Epilogo
Maya
Mentre passeggiavamo nel parco avevo ancora la pancia piena per la cioccolata calda e i due deliziosi croissant della nostra pasticceria preferita. L’aria era fredda, ma dentro di me sentivo solo calore. Ci sedemmo su una panchina davanti allo skyline di Manhattan. Cameron distese le gambe e io mi appoggiai a lui; mi circondò le spalle con un braccio e iniziò a cullarmi. Sorrisi.
Le ultime settimane erano state difficili, tristi perché avevo detto addio a mia madre in molti modi. Ma la presenza di Cameron mi aveva rassicurata. Se avessi avuto ancora dei dubbi sul fatto che sarebbe stato in grado di salvarmi dall’inferno e farmi felice, li aveva fatti sparire. Speravo solo di poter fare lo stesso per lui, se ne avesse avuto bisogno. Glielo dovevo. Gli dovevo tutto.
In lontananza, uno stormo di uccelli neri stava attraversando il cielo. Un attimo dopo atterrarono sugli alberi accanto a noi. A parte il battito d’ali e il cinguettio, restarono per lo più in silenzio, come a venerare la neve che aveva iniziato a cadere.
«Ce ne sono un sacco», dissi, sussurrando per non spaventarli.
Cameron alzò lo sguardo. «Magnifico. Ma un po’ lugubre».
«Non è vero. Lo sai che gli uccelli neri in realtà portano fortuna?».
Abbassò gli occhi e mi fece un sorriso storto. «Davvero?»
«Sì. Rappresentano la trasformazione. Dovrebbero collegarci con la magia della vita».
«Suona sdolcinato, ma incoraggiante», disse piano.
Sorrisi rivelando così la magia di Cameron: potevo cadere vittima solo del suo incantesimo. «Lo penso anch’io. Non che è sdolcinato, ma che è incoraggiante».
Alzai il viso e lo baciai. Quando mi spostai, i suoi occhi traboccavano di emozioni. Prima di potergli chiedere il perché, si inginocchiò davanti a me. Dalla tasca tirò fuori la stessa scatolina nera che avevo visto in precedenza. Il cuore iniziò a battermi all’impazzata. Gli avevo già dato la mia risposta mentre supplicavo per la sua, e nelle ultime settimane era stato sufficiente così. Non avevo più pensato all’anello né a qualsiasi altra convenzione. Ero sua e lui era mio. Un giorno l’avremmo reso ufficiale, non avevo dubbi che fosse ciò che volevo.
Aprì la scatolina e vidi un bellissimo anello che brillava anche alla luce debole della sera.
«Maya Jacobs». Aveva la voce bassa, colma d’amore. «Ho aspettato tanto tempo per farlo nel modo giusto. Ti voglio per sempre nella mia vita. Vuoi essere mia moglie?».
Prima che finisse tutta la frase stavo già annuendo, sorridendo e piangendo, tutto insieme. «Sì».
Con un ampio sorriso mi infilò l’anello al dito, e quando fu al suo posto lo abbracciai con tutte le mie forze, senza perdere altro tempo.
«Grazie».
«È solo un simbolo, Maya. Voglio darti molto di più».
«L’hai già fatto. Mi hai regalato i momenti migliori della mia vita, e siamo solo all’inizio».
Mi allontanò abbastanza da potermi baciare, baci caldi e dolci, pieni di significato. «E tu mi hai regalato i miei».
«Ti amo tantissimo».
«Ti amo anch’io».
Sorrisi. Iniziarono a spuntarmi lacrime di felicità. Feci un respiro profondo, sopraffatta, sentendomi la ragazza più fortunata del mondo. Niente ci avrebbe separati.
Con una serie di rumori secchi, gli uccelli spiccarono il volo uno dopo l’altro. Li guardammo scomparire nel cielo nevoso.