Capitolo venti

Maya

 

Andai in palestra. Odiavo essere così esausta. Un giorno di lavoro e sembrava che la forza vitale mi fosse stata risucchiata. Non vidi Cameron nella sala pesi. Presi in considerazione l’idea di cambiarmi e iniziare a fare gli esercizi che avevo promesso a lui e a me stessa che avrei fatto: faceva parte dell’iniziativa “non scolarsi una bottiglia di vino la sera”, che fino a quel momento stava funzionando. Anche se avrei davvero voluto liberarmi del peso della giornata appena trascorsa (l’atteggiamento freddo di Dermott e le minacce di Jia) con un bel bicchiere.

Invece bussai piano alla porta dell’ufficio ed entrai quando sentii la voce di Cameron. Era seduto alla scrivania, fissava lo schermo del computer con le sopracciglia aggrottate.

«Ciao».

Alzò lo sguardo e si illuminò. «Ciao, amore».

«Cosa fai?»

«Roba di contabilità di fine anno. Mi sta venendo mal di testa. Vieni qui».

Posai la borsa e mi avvicinai a lui, sedendomi in braccio senza farmi problemi. Mi abbracciò e strofinai il naso sul suo collo. Respirai il suo odore e sentii la tensione alleviarsi.

«È andata bene la giornata?».

Scossi la testa.

«Devo picchiare qualcuno?», chiese. Dalla voce si capiva che scherzava solo in minima parte.

«No, ma non so per quanto ancora avrò un lavoro».

«Cos’è successo?»

«Ho detto a Jia che era una stronza manipolatrice, e lei mi ha minacciata». Mi accoccolai al suo petto forte e posai la testa sulla spalla. «Ho bluffato. Le ho detto che non mi serviva il lavoro, cosa ovviamente falsa. Ho risparmiato qualcosa, ma quel lavoro mi serve. Non posso permettermi di mantenere me ed Eli in quell’appartamento senza uno stipendio decente».

«Allora cambia casa».

«Hai idea di quanto sia raro un appartamento con una camera da letto come quella? Ho dovuto girare per anni prima di trovare quel posto».

«Vieni a stare da me, ho tre piani. E fanculo il lavoro, tanto lo odi. Troveremo qualcos’altro. Potresti aiutarmi qui, per un po’».

Risi. «Vivi proprio nel mondo dei sogni. La palestra non è esattamente il luogo adatto a me, ci vengo solo perché tu mi fai sentire in colpa».

«Intendevo per le questioni burocratiche. Sono pieno di documenti da controllare. Ho avuto l’idea della palestra e ne ho altre. Ho trovato gli investitori e ho realizzato il progetto. Ma tutte queste scartoffie mi stanno facendo diventare matto».

Sospirai. Una piccola parte di me sussultò all’immagine che aveva descritto, ma un’altra parte la considerò irrealistica. Non potevo abbandonare Eli, e non potevo rinunciare alla carriera per cui avevo tanto lavorato. Per quanto volessi scappare, ultimamente cercavo di evitarlo.

«Mi farebbe piacere aiutarti, ma devo cavarmela da sola. Ci sono molte banche per cui potrei lavorare, se dovesse andare male».

«E se ti rendessero difficile cambiare azienda? Non sono tutti collegati tra loro?».

Abbassai lo sguardo e notai in che stato erano le unghie dopo la giornata di ansia. Avevo considerato brevemente l’idea che Jia o Dermott avrebbero potuto screditarmi e bloccare i miei tentativi di cambiare lavoro, ma mi era sembrato un colpo troppo basso per Jia. Le nostre interazioni erano state tutte una farsa o potevo dare un po’ di credito alla nostra amicizia?

Chiusi gli occhi. «Non voglio pensarci. A che scopo preoccuparsi quando ormai la palla non è più nelle mie mani? Lei e Dermott possono decidere di fare quello che vogliono per punirmi per non essere stata al loro gioco».

«Sei sicura che non vuoi che ci parli? Potrei indirizzarli verso la decisione giusta».

Sorrisi, alzando di nuovo lo sguardo su di lui. Le sue labbra erano piegate in un sorriso, ma sapevo che era serio. «Grazie, ma ti prometto che gestirò la situazione da sola».

«Basta una tua parola».

Lo baciai delicatamente sulle labbra, grata di averlo nella mia vita e per il suo desiderio di essere tutto per me. Dopo un attimo, interruppe il contatto.

«Ma come fai?», sussurrò.

«A fare cosa?»

«Fai fermare tutto. Vedo solo te. Tutto il resto diventa sfocato».

Sorrisi. «Questa è nuova».

«No. Quando ti ho rivista, con tutto il caos per strada, non sapevo se ti avrei riconosciuta. Ma mi è bastato un attimo, come se avessi avuto un faro puntato addosso. Illumini tutto, Maya».

Avvampai mentre mi perdevo nel suo sguardo. «Forse sei tu che mi illumini».

La sua espressione si addolcì. «Lo spero».

Trattenni il respiro e aspettai che mi toccasse, sperando lo facesse. Mi sfiorò la guancia con il pollice e asciugò le lacrime che stavano per uscire. Poi si sporse lentamente verso di me e mi baciò la mascella, premendo le sue labbra calde contro la mia pelle e poi sulla bocca finché non mi sentii fremere.

Mi fece scivolare le mani sui fianchi, poi più in basso sulle cosce e sotto il tessuto sottile della gonna. Gli toccai il petto, impaziente di far passare le dita su ogni suo centimetro di pelle.

Lui passò la mano sulle mie gambe, su e giù, accarezzando la zona sensibile sopra il ginocchio.

«Bella. Di solito non metti la gonna per andare al lavoro, vero?»

«Mi sentivo sfacciata stamattina, quando li ho affrontati. Era come se dovessi dimostrare loro qualcosa».

Lui annuì e sorrise. «Ti senti ancora sfacciata?».

Mi morsi il labbro e gli passai una mano tra i capelli che si arricciavano sulla nuca. A quelle parole, una piccola scintilla si accese dentro di me. «Forse».

«È stata una lunga giornata, devi alleviare lo stress. Che ne pensi?».

Annuii lentamente. Il suo sguardo diventò incandescente e trasformò la scintilla una fiamma. Mi mise la mano tra le gambe e iniziò a tracciare dei piccoli cerchi sempre più in alto, evitando però il punto in cui volevo che premesse. Mi mossi sperando che lo capisse, invece mi sollevò e mi spinse contro la scrivania.

Buttò di lato dei fogli in modo che potessi sedermi meglio.

«Sdraiati».

Obbedii e lui mi tolse gonna e slip.

«Vedi, se mi avessi aiutato con i documenti, avrei più spazio per scoparti».

Risi. «Prenderò in considerazione la cosa».

«Fallo, perché so già che vorrò aggiungere questa attività alla tua scheda».

Si sedette e si avvicinò, facendomi posare i piedi sui braccioli della sedia in modo che avessi le gambe divaricate. Iniziò a baciarmi la gamba, sempre più su. Ero già supereccitata e al limite, impaziente di avere la sua bocca su di me. La desideravo.

«Non vedo l’ora di farti venire, Maya».

Rimasi senza fiato: l’attesa aumentava a ogni tocco. Tracciò il contorno del mio sesso con il pollice, seguendo il percorso con la lingua, e mi sfuggì un ansito. Gli passai le dita tra i capelli, muovendomi a tempo dei tocchi esperti che prodigava, disegnandomi dei cerchi sul clitoride. Volevo godermi ogni attimo, restare con le gambe aperte sulla sua scrivania ed essere soddisfatta, ma andavo a fuoco e il bisogno di un orgasmo superò tutto il resto.

Quando aumentò la pressione gli strinsi un po’ più forte i capelli, e sentii ondate di calore pervadermi. Avevo la pelle d’oca.

«Adoro la tua bocca».

Mi stuzzicò il clitoride con i denti e urlai. Lui imprecò e sussurrò commenti ammirati e osceni sulla mia carne.

Ero sempre più vicina all’orgasmo quando infilò prima una e poi due dita dentro di me, facendo quello che speravo il suo sesso avrebbe fatto entro breve. Il mio corpo rispose immediatamente. Avevo bisogno di quello, di lui. La pressione della lingua aumentò ancora, facendomi godere e tormentandomi.

«Cazzo. Sto… Oh, cazzo, sto per venire». Battei la mano contro la scrivania e mi aggrappai al bordo, aspettando che mi mandasse in estasi.

«Fallo. Sulla mia mano». Quelle parole mi trafissero; sentivo il suo respiro sulla mia pelle umida e mi ritrovai alla sua mercé.

Continuò a muovere le dita dentro di me, a succhiarmi il clitoride e a stuzzicarmi il punto G fino a farmi gridare. Imprecai e venni copiosamente. Il mio corpo fremette violentemente.

L’orgasmo non era ancora finito quando si alzò. Si abbassò i pantaloncini e liberò la sua erezione, dura come il marmo, prontissima per me. Entrò dentro di me lentamente. Mi inarcai, e sentire che mi riempiva completamente mi riportò quasi all’orgasmo.

«Cazzo», ringhiò, con i lineamenti sconvolti per lo sforzo. «Cristo, sei strettissima».

Mi eccitai ancora di più e mi contrassi intorno a lui.

Mi prese tra le braccia e mi tolse dalla scrivania, per poi posizionarmi sulla sua erezione. Gli avvolsi le gambe intorno alla vita, sollevandomi un po’ per potermi muovere meglio.

Si morse il labbro. «Ti piace?»

«Lo adoro», sussurrai.

Ci trovavamo a pochi passi dal muro e lui continuò a penetrarmi per tutto il tragitto. Non sapevo come facesse, ma in fin dei conti era una furia e passava le giornate in palestra. Sbattei la schiena contro il muro freddo, e questo gli permise di fare una maggiore leva e spingersi più in fondo. Allargò le mani sui miei glutei. Riusciva a sostenermi come se non pesassi nulla. Mi tenne fermi i fianchi contro il muro mentre i nostri bacini si scontravano.

«Oddio». Fremetti, e i capezzoli mi si inturgidirono dolorosamente contro i suoi pettorali sodi. Quella dimostrazione di forza bruta accelerò la mia scalata pericolosa. Adoravo il fatto che riuscisse a controllare il mio corpo così facilmente, facendomi quasi provare dolore ma al contempo dandomi un immenso piacere.

«Voglio sentirti. Dimmi cosa ti faccio».

Spalancai gli occhi. «Ti amo tantissimo. Ho bisogno di te, Cam. Da morire». Mi chinai e feci scontrare le nostre bocche fino a restare senza fiato.

Mi strinse ancora di più. Eravamo vicini, avvinghiati l’una all’altro, fermi in quell’istante.

Rispose con una serie di spinte decise. Mi contrassi ed ero così bagnata che riuscì ad affondare ulteriormente. Sentii una scossa elettrica, una sensazione che mi faceva rimanere senza fiato e senza parole ogni volta che raggiungeva il centro del mio corpo.

Mi baciò in modo possessivo, rivendicando la mia bocca con la sua, rubando a entrambi ossigeno.

«Maya».

La sua voce roca mi fece fremere. Tutto sparì tranne la forza dell’orgasmo che si stava impossessando di me. Sentii una voce che non sembrava neanche la mia gridare il suo nome, e lasciai che portasse entrambi oltre il limite.

Si fermò, e un barlume di vulnerabilità gli addolcì i lineamenti. Schiuse le labbra e respirò affannosamente. Il suo umore caldo mi riempì mentre era ancora dentro di me. Mi aggrappai a lui, sperando che in qualche modo potessimo restare così: stretti per sempre, per creare una nuova realtà da cui non avrei mai avuto bisogno di scappare.

 

 

Cameron

 

Un rumore sordo mi echeggiò nella mente. I muscoli si tesero, pronti ad agire. Mi alzai di scatto, madido di sudore, e aprii gli occhi nel buio della stanza.

Maya.

Allungai un braccio e trovai solo le lenzuola sfatte nel punto in cui ci sarebbe dovuta essere lei. Sentii un’ondata di panico e mi agitai. Quando i miei occhi si abituarono al buio e riconobbero le forme della mia camera, presi coscienza di dov’ero e feci un lungo respiro. Cazzo.

Mi sedetti sul bordo del letto e mi presi la testa tra le mani, costringendomi a tornare alla realtà. Nelle vene mi scorreva il panico. Ero all’erta, così come lo ero stato per tanti giorni nel corso di molti anni. Ero abituato a trovarmi in quello stato. A volte non riuscivo a convincere il mio cervello a uscire da quella modalità.

Mi alzai lentamente, dirigendomi verso la cucina. Bevvi un bicchiere d’acqua e finalmente il respiro si normalizzò. Ero lontano da quella vita, continuavo a ripetermelo, eppure continuavo ad avere il timore, assillante e irrazionale, che un giorno mi sarei svegliato di nuovo laggiù. Al solo pensiero mi si stringeva lo stomaco; era una sensazione oscura e disperata, un incubo ricorrente che non se ne andava. Non c’era via d’uscita, era una prigione.

Mi lasciai cadere sul divano. Abbastanza lucido da distinguere sogno e realtà, ero ormai troppo sveglio e all’erta per dormire. Cercai di rilassarmi: chiusi gli occhi e pensai a Maya. Provai un dolore familiare, quello per cui la volevo con me ogni attimo possibile. Era tornata nel suo appartamento, dopo essere stata da me qualche giorno, perché voleva vedere Eli e riabituarsi alla routine lavorativa. Forse era stato per le notti passate ad amarci finché non eravamo distrutti, ma averla nel mio letto teneva a distanza i fantasmi.

Presi il telefono dal tavolo e scorsi le foto finché non ne trovai una di Maya. I suoi capelli biondi erano legati e qualche ciocca ribelle le incorniciava il viso. Gli occhi castani mi guardavano, pieni di significati nascosti. Era in posa, vestita per la festa da cui l’avevo quasi trascinata via. Dopo, avevo fatto l’amore con lei per tutta la notte. Dio, avrei fatto esattamente la stessa cosa in quel momento se fosse stata con me. L’avremmo fatto, le avrei detto quanto l’amavo, che non avrei mai voluto lasciarla andare. Seppellito dentro di lei, l’avrei convinta, e non ne avrebbe mai dubitato.

Avevo bisogno di quella donna. Di possederla, di far sapere al mondo che era mia, di amarla e averne cura.

Chiusi gli occhi, imprimendo quell’immagine nella mente finché non mi addormentai.