Capitolo ventitré

Maya

 

Vanessa si fiondò dentro il bar, palesemente stressata. Non mi mancava avere quell’aspetto. Per un attimo pensai che avrei visto le catene intorno alle sue caviglie, mentre si avvicinava per sedersi. Non ero mai stata così felice di essere libera.

Mi alzai e lei mi diede un bell’abbraccio.

«Come va?». Domanda retorica, la mia. Sapevo che Reilly le stava ancora rendendo la vita un inferno.

Sospirò e si lasciò cadere sulla sedia. «Mi manchi da morire. Sono felicissima che tu abbia voltato pagina, ma un po’ ti odio».

Risi. «Scusa, cercherò di venire più spesso a pranzo qui».

«Stai cercando un lavoro?»

«Sto dando un’occhiata in giro, ma non ho mandato curriculum. Sto aiutando Cameron con un po’ di documenti della palestra, ma a parte quello sto prendendo una pausa. Cerco di capire cosa fare da qui in poi».

«Cameron sarà entusiasta di poter passare più tempo con te».

Mi bloccai. Non sapevo bene da dove cominciare. Non volevo parlare della situazione con lui, al momento, ma a un certo punto avrei dovuto farlo. Per fortuna arrivò il cameriere a prendere le ordinazioni. Speravo che così si sarebbe distratta, ma la sua attenzione era concentrata su di me. Aveva lo sguardo preoccupato, doveva aver notato la mia esitazione. «State ancora insieme? Cosa mi sono persa?»

«Ci stiamo prendendo una pausa».

«È stata una tua decisione?».

Annuii.

«Cos’ha fatto? Si è comportato da stronzo?».

Scoppiai a ridere. «Quante domande, Vanessa».

Alzò le mani. «Non sono informata. Sul serio, aggiornami. Ma velocemente. Quello lì può chiamarmi da un momento all’altro».

Sospirai. «Non è stato uno stronzo». Proprio per niente. Era stato dolcissimo e mi aveva dato il suo cuore.

«Be’, cos’è successo? Parla, cazzo».

«Mi ha più o meno fatto la proposta».

Corrugò la fronte. «Come si fa a “fare più o meno la proposta”?»

«Capita quando a metà del discorso la persona a cui stai chiedendo di sposarti si spaventa e ti ferma prima che ti metti in ginocchio».

«Cosa? L’hai fermato? Perché?».

Ci pensai un attimo. L’avevo interrotto. Non volevo ferirlo, non volevo riesumare quel vecchio ricordo che aveva fatto così male a entrambi. L’ansia di quella sera mi aveva ricordato l’infelicità che avrei dovuto affrontare se avessi rifiutato, eppure mi arrovellavo su cosa avrebbe significato accettare.

«Vanessa, ho appena perso il lavoro, sua madre mi ha praticamente detto che faccio schifo e in più sto provando, per una volta nella vita, a non affogare i dispiaceri nell’alcol. Era troppo. Un’altra esperienza emotivamente impegnativa e sarei esplosa».

«Quindi gli hai detto di no?»

«Gli ho detto che ho bisogno di tempo, non ho detto né sì né no. Insomma, ci sentiamo e ci siamo visti, ma la pausa mi sta facendo bene. Ho avuto tanto tempo per riflettere e ritrovare l’equilibrio. Non riesco a ricordare l’ultima volta che mi sono sentita così… non lo so, stabile».

«Ma da quel momento non avete più parlato della proposta?»

«No. In realtà non abbiamo parlato molto, in generale. Le ultime volte che l’ho visto è stato un po’ distante».

Rise. «Ma non mi dire».

«Cioè?»

«Credo che se facessi la proposta a un ragazzo – cosa che non succederà mai, per la cronaca – e lui non mi desse la risposta che voglio, dopo non correrei a buttarmi tra le sue braccia».

«Grazie, eh», risposi alzando gli occhi al cielo.

«Non sto cercando di farti sentire in colpa, ma hai pensato a quello che starà passando? Gli sei morta dietro per anni, nonostante ciò l’hai rifiutato due volte, eppure lui è ancora qui. È un miracolo bello e buono».

«Non voglio buttarmi a capofitto in una situazione che emotivamente non capisco. Sto facendo la persona responsabile, per una volta».

«Maya, ascoltami». Si sporse in avanti, lo sguardo più dolce. «Ami Cameron. Lo vedo. Sono sicura che si dovrebbe essere ciechi per non vedere quello che c’è tra voi. Ma io non sono te. Non so com’è vivere in quel ciclone di emozioni, e di sicuro non posso dirti quando saltare. Voglio solo che tu sia felice, e non voglio che la persona che può renderti felice vada via perché tu hai paura di fare la cosa giusta».

Il cameriere ci portò da mangiare, interrompendo brevemente la filippica di Vanessa. All’improvviso mi venne la nausea. La reazione della mia amica faceva sembrare superficiali e assurde le rassicurazioni che mi ero data nelle ultime settimane. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, che scacciai prima che potessero cadere.

«Mi rende felice», sussurrai. «Non sapevo davvero cosa volesse dire finché non mi ha trovata».

«Allora smettila di opporti. Sii felice. Te lo meriti, e anche lui. È talmente innamorato di te, Maya…».

«Volevo solo cercare di essere una persona migliore per lui, per noi».

Le sue labbra si curvarono in un sorriso comprensivo. «Tesoro, io penso che voglia solo te, così come sei».

Gli occhi di Vanessa brillavano, e mi si strinse il cuore. Ero grata che le importasse così tanto di me. Un attimo dopo lo schermo del suo telefono si illuminò, e lei gemette prima di rispondere con un sorriso forzato. Dopo qualche parola, riattaccò.

«Reilly mi sta chiamando, devo andare. Tutto a posto, tesoro?».

Annuii velocemente. «Sì, starò bene».

«Sicura?»

«Vai». Feci un cenno con la mano. «Il capo ha bisogno di te. Sistemerò tutto, giuro».

«Fammi sapere, ho bisogno di aggiornamenti. Non possiamo non vederci per così tanto tempo».

Concordai e la salutai con un abbraccio. Lei indugiò, tenendomi stretta. Avrei iniziato a piangere se non mi avesse lasciata andare, quindi fui sollevata quando rimasi sola con il mio pranzo. I miei pensieri giravano tutti intorno a Cameron.

Gli scrissi mentre tornavo a casa.

“Cena, stasera?”

“Certo. A che ora?”

“Passi da me alle sei?”

“Andata”.

Sorrisi. Fare programmi per vederci e parlare mi faceva tremare di trepidazione, ma Vanessa aveva ragione. Avevo avuto un po’ di tempo per capire me stessa e ormai stavo temporeggiando. Evitare un rapporto più profondo con Cameron significava schivare il peso della sua proposta. Non potevo perderlo, e speravo solamente di non averlo allontanato troppo.

Mentre ero sulle scale, il telefono iniziò a squillare. Non riconobbi il numero e risposi incerta.

«Pronto?».

Dall’altra parte, una profonda voce maschile. «Maya Jacobs?»

«Sì. Con chi parlo?»

«Mi dispiace disturbarla, signorina Jacobs. Sono l’agente Ray Stevens, del dipartimento di polizia di Greene County».

Il cuore mi si fermò e mi sedetti subito su un gradino. «È per mia madre? Lynne Jacobs? Sta bene?».

L’uomo si schiarì la gola, restando in silenzio così a lungo che quasi ripresi a parlare, ma poi rispose.

«Mi dispiace tantissimo informarla che sua madre è morta, signorina Jacobs».

«Cosa?»

«È stata trovata questa mattina. Pare sia andata in overdose. Siamo riusciti a rintracciarla in quanto parente più prossima».

«No». Tutto intorno a me iniziò a girare. Non poteva essere. No, no, no. Dio, no.

«Mi dispiace».

La sua voce era più bassa, attutita dal battito del mio cuore e dalle urla di negazione nella mia mente.

«Posso capire se ha bisogno di un po’ di tempo. Potrei richiamarla più tardi per discutere su come procedere».

Scossi la testa. Era morta. Non stava succedendo davvero.

«Signorina?».

Feci un respiro profondo. «Sì, più tardi. Ora non riesco a parlare».

Fu tutto quello che riuscii a dire prima di abbassare il telefono. Mi presi la testa fra le mani. I miei pensieri iniziarono a vorticare alla ricerca di risposte che non avevo mai avuto. Per quanto nelle ultime due settimane fosse diventato tutto più chiaro, in quel momento niente aveva senso. E non poteva, perché ero stata all’oscuro per troppo tempo. Le nostre vite non si erano incrociate per anni. Non avevo informazioni, e probabilmente non ne avrei mai avute. I pezzi del puzzle non si sarebbero mai incastrati.

Non c’era più. Persa per sempre. Tutto il senso di colpa, la preoccupazione e il rimpianto che avevo cercato di sopprimere così coraggiosamente, mi crollarono addosso in una volta. Mi stavano seppellendo.

Mi trascinai per le scale fino all’appartamento e andai dritta in camera mia. Avrei voluto lasciarmi cadere sul letto e piangere finché non avessi finito le lacrime. Avrei voluto mettere a soqquadro il guardaroba, rompere tutto, gridare e piangere ancora. Ma, nonostante tutto, non ci riuscii. Non riuscii a trovare le lacrime che in quell’ultimo periodo avevo versato così liberamente.

Forse era per lo shock, ma sapevo che niente avrebbe calmato quel tipo di dolore.

Mi voltai e andai in cucina, superai Eli che stava guardando la televisione, trovai un bicchiere e fissai il rubinetto. L’acqua non avrebbe placato quella sete. Quel desiderio che stavo imparando a ignorare così bene non mi richiamava. Non chiedeva, non pregava. Stava urlando: una fame violenta che ampliava il mio dolore come nient’altro aveva mai fatto. Voleva sollievo.

Con le mani che tremavano, aprii la credenza e tirai fuori il whiskey che tenevamo per gli shottini prima di uscire e le giornate pessime. Lo versai nel bicchiere, non disturbandomi ad aggiungere il ghiaccio. Non si trattava di gustarlo, ma di far sparire il dolore il più velocemente possibile. Mi portai il bicchiere alle labbra, inspirai istintivamente e sospirai con trepidazione.

«Maya».

La voce di Eli mi fece sobbalzare e lasciai cadere il bicchiere: si ruppe in mille pezzi e il contenuto schizzò ovunque. Il forte odore di whiskey mi investì. Avevo il liquore sulle mani e la maglia ne era impregnata. Mi si rivoltò lo stomaco. Come lo avevo desiderato disperatamente nel mio organismo, così all’improvviso volevo eliminarne ogni traccia.

«Merda. Stai bene?». Eli si avvicinò velocemente e prese uno straccio.

Scossi violentemente la testa mentre mi allontanavo dal macello che avevo combinato.

«Maya, parlami. Cosa succede?»

«Eli». La mia voce era un sussurro, le parole erano bloccate in gola. Iniziai a tremare nel tentativo di non crollare. «È morta, Eli».

Gli occhi mi si riempirono di lacrime, confermando ciò che entrambi sapevamo sarebbe potuto accadere, anche se non l’avevamo mai detto esplicitamente. Caddi in ginocchio, mancando di un soffio le schegge di vetro sparse per terra.

Eli si chinò e pulì in modo da potersi avvicinare. Mi prese le mani. «Cos’è successo?»

«Overdose. È… è andata in overdose, l’hanno trovata stamattina».

Qualcun altro stava dicendo quelle parole, pensai, perché non riuscivo ancora a capacitarmi che fosse successo. Lacrime calde mi scivolarono sulle guance.

«Mi dispiace tantissimo, tesoro». Eli si avvicinò e mi strinse in un abbraccio che ricambiai, lasciando scorrere le lacrime sulla sua spalla.

«Non ho potuto salvarla. Perché? Perché non mi ha permesso di aiutarla? Non avrebbe dovuto sopportare tutto da sola».

Il torace di Eli si allargò mentre sospirava. «Forse cercava di proteggerti. Queste cose… possono distruggere la vita delle persone, non solo quella di chi ne fa uso. Probabilmente voleva tenerti il più lontano possibile per quel motivo, ci hai mai pensato?».

Scossi la testa. Aveva davvero cercato di proteggermi per tutto quel tempo? Forse, ma sentivo comunque di averla tradita. Come se avesse saputo che non potevo essere io ad aiutarla. E in fondo che tipo di persona ero diventata in sua assenza? Come avrei potuto darle quello di cui aveva bisogno, se ero a malapena in grado di badare a me stessa? Eppure non riuscivo a scacciare il pensiero che avrei potuto cambiare le cose, se me ne avesse dato l’opportunità.

«Non mi hai mai dato la possibilità di aiutarla. Tutti questi anni… ho aspettato per poter sistemare le cose tra noi, per vivere la vita che avevamo programmato. Tutto quello per cui ho lavorato. E ora…».

Un dolore lancinante mi colpì lo stomaco. La rivolevo, volevo vedere il suo sorriso e sentire la sua risata, sentire il tuo tocco, rilassarmi nell’abbraccio che solo una madre poteva dare. Solo un giorno, un ultimo barlume del suo amore.

Ma non l’avrei mai più avuto. Il mio corpo era scosso dai singhiozzi.

Eli cercò di tranquillizzarmi. «Andrà tutto bene, Maya, non soffre più».

«No». La mia voce era un lamento.

Il suo ricordo era ovunque, mi riempiva ogni cellula. Mi faceva male la pelle, mi faceva male tutto. Il fatto che non sarebbe mai più tornata risucchiò il senso che le mie parole o quelle di Eli potevano avere.

Le lacrime continuarono a scendere, ondata dopo ondata di una tristezza soffocante. Cercai di trattenerla, tenerla con me nel mondo dei vivi, ma la sentivo scivolare via, lenta come la marea, finché non fui troppo debole per piangere, troppo stanca per sentire dolore.

 

 

Cameron

 

Eli aprì il portone e salii le scale che portavano all’appartamento. Da quando Maya mi aveva scritto, nel mio cervello si erano alternati tutti i possibili scenari. I messaggi saranno stati vaghi, ma il tono era speranzoso. In un modo o nell’altro, dovevamo parlare.

Quando entrai, Eli mi guardò preoccupato.

«Ciao, Eli. Come va?»

«Ti ha chiamato Maya?»

«No, dovevamo andare a cena fuori. È qui? Va tutto bene?».

Scosse la testa, aveva le braccia incrociate al petto. Persi un battito. Iniziai a immaginarla svenuta, in qualche modo in pericolo.

«Dov’è?». I muscoli si irrigidirono, pronti a scattare in qualsiasi direzione si trovasse.

«Sta dormendo».

Mi tranquillizzai un po’, ma qualcosa non andava.

«Sua madre è morta di overdose, Cameron. La polizia l’ha chiamata un paio d’ore fa per avvisarla».

«Cristo santo. Sta bene?»

«È sconvolta. Era pronta a scolarsi una bottiglia di whiskey, ma invece è crollata. Grazie a Dio ero qui. Non credo di aver mai visto nessuno piangere per così tanto tempo. Si è addormentata un’ora fa». Eli si morse il labbro.

«Dev’essere distrutta». Stavo ancora elaborando l’importanza di quella notizia.

«Sapevi che era scomparsa?».

Annuii. «Alla fine me l’ha detto, sì. Non oso immaginare quello che sta passando. Posso vederla? Insomma… va bene?».

Annuì e fece un cenno verso la camera.

Entrai in silenzio. Una fioca luce ambrata illuminava l’orizzonte e il buio stava calando velocemente. Maya era rannicchiata sul letto, circondata da fazzoletti e cuscini. Mi sedetti sul bordo accanto a lei. Il suo respiro era lento e regolare. La guardai, incantato dalla sua bellezza e dalla forza che aveva dentro. Anche nel sonno, aveva la fronte aggrottata. Il viso era roseo, gli occhi gonfi per il pianto. Avrei voluto toccarla, stringerla. Strinsi le mani per trattenermi. Aveva bisogno di riposare. Feci per andarmene ma aprì gli occhi.

«Cam». Aveva la voce roca.

«Sono qui, amore. Sono qui». Tornai a sedermi, sollevato di poterla toccare. Le passai la mano sul braccio. La pelle era fredda. Stavo per coprirla, quando si mise di colpo a sedere.

Mi strinse la camicia e si tirò sulle ginocchia, buttandomi le braccia al collo. Continuò a pronunciare il mio nome tra i singhiozzi. Era scossa da fremiti e sapevo che stava di nuovo piangendo. La abbracciai forte, ma non potevamo stare più vicini di così. Era stretta a me come in una morsa, come se avessimo rischiato di morire nel caso in cui uno dei due avesse mollato la presa.

Sussurrò qualcosa tra i singhiozzi, ma non riuscii a capire cosa. La cullai, le accarezzai la schiena. Cristo, volevo far sparire il suo dolore, ma tutto quello che potevo fare era cercare di confortarla, essere la sua roccia. I singhiozzi si calmarono e il suo respiro si fece regolare.

Si sedette e mi afferrò le braccia, la sua presa era ferma ma quasi convulsa. Le presi le mani tra le mie, massaggiandole delicatamente in modo che sapesse che eravamo ancora in contatto, che non l’avrei lasciata andare.

Alzò lo sguardo e incontrò il mio, e la tristezza lasciò il posto alla serietà.

«Devo dirti una cosa».

 

 

Maya

 

Fui invasa da una nuova ondata di tristezza quando gli lessi la confusione negli occhi. Dovevo farla sparire, subito.

«Mi dispiace tantissimo».

«Perché dici così? Dio santo, tua madre è morta. Perché ti scusi?»

«Perché ti ho allontanato e non avrei dovuto. Ero talmente presa da tutta la situazione che non ho mai pensato a quanto ti stavo ferendo. E l’ho fatto abbastanza. Cristo, ho ferito entrambi… tantissimo». Mi morsi forte il labbro.

«Shhh, non parliamone ora. Devi riposarti».

«No, devo dirlo. Io…». Lottai contro l’impulso di stringermi di nuovo a lui, volevo perdermi nel suo calore. Gli strinsi forte le mani tra le mie. Volevo crollare, lasciar andare i singhiozzi che stavo trattenendo. Lo guardai negli occhi come se fosse l’unico al mondo, perché per me lo era.

«Sposami, Cam».

Aprì la bocca ma la richiuse subito. Era rimasto di sasso e iniziai ad avere paura. All’improvviso mi resi conto che forse quello era il momento peggiore per dire certe cose, ma avevo bisogno di lui più che mai, e non avrei fatto passare un altro giorno senza che sapesse cosa provavo.

Mi si formò un nodo allo stomaco mentre aspettavo che dicesse qualcosa. Era come se il mio cuore avesse abbandonato il corpo. Mi sentivo esposta e vulnerabile, e mi resi conto quanto coraggio gli era costato dirmi le stesse parole. Avrebbe potuto rimettere insieme la mia anima in frantumi o spezzarmi il cuore definitivamente, senza la possibilità di darlo a un’altra persona. Avrebbe deciso il mio destino con una parola.

Si era sentito così anche lui? Gli avevo fatto questo?

«Non sei obbligata a farlo, Maya. Non dobbiamo».

«Ma lo voglio», mi affrettai a rispondere. «Posso renderti felice come tu rendi felice me. So che posso, se me ne darai l’occasione. Se non è troppo tardi».

«Perché ora?»

«Perché…». Deglutii, ricacciando indietro le lacrime in modo da poter dire quello che dovevo. «Perché ho passato anni ad aspettare, a cercare di gestire parti della mia vita che erano fuori dal mio controllo. Perché sono talmente ostinata da non aver capito quello che stavo perdendo la prima volta che mi hai fatto la proposta. Ora lo capisco, lo vedo molto più chiaramente di quanto non abbia mai visto qualsiasi altra cosa. Non avrei dovuto allontanarti allora, così come non avrei dovuto farlo questa volta. Mi odio per averlo fatto. Perché tu sei l’unico che voglio, Cam, e ne abbiamo passate troppe. Non voglio più litigare, voglio sono stare con te. Voglio essere tua moglie, se me lo permetti».

Smise di respirare e mi fissò per un lungo momento. Prima che le lacrime iniziassero di nuovo a scendere, mi baciò dolcemente.

«Cam?». Lo guardai negli occhi, la mia domanda sospesa tra noi. «Lo farai?»

«Certo. Non riesco neanche a respirare, senza di te. Ti ho aspettata cinque anni, aspetterei anche tutta la vita». Mi strinse a sé e mi cullò. Il mio cuore riprese a pulsare e sentii un’energia nuova diffondersi nel petto e arrivare fino agli arti.

Per la prima volta nella mia vita, vidi l’amore per come avrebbe dovuto essere. Lasciai che mi scorresse nelle vene e scacciasse il dolore. Lo lasciai fluire, alimentando tutte le speranze segrete e i sogni che avevo per il futuro.

Intrecciai le mie dita alle sue e tenni la sua mano vicino al cuore per fargli sentire che batteva per lui, per noi. Se i nostri corpi erano due metà, insieme eravamo una cosa sola. E giurai che niente ci avrebbe separati ancora.