi l’accenno di un sorriso nello specchietto retrovisore. Sorrisi di rimando, anche se non ero sicura che potesse vedermi. Era il massimo della sgridata che avrebbe ricevuto da me.

Gli uffici della Bryant’s erano fuori città, per cui mi misi comoda e cominciai a scorrere le mail sul telefono per passare il tempo.

«Oh, no». Risa aveva gli occhi incollati al cellulare, la mano sulla bocca. Mi sentii sprofondare e sperai che non ci fossero brutte notizie per il sito.

«Che c’è?»

«Un ultim’ora. Mark MacLeod è stato trovato morto nel suo appartamento stamattina. Ma non è quello con cui hai ballato al gala? L’amico di Max?».

La fissai con uno sguardo perso, a bocca aperta, senza che ne uscisse una sola parola. Cosa potevo dire? Mi ripresi e feci del mio meglio per mascherare il panico. I pensieri iniziarono a girare vorticosamente, cercando di dare un senso alla notizia.

«Cos’è successo?». La mia voce era incerta. Deglutii premendo i palmi sudati sul sedile.

Scorse l’articolo per qualche secondo. Avrei voluto strapparle il telefono dalle mani per leggere da me, ma mi trattenni. «A quanto pare si è suicidato, ma non dicono come. Dicono che si è in attesa dei referti tossicologici».

Mark era morto. Morto. Me lo ripetei mentalmente più e più volte, desiderando crederci.

Il peggiore incubo della mia vita se n’era andato per sempre.

Guardai fuori dal finestrino, cercando di recepire la sconvolgente notizia che Risa mi aveva appena comunicato. Galleggiai nel mare di emozioni che mi travolse. Sollievo, senza ombra di dubbio. Non avrei più vissuto nella costante paura di quell’uomo, con il terrore che la sua presenza potesse macchiare ogni momento dedicato a conoscere mio padre.

Mentre quei dati di fatto prendevano lentamente consistenza, fu come se mi togliessero un peso di dosso. Come se qualcuno mi avesse fatto un regalo, avesse esaudito una mia preghiera. Sentii le lacrime salire e mi morsi il labbro che iniziava a tremare.

«Lo conoscevi bene?». La voce di Risa era tranquilla e colma di tutta l’empatia più appropriata in simili momenti.

Avrei potuto scrivere libri su libri a proposito di tutti i particolari che non conosceva.

Mi schiarii la voce e mi sistemai sul sedile. «No. Lo avevo incontrato di sfuggita attraverso la società di investimenti di Blake. Penso che avesse un debole per me, ma lo conoscevo appena. È scioccante… triste».

Davvero? Non era un tragico incidente e, per quanto mi sentissi sollevata, non riuscivo a scuotermi di dosso un senso di disagio. Mark si era ucciso, ma perché? Aveva sempre avuto tutto, non riuscivo a capirlo. Da quando era rientrato nella mia vita, sembrava nutrire un interesse speciale a tormentarmi psicologicamente. Cos’altro poteva esserci in gioco? Non sapevo niente di lui, se non quale personale inferno avesse creato per me.

Un minuto dopo Clay ci lasciò davanti all’ingresso dell’edificio. Io e Risa ci avviammo verso gli ascensori mentre cercavo di riprendermi emotivamente.

«Ti senti bene? Posso andare da sola se hai bisogno di un po’ di tempo».

Premetti il pulsante per salire. «Sto bene. Andiamo».

Fece un profondo respiro e sorrise. Avrei dovuto essere nervosa, ma dopo la notizia appena ricevuta, niente più sembrava agitarmi.

Fortunatamente, la riunione con il direttore marketing della Bryant’s fu rapida, il che fu un bene perché ebbi parecchia difficoltà a concentrarmi su ciò che diceva quell’uomo. Non aveva tantissimo tempo per noi, quindi lasciai che fosse Risa a condurre la conversazione presentando i dettagli della nostra proposta. Fu propriamente concisa e se la cavò bene. Ogni volta che esitava o tentennava, intervenivo io. Tra tutte e due fu un bel gioco di squadra. Il direttore sembrò soddisfatto e disse che ne avrebbe parlato con il suo team e ci avrebbe fatto sapere appena possibile se avesse avuto l’approvazione.

In macchina sulla via del ritorno, Risa emise un profondo sospiro e si rilassò sul poggiatesta.

«Eri così nervosa?».

Sorrise. «Un po’. Sono davvero felice che tu sia venuta».

«Anch’io. Siamo una bella squadra».

Alzai la mano e lei batté il cinque con una risata. Ero ansiosa di alleggerire l’atmosfera e la nostra conversazione si concentrò sul lavoro. Non avrei potuto sopportare altre domande su Mark in quel momento.

«Non c’è dubbio, che la cosa vada in porto o no, penso che possiamo assolutamente sfruttarla come punto di partenza per entrare in contatto con altri rivenditori. Forse Max può passarci altri nominativi».

«Forse». Non ero sicura di voler abusare delle risorse di Max, ma lui sembrava d’accordo. Non avevo niente da perdere nel lasciare che Risa ne traesse vantaggio.

Non appena tornati in ufficio, andai da Mocha. Tirai fuori il laptop e cercai le notizie.

I particolari della vicenda venivano resi pubblici mano a mano. Ero quasi a metà di un articolo quando il telefono squillò con il viso di Alli che lampeggiava sullo schermo.

«Ciao», risposi.

«Oh, mio dio, stai seguendo le notizie?»

«Sì».

«Sono scioccata. Non sembra una cosa da lui, uccidersi così».

Sbattei le palpebre e fissai la foto di Mark sullo schermo. Era un ritratto preso dall’archivio della società legale, in cui appariva professionale e più che pronto a sfidare l’America capitalista. Quel sorriso che mi faceva venire da vomitare era su tutti i giornali.

«Non ne sono sicura», ammisi. «L’ho visto due sere fa allo Spirit Gala. Ha provato ad approcciarmi e ho avuto un crollo totale. Non avrei mai pensato che potesse accadere una cosa simile».

«Beh, non è che lo conoscessi benissimo».

«Non pensi che abbia a che fare con me, vero?»

«Gesù, ti stai dando la colpa anche di questo, Erica?»

«No, ma…».

«Okay, smettila subito. Mark era una persona orribile. Dovresti essere felice che se ne sia andato e che sia uscito dalla tua vita ora. È una liberazione!».

«Non lo so, forse è solo che non riesco a crederci». Mi riusciva difficile festeggiare la morte di qualcuno, anche se era una persona che aborrivo come Mark. Daniel e Margo erano probabilmente l’uno accanto all’altra nel dolore in quel preciso momento. «Dicono che non ha neanche lasciato un biglietto. Non ha senso».

«E cosa avrebbe dovuto scrivere? Confessare le cose orribili che ha fatto?».

Simone mi portò il mio solito latte macchiato senza che neanche lo avessi chiesto. La ringraziai con il movimento delle labbra e lo girai lentamente mentre meditavo sulle parole di Alli.

«Immagino che tu abbia ragione. Sto solo cercando di abituarmi all’idea».

«Prova a pensarlo come un capitolo della tua vita che si chiude. Puoi finalmente voltare pagina».

Scossi il capo, più che cosciente che la sua morte non avrebbe mai cancellato quello che mi aveva fatto.

 

Mi costrinsi a completare la stesura del contratto con la Bryant’s, anche se continuavo a pensare alla morte di Mark mentre mi immergevo nel lavoro. Stavo quasi per arrendermi e controllare di nuovo le notizie, quando comparve Risa.

«Come sta andando?». Mi si parò davanti raggiante.

«Quasi finito. E tu?»

«Sono riuscita a fissare altri due incontri con dei rivenditori per la prossima settimana».

«Wow, ci stai dando dentro», inarcai le sopracciglia, sinceramente impressionata.

Risa fece un ampio sorriso, poi la sua espressione divenne più seria. «Stai seguendo le notizie?».

Rimasi concentrata sullo schermo. «No, che c’è di nuovo?», non potei fare a meno di chiedere.

«Dicono che si è sparato. I livelli di alcol nel sangue erano il doppio del limite di legge».

Chiusi gli occhi, combattendo con l’immagine di come la scena doveva essersi presentata. Tra tutti i modi in cui poteva mettere fine alla sua vita, aveva scelto quello che non gli avrebbe dato scampo.

«I funerali ci saranno domenica. Pensi di andarci?»

«Risa, ti ho detto che lo conoscevo appena», sbottai. E che diavolo. Volevo davvero che si facesse i maledetti affari suoi. Desideravo soltanto restare da sola con i miei pensieri e lei era lì in prima fila a cercare di leggerli.

«Okay, scusami. Pensavo lo volessi sapere».

«Ora lo so, grazie». Ripresi a digitare gli ultimi termini del contratto sul mio documento aperto, sperando che recepisse il messaggio che avevo da fare.

Lo recepì e se ne andò senza dire una parola. Mi rilassai di nuovo, pentendomi immediatamente di essere stata così brusca. La mia mente era nel caos più totale e l’unica persona di cui avevo veramente bisogno era lontana centinaia di chilometri.

Aspettai che fossero passate le diciassette, quando erano tutti andati via, per chiamare Blake. Lo udii parlare con qualcuno mentre rispondeva al telefono.

«Blake».

«Ciao».

«Mark è morto», dissi con il cervello che faticava a credere a quelle parole. Ancora non ci riuscivo.

Ci fu silenzio sulla linea e aspettai che mi rispondesse, che mi chiedesse come e quando. Di sicuro aveva tante domande quante ne avevo io. Se c’era qualcuno che odiava Mark più di me, quello era Blake.

«Lo so».

«Che vuoi dire?»

«L’ho visto tra le notizie che ricevo. Mi dispiace. Avrei voluto chiamarti, ma sono stato preso da una serie di riunioni stamattina. Aspetta un secondo».

«Okay». La mia voce era bassa, strozzata dall’emozione. Avrei voluto essere arrabbiata con lui perché non mi aveva chiamato, ma tutto quello che riuscivo a pensare era quanto mi mancasse. Dall’altro capo mi arrivavano suoni ovattati, poi le voci in sottofondo scomparvero.

«Tu stai bene?». La sua voce era più dolce.

Tamburellai con le dita sulla scrivania, chiedendomi come esprimere a parole quanto non stessi bene affatto. «Quando torni?».

Sospirò all’altro capo. Mi sentii piccola piccola. Mi stavo trasformando nella ragazza emotivamente dipendente di cui proprio non aveva bisogno, quel tipo di ragazza che io stessa non avrei mai pensato di diventare.

«Scusa, fai tutto quello che devi fare lì, Blake. Non preoccuparti per me, okay? Sto bene». Ricacciai indietro le lacrime che minacciavano di scendere, cercando di sembrare indifferente.

«Tornerò appena possibile».

«Sto bene», ripetei augurandomi che ci credessimo entrambi, mentre mi asciugavo una lacrima che scivolava lungo la guancia. «Sono un po’ sottosopra adesso, ma starò bene».

Udii di nuovo delle voci in sottofondo e lo sentii imprecare tra sé e sé. «Ti chiamo stasera, okay?»

«Certo».

Chiusi la telefonata e mi presi la testa tra le mani. Perché mi serviva Blake per rimettermi in sesto? Cos’era cambiato nelle ultime settimane da farmi avere bisogno di lui come dell’aria che respiravo? Non trovavo alcun senso né a quello, né all’insana idea che mi stava venendo di saltare sul primo volo notturno per San Francisco e raggiungerlo.

«Sembra che tu abbia bisogno di bere qualcosa».

Davanti alla mia scrivania c’era James. Stava alla grande come sempre, con una maglietta nera con un disegno e i jeans scuri, ma fu il suo sguardo preoccupato a catturare la mia attenzione. Mi asciugai le lacrime in fretta, improvvisamente in apprensione per lo stato del mio mascara dopo una giornata come quella.

«Pensavo che foste tutti andati via».

«Dovevo finire una cosa. Ho pensato che potessimo aggiornarci».

Mi raddrizzai e sperai che non avesse sentito la mia telefonata con Blake.

«Magari dopo. Dovrei andare a casa». Raggruppai i fogli che si erano accumulati sulla scrivania nel corso della giornata.

«Di venerdì sera? Penso che dovresti festeggiare il nuovo cliente».

«Beh, non è ancora definitivo. E poi ho del lavoro da fare. Devo capire come indirizzare la campagna pubblicitaria che stiamo pianificando»

«Perché non mi passi una parte di quel lavoro e non mi permetti di portarti a bere qualcosa? Verrò domani se serve».

Scossi il capo. «Non vorrei mai».

«Ma io sì. Dài, c’è un dive bar molto carino in fondo alla strada. A meno che tu non sia per un più vivace Martini bar».

Sorrisi appena. Su una cosa aveva ragione. Un drink mi avrebbe fatto bene. La prospettiva di avere qualcuno con cui parlare, anche se non della mia orribile giornata, era abbastanza allettante.

«Okay. Un drink soltanto».

 

James era stato di parola quando aveva parlato di un tipico dive bar. Scuro e spoglio, quel locale richiamava gente del posto. La maggior parte era vestita casual, motivo per cui il mio tailleur spiccava. Forse sarebbe stato meglio un Martini bar, visto come mi guardavano tutti.

Trovammo due posti al bancone affollato ed entrambi ordinammo da bere. Cercai di ignorare le notizie che scorrevano sul televisore sulla parete.

«Ci sono stati altri sviluppi?».

Fui presa da un leggero panico. «A che ti riferisci?»

«Al giovane Cooper».

«Ah, sì. È sicuramente il nostro uomo». Ripensai alla scena in quella casa e mi dispiacque non poter dire tutta la verità a James. Aveva fatto un ottimo lavoro per rintracciare la famiglia di Brian e mi chiesi tra me e me se avesse qualche altra idea su come arrivare in fondo a quella storia.

«Mi stai prendendo in giro. Lo hai visto?»

«Sono andata a casa di sua madre ieri sera. Vive con lei, quindi ho finito per incontrarli tutti e due».

«E la pianterà?».

Scossi il capo e ringraziai la barista magra e bionda che ci porse i nostri drink.

«E Landon che legame ha con questa storia?».

Bevvi un sorso dal mio bicchiere, assaporando il liquore. «Diciamo solo che non si è lasciato in buoni rapporti con il gruppo originario. Trevor ha un forte risentimento nei suoi confronti e, a giudicare da come è andata l’altra sera, non credo che cambierà idea tanto presto. Quella rabbia si è riversata sulla nostra azienda perché è coinvolto lui. Quindi sono fondamentalmente in un vicolo cieco a meno che non riesca a trovare il modo di far ragionare Trevor».

James poggiò i gomiti sul bancone, tenendo il boccale di birra tra le mani e mostrando le braccia muscolose e i tatuaggi.

«Magari potrei farlo ragionare io».

Risi. «Sono sicura che non avresti problemi se ricorressimo alle maniere forti e, a questo punto, sarei disposta a fare di tutto se pensassi che potesse funzionare. Sfortunatamente non credo che sarebbe di alcun aiuto. Blake ritiene che non si possa scoraggiare facilmente».

«A proposito, come va tra te e Blake?».

Bevve un sorso di birra e guardò verso il televisore, come se la risposta non lo preoccupasse più di tanto. Prima che potessi replicare, qualcuno strillò il mio nome dall’altra parte del locale. Vestita con un top nero che le lasciava scoperta la schiena e un paio di jeans boyfriend strappati, si avvicinò Simone.

«Ehi, non pensavo che venissi qui!».

«Infatti no», dissi, immediatamente felice di vedere il suo viso al di fuori del caffè. Sembrava disinvolta, i capelli rossi le ricadevano sciolti sulle spalle.

«Questo è il mio locale!».

«Sei la proprietaria anche di questo?».

Scoppiò a ridere, attirando l’attenzione di quasi tutti gli uomini arrapati nelle vicinanze. «No, intendo dire che è qui che vengo quando non sono a lavorare o a dormire».

«Ah, carino, mi piace».

Mi avvolse in un abbraccio, bloccandosi quando vide James.

«Ehi, ciao». Socchiuse gli occhi con fare malizioso.

Lui ammiccò. «Ciao».

«Simone, lui è James».

«Piacere. Vi va una partita a biliardo, ragazzi?».

James mi guardò per valutare il mio interesse e io mi strinsi nelle spalle. «Non è il mio gioco preferito, ma un giro lo faccio».

«Sì, e magari sei un fottuto squalo».

L’accento di Boston di Simone era più evidente del solito. Si era sicuramente concessa molto più alcol di me quella sera. Eppure non si poteva negare che tenesse banco. Se già prima era una sagoma, ora era da applausi a scena aperta.

James lasciò i nostri nomi per prenotare il primo tavolo disponibile e stava parlando con quelli che giocavano in quel momento, mentre io e Simone restammo al bancone.

Simone sedette al posto di James. «Prenditi un drink serio».

«Sto bevendo whisky. Non vedo cosa ci possa essere di più serio».

«Sto parlando di shot».

«Ah, non so…».

«Dài, solo uno». Protese le labbra e fece un cenno alla bionda che in quel momento non ci guardava. «Ehi, biondina. Due red headed slut».

Alzai gli occhi al cielo. «Ci vai leggera, Simone».

«Che c’è? La red headed, la rossa, sono io e la slut, la troia, sei tu».

«Scusa?». Mi guardai intorno confusa, sperando che nessuno l’avesse sentita.

Trangugiò il suo cocktail senza rispondermi e io la imitai. Ne ordinò subito altri due. Non avevo mangiato quasi niente quel giorno. Ero andata avanti a caffè e snack che tenevo nascosti nel cassetto della scrivania. Dovevo rallentare o l’avrei pagata cara.

«Che c’è tra voi due?». Simone fece un cenno in direzione di James. «Pensavo che stessi insieme al tipo del finanziamento».

«Non c’è niente tra me e James. Siamo solo venuti a bere qualcosa. E io sto effettivamente con il tipo degli investimenti. Quindi non ti fare strane idee».

«Non preoccuparti. Non è il mio tipo. Quello, invece, è un po’ più nelle mie corde. Mi piacerebbe dare un’occhiata a quei tatuaggi». Si morse il labbro.

«Vai allora. È davvero un bel ragazzo». Buttai giù uno dei due bicchieri che la barista mi aveva messo davanti. Blake era a centinaia di chilometri e avevo avuto una giornata infernale. Forse avevo bisogno di un paio di shot per rilassarmi davvero.

«Lo farei, tesoro, ma non ti ha tolto gli occhi di dosso da quando sono arrivata. Riconosco quello sguardo quando lo vedo».

Perplessa, mi voltai in direzione di James senza alcuna discrezione. I nostri sguardi si incrociarono e lui distolse il suo immediatamente, appoggiandosi poi al tavolo per osservare la mossa successiva.

Merda.

«È ridicolo». Gli voltai le spalle e buttai giù il terzo shot.

 

Non me la cavai così male al biliardo come avevo pensato all’inizio. Nonostante fossi sufficientemente brilla, misi a punto qualche colpo decente. Simone aveva fatto coppia con uno della squadra che aveva vinto la partita prima e, dopo le prime mani, io e James eravamo in testa. Mi chinai sul tavolo, ma prima di ultimare il colpo successivo, sentii una mano sulla parte bassa della schiena, il calore passava attraverso la sottogiacca che indossavo. James si chinò accanto a me, troppo vicino. Vicino in modo poco professionale.

«Punta alla buca di sinistra».

Il suo respiro mi soffiò sul collo e il mio corpo si irrigidì. Chiusi gli occhi per un secondo, immaginando che fosse Blake. Dio, solo per qualche minuto. Mi mancava così tanto. Quando li riaprii, colsi Simone che mi guardava con un sorriso compiaciuto del tipo “te lo avevo detto”. Cambiai l’angolazione della stecca, colpii e la palla andò in buca. Feci qualche passo indietro e oscillai leggermente sui tacchi. James era lì, che mi sorresse con la mano sulla vita.

«Tutto a posto?»

«Sto bene». Sorrisi e mi allontanai di un passo per sicurezza. Dovevo prendere in mano la situazione prima che James si facesse delle idee sbagliate. Stavo quasi per rimproverarmi da sola per essere andata a bere con un mio dipendente, quando un viso familiare emerse dalla folla intorno ai tavoli da biliardo.

«Oh-oh», mormorai.

«Che succede?», chiese James.

Heath avanzò lentamente, le mani in tasca, fino a che non si fermò proprio davanti a noi. Lanciò un’occhiataccia a James prima di rivolgersi a me. Strabuzzai gli occhi mentre ripercorrevo con la mente gli ultimi minuti, compreso il breve e allusivo consiglio di James al biliardo.

«Sono nei guai, vero?».

Heath rispose con un sorriso tirato. Presi la borsa e tirai fuori il telefono per scoprire che Blake mi aveva chiamato almeno una dozzina di volte. Cazzo.

«Devo andare». Lanciai una rapida occhiata a Simone e James, ansiosa di contattare Blake e spiegargli tutto.

«Ti serve un passaggio?». James fece un passo avanti.

«No, non le serve». Heath lo fissò dritto negli occhi, la mascella si contrasse in un modo che mi fece seriamente chiedere se non fosse posseduto da Blake in quel momento. Poi tutta la mia voglia di andare via sparì di colpo. Il viso mi si infiammò. Heath si trovava lì su precise istruzioni del fratello. Il pensiero di essere scortata fuori dal locale su ordine di Blake mi umiliò e la mia dignità non poté sopportarlo.

«Esco tra un minuto». Dissi guardando Heath con le sopracciglia inarcate, sfidandolo a contraddirmi.

Lui rimase un attimo interdetto, poi annuì con un leggero cenno del capo.

«Ma chi diavolo era quello?», chiese James con una smorfia in direzione dell’uscita da cui era appena passato Heath.

«Il fratello di Blake».

«Un po’ protettivo, eh?». Simone mi si avvicinò appoggiandosi al tavolo.

«A volte», mentii.

«Davvero mi vuoi lasciare?». Simone mise il broncio.

Sorrisi. «Sì, sono distrutta. Ho bisogno di dormire o perderò completamente lucidità».

«Non regge».

«Sta’ zitta. James si prenderà cura di te, okay?».

James sorrise educatamente, ma la delusione gli adombrò il viso. Simone mi strinse in un abbraccio. Quando mi lasciò andare, James mi tirò a sé e mi diede un bacio rapido su una guancia.

«Buonanotte».

Mi sciolsi dal suo abbraccio così velocemente che quasi persi di nuovo l’equilibrio. Mi diressi fuori dal locale senza salutare.

Clay riportò Heath e me a casa in silenzio. Avrei voluto fare una ramanzina a entrambi, ma non avrebbe cambiato le cose di una virgola, dato che Blake controllava tutto quello che facevano. Non erano in una posizione tanto diversa dalla mia.

Entrai nel mio appartamento e chiusi la porta sbattendomela alle spalle, prima che Heath potesse augurarmi la buonanotte. Cady, la nostra vicina del piano di sotto e segretaria personale di Blake, sedeva accanto a Sid sul divano a guardare un film. Erano più vicini di quanto li avessi mai visti prima. Li salutai agitando la mano per poi sparire in camera mia.

Mi buttai sul letto desiderando che le pareti smettessero di girare un po’ mentre facevo quella telefonata. Imprecai e composi il numero.

«Erica». La sua voce era un potente misto di panico e rabbia.

«Mi hai chiamato?». Decisi di alleggerire l’atmosfera.

«Cominciavo a sentirmi un disco rotto, cazzo!». L’umore di Blake non si era assolutamente alleggerito.

«Sono andata a bere qualcosa con un amico. La musica era alta e non ho sentito il telefono. Smettila di reagire in maniera esagerata».

«Era il tuo amico quello che ti ha messo le mani ovunque? O era qualcun altro?».

Serrai i denti e respirai attraverso la sfilza di parolacce che mi ronzavano nella testa. Heath mi avrebbe sentito a quel proposito.

«Si tratta di James dell’ufficio e no, non mi ha messo le mani ovunque. Stavamo giocando a biliardo. Mi stava indicando una mossa. Una mossa. Mi stava facendo vedere come colpire», mi lamentai ad alta voce. Il mio biascicare non giocava a mio favore.

«Mi sto immaginando una gran bella scena».

«Smettila di essere così geloso», borbottai, già troppo stanca per litigare.

«Sei a casa adesso?»

«Sì, sul letto. Stavo anche pensando di spogliarmi», lo stuzzicai sperando che abboccasse e smettessimo di battibeccare.

«Siamo arrapati, eh?»

«Che ne dici di FaceTime? Hai il Wi-Fi?».

Rise e io sorrisi, sollevata che non fosse tanto arrabbiato come sembrava.

«Ho una cena di lavoro con i partner del progetto che sto seguendo qui. Per quanto mi piacerebbe far saltare tutto per fare sesso al telefono con te, piccola, questo non farebbe che trattenermi qui ancora di più. E non credo che né io né te potremmo sopportare altri ritardi. Sei d’accordo?».

Mi imbronciai e mi buttai di nuovo sul letto. «Sono d’accordo».

«Mi serve che tu faccia due cose».

«Benissimo. Cosa comanda il signore dell’universo?»

«Beviti una bottiglia di acqua. Bevila tutta e prendi un paio di aspirine. A quanto pare ne avrai bisogno».

«Sissignore», gemetti, pronta a riagganciare e andare in cucina.

«Ehi».

«Che c’è?»

«Ti amo, Erica».

«Ti amo anch’io».