Capitolo sette

Cameron

 

Ci sedemmo a un tavolo in un angolo tranquillo del ristorante. Il posto era abbastanza informale da poterci andare dopo la palestra, ma Maya aveva comunque impiegato un po’ più di tempo per prepararsi prima che ci avviassimo. Non sapevo bene come avesse fatto, ma il suo trucco era perfetto e i suoi gioielli brillavano alla luce fioca del ristorante. Era sexy da morire, con una maglia scollata che faceva intravedere il décolleté e dei jeans aderenti che mi avevano fatto impazzire per tutto il tragitto fino al locale. Volevo credere si fosse messa in tiro per me, ma non ne ero sicuro.

Cercai di reindirizzare i miei pensieri ogni volta che partivano per la tangente. Dovevo restare lucido. C’era ancora molta strada da fare per arrivare a conoscerci come volevo, ecco a cosa serviva quella settimana.

«Dimmi come sei finita a lavorare a Wall Street». Facevo ancora fatica a immaginarmela che masticava numeri per la finanza.

«L’azienda cercava laureati, e mi era sembrata una buona opportunità per fare qualche soldo, pagare i debiti eccetera».

«Com’è la tua giornata?».

Scrollò le spalle, rispondendo senza parlare. «Cosa ti ha spinto ad aprire una palestra?», mi chiese.

«Be’, sai, non mi interessava ereditare l’azienda di famiglia». In tutte le nostre fantasticherie sul futuro, Maya sapeva perfettamente del mio desiderio di allontanarmi dalle aspettative dei miei genitori: lauree, completi eleganti e piani per il futuro che implicavano sempre una qualche scalata di merda. Era stata quella che era rimasta più ferita dal mio arruolamento, eppure mi aveva sostenuto perché significava prendere in mano il mio futuro.

Annuì. «Mi ricordo. Ti hanno aiutato?»

«No, ho avuto i fondi da alcuni investitori. Sono riuscito a fare tutto da solo, il che li manda in bestia».

«Sono orgogliosa di te». I suoi occhi si addolcirono e mi sorrise.

«Grazie».

«Come mai una palestra?»

«Nel deserto non c’era molto da fare, quindi sono diventato bravo nell’esercizio fisico. Non è proprio una storia mozzafiato».

Mi sorrise. «Quanto sei stato lì?».

Feci un rapido calcolo a mente. «Quasi tre anni, partecipando a diverse missioni».

Lo scintillio di interesse nei suoi occhi venne smorzato da una nuova emozione. «È terribile».

«No. Mi ero offerto volontario. Avevo scambiato il posto con dei ragazzi che stavano per avere figli, altrimenti avrei potuto congedarmi dopo una o due».

«Non capisco, perché sei partito volontario per andare lì?».

Pensai a quella vita, una vita che non poteva essere più diversa da quella che stavo vivendo: pace, a volte tranquillità e sicurezza erano lussi semplici che ormai davo spesso per scontati. All’epoca aveva senso, ma iniziavo a chiedermi come fossi riuscito a gestire tutto. Ora che ero dall’altra parte, l’unica risposta che mi veniva in mente era che volevo il dolore, che avevo bisogno di vivere un’esperienza intensa e sconvolgente come la guerra per mettere in prospettiva la guerra che c’era nel mio cuore.

«Non lo so», mentii.

«Avevi paura?»

«Era stressante. Insomma, ho visto cose che non dimenticherò mai, certo, ma dopo un po’ ci si abitua. Non ci sono conti da pagare o… non so, stronzate superficiali tipo in quale negozio andare a comprare i regali di Natale. Per molti versi è più semplice. Credo fosse questo a tenermi lì, a farmi tornare sempre. Ogni giorno era uguale, come una specie di purgatorio autoimposto».

Passai il pollice sul bordo della tovaglia. Sapeva che ero andato così tante volte all’inferno a causa sua? Che a volte desideravo il pericolo per cercare di curare la parte agonizzante del mio cuore in cui lei era stata?

«A volte, quand’ero lì da tanto, riuscivo a convincermi che il tempo si era davvero fermato. Ogni giorno era uguale a quello prima, e ne avevo tantissimi altri da vivere».

«Eppure continuavi a tornare».

Annuii. «Pensavo fosse ciò di cui avevo bisogno».

Si tormentò il labbro. «E poi te ne sei andato».

«Al momento giusto, sì. Ho finito l’ultimo turno e sono tornato a casa, pronto a ricominciare».

Restammo in silenzio per un po’. La mia mente fu attraversata da alcuni ricordi particolarmente atroci, visioni che il mio cervello non avrebbe mai dimenticato. Li scacciai, concentrandomi invece sulla splendida donna che avevo davanti.

«E cosa ti ha fatto cambiare idea?», chiese piano.

«La mia famiglia era preoccupata, ovviamente. Mi mandavano email un giorno sì e uno no, chiedendomi quanto fossi vicino ai posti di cui parlavano i telegiornali. Volevano assicurarsi che fossi ancora vivo. Sarei potuto rimanere di più, ma non volevo che passassero ancora momenti così».

«E ti piace New York?»

«L’adoro. È completamente diversa, ovviamente, ma l’attività è stata un’enorme sfida. E mi piace l’energia della città. Per le possibilità infinite, immagino».

«Non sai mai chi puoi incontrare».

«Tu ne sei la prova».

Sorrise e mi si strinse il cuore. Evviva gli incontri casuali.

«Quindi Olivia e Darren sono i tuoi soci?»

«No, Darren ha partecipato a modo suo, ma non riesce a impegnarsi con una donna, figuriamoci in un’attività. Però mi è di grande aiuto. Mi permette di avere del tempo libero ed è un bravo trainer».

«Sembrate legati».

Scossi la testa, immaginando l’avesse intuito dagli insulti che gli avevo rivolto al locale. «Sì, alla fin fine è pur sempre mio fratello. È un rompipalle, ma sotto sotto ci tiene».

«Sei fortunato».

Annuii. Io, Olivia e Darren eravamo indipendenti, a nostro modo, ma sapere che c’eravamo gli uni per gli altri spesso significava tutto.

«E Liv aveva bisogno di cambiare aria», continuai. «Ha lavorato per la società di investimenti di nostro padre, ma si sentiva soffocare. Papà cercava di sistemarla con i ragazzi al lavoro. Era in buona fede, ma nostra madre aveva iniziato a parlare di matrimonio cercando di pianificare tutta la sua vita».

«Sembra stressante».

«Di tutti e tre, lei è quella che non volevano proprio lasciar andare. Con me e Darren dopo un po’ si sono arresi, ma lei è la loro piccolina. La conosci, non voleva deluderli. Ma la situazione stava iniziando a logorarla, quindi le ho detto di venire a stare da me per un po’ e di aiutarmi a organizzare l’attività finché non fosse stata pronta ad andare avanti per conto suo. E tu? Novità in famiglia?».

Tagliò un pezzo di bistecca e se lo portò alla bocca scuotendo la testa. Immaginai non ne volesse parlare. Era sempre stata vaga riguardo la sua famiglia. Suo padre era fuori dai giochi da quand’era piccola, e sua madre sembrava essere un po’ una vagabonda. Avevo fatto fatica a credere che Eli e Vanessa fossero le uniche persone importanti della sua vita dopo che me n’ero andato.

«Allora, come mai una donna bellissima e di successo come te non ha un ragazzo?».

Incrociò il mio sguardo. «Sei proprio deciso a capirmi, eh?»

«Altroché. A questo punto ti conviene mettermi subito al corrente di tutto».

Roteò il bicchiere e la luce brillò nel liquido all’interno. «Potrebbe non piacerti quello che sentirai».

I muscoli mi si contrassero per l’attesa. «Allora sputa il rospo, forza».

«Non frequento nessuno». Il tono era duro, e le sue labbra rosee si contrassero leggermente.

«Mai?», chiesi inarcando un sopracciglio.

«Non voglio entrare in convento, se è quello che stai pensando».

Serrai la mascella. Non mi piacque affatto pensarla con qualcuno che non fossi io, avrei preferito il convento. «Non pensavo a quello, ma qual è l’alternativa? Amicizie di letto?»

«Be’, le relazioni portano comunque lì. In questo modo è più semplice. Nessun dramma». Sospirò. «E nessuno si fa male».

Cavolo, chi era quella donna e dov’era la mia Maya? Mi massaggiai la mascella, sempre tesa, e cercai di capacitarmi di ciò che mi aveva appena detto.

«Non è una visione un po’ pessimista?»

«Mi piace pensare sia realista».

«Dare per scontato che qualsiasi relazione seria avrai finirà per ferirti?»

«Le esperienze che ho avuto confermano la teoria», disse semplicemente.

Quella frase mi zittì per un po’. Ebbi l’impressione che le sue teorie coincidessero con la nostra storia. Era stata la fine della nostra relazione a ispirare quella visione fredda e distaccata? Finimmo di mangiare in silenzio, poi posai il tovagliolo sul tavolo.

«Se non frequenti nessuno, allora immagino che questo non sia un appuntamento. Sto facendo un colloquio per entrare a far parte della lista delle tue conquiste?».

Risi, ma non ero sicuro di voler sapere la risposta. Inarcò impercettibilmente il sopracciglio.

«Stiamo cercando di conoscerci», ribatté indicandoci. I nostri sguardi si scontrarono.

«Sembra che la cosa potrebbe farsi complicata».

Alzò gli occhi al cielo. «Pensavo mi volessi come amica».

«Infatti. Ho anche detto che potrei desiderare di più. Sarò pazzo, ma pensavo che avessi considerato anche tu l’idea».

«Sono riuscita per anni a evitare una relazione, non ho intenzione di fare eccezioni ora».

La guardai intensamente, cercando un segno che indicasse che non credeva davvero a quanto aveva appena detto. Non potevo credere che fosse diventata così, che in fondo al cuore non provasse gli stessi sentimenti che provavo io, gli stessi desideri che avevo iniziato a coltivare per noi.

«Quindi pensi che io sia come tutti gli altri?».

Chiuse gli occhi, tenendoli così per un secondo di troppo.

«So che non lo sei».

 

 

Maya

 

Attraversammo il parco. Manhattan si rifletteva sul fiume, migliaia di luci danzavano sull’acqua. Non mi dava fastidio il freddo, visto che Cameron era affianco a me, con il braccio sulle mie spalle, che mi riscaldava e mi teneva vicina. La serata aveva tutta l’aria di essere un appuntamento. Non volevo ammetterlo, ma Cameron era già un’eccezione. Non era come tutti gli altri. Anzi, era proprio l’opposto.

Cameron era stato il mio primo e unico amore, ma avercela con lui era difficile quando, nonostante il nostro passato doloroso, volevo ancora stargli vicino. Stare insieme era sempre stato semplice, qualcosa di naturale per cui nessuno dei due doveva sforzarsi. Anche dopo tutto il tempo che avevamo passato separati, sembrava essere ancora così.

Quando mi prese la mano gliela strinsi, forse per abitudine; quando mi attirò a sé mi appoggiai a lui, deliziandomi di quei contatti che non sapevo dove avrebbero portato. Con lui agivo d’istinto. E lo faceva anche il mio cuore, la mia anima maltrattata che sarebbe stata più al sicuro tenendosi a distanza.

«Sono felice che siamo usciti». Il tono basso della sua voce mi fece vibrare.

«Anch’io. La cena è stata fantastica, grazie».

Avevo mangiato a sazietà, forse in barba al nuovo regime salutista, ma più che altro perché dopo essere andata in palestra tutti i giorni morivo di fame. In quel momento, mi faceva quasi male la pancia da quanta bistecca avevo mangiato, seguita poi dal dolce.

Le mie dita toccarono il pacchetto di sigarette in fondo alla tasca del cappotto. Cedetti all’impulso di celebrare il mio rituale postcena, quindi tirai fuori il pacchetto e presi una sigaretta.

«Che stai facendo?»

«Ho bisogno di fumare. Ti dispiace?».

Si fermò di colpo. «Sì che mi dispiace, che cazzo».

Prima di riuscire anche solo a pensare, mi prese la sigaretta da una mano e rimise quell’oggetto oltraggioso nel pacchetto che tenevo nell’altra.

Spalancai la bocca per la sua sfrontatezza. «Che stai facendo?»

«Regole mie», disse semplicemente. La sua espressione era determinata.

«Non c’erano regole sul fumare, nel nostro accordo».

«Quando cavolo hai iniziato?»

«Non lo so. Quando la vita ha iniziato a essere stressante, credo. Ridammele».

Cercai di prenderle, ma sollevò la mano per non farmici arrivare.

«Vuoi che ti dica che te le ridarò alla fine della settimana?»

«Lo farai?».

Esitò per un attimo. «No. Non ne ho la minima intenzione, sinceramente».

Strinsi i denti, facendo violenza su me stessa per non sbattere i piedi. «Stai iniziando a farmele girare, lo sai?».

Mi guardò e gli spuntò un sorrisetto sghembo sulle labbra. «Sei adorabile quando sei arrabbiata».

«Non sono adorabile».

«Invece sì. Non sottovalutarti».

Sbattei il piede per terra e gemetti, cercando di non sorridere. Guardai intorno a noi, sperando di riuscire a ritrovare la scintilla di rabbia originaria. Mi chinai e presi una manciata di neve, che gli tirai dritta in faccia.

Sobbalzò e gridò. «Ma che cavolo!».

«Ancora adorabile?».

Si tolse la neve dal viso, rivelando un largo sorriso. «Okay, l’hai voluto tu». Si chinò e formò una palla di neve.

«Non lo faresti mai».

«Scommettiamo?».

Feci qualche passo indietro per precauzione.

«Inizia a correre», mi avvertì.

Fece per lanciare e io scappai, trovando velocemente un albero per ripararmi dalle palle di neve che volavano verso di me. Ne tirai anch’io qualcuna, ma nessuna colpì il bersaglio. Sarebbe stato più facile, se non si fosse aspettato l’attacco. Mi nascosi dietro il tronco e ne preparai un’altra, ma lui fece il giro e mi placcò per terra. Ero bloccata sotto di lui, la schiena nella neve.

Gridai, all’improvviso spaventata di ritrovarmi con la faccia piena di neve. «No, fermo!».

«Ti dispiace?»

«Sì, mi dispiace. Fermo, per favore!».

Esitò, come se stesse valutando la sincerità del mio pentimento.

«No, ti prego», supplicai.

«Niente sigarette?»

«Neanche un tiro, giuro». Era una decisione avventata, ma ero disperata. Inoltre, una piccola parte di me (quella non arrabbiata perché le era stato detto cosa fare col proprio corpo) era felice che lui ci tenesse abbastanza da dire quelle cose.

Buttò via la sua arma e si rilassò. Mi incatenò con lo sguardo. Eravamo avvolti dalla nebbia, mentre riprendevamo fiato.

Quando mi resi conto della posizione in cui eravamo, il sorriso mi svanì dalle labbra. Mi si stavano congelando le chiappe, ma la pressione del suo corpo contro il mio e la sua coscia tra le gambe mi stavano riscaldando fin troppo velocemente. Prima che riuscissi a dire qualcosa per rompere quella tensione sessuale, mi ritrovai con le sue labbra sulle mie.

 

 

Cameron

 

Le sue labbra erano morbide. Sospirò, sciogliendosi tra le mie braccia come aveva fatto tante altre volte. Il suo profumo mi riempì i polmoni e fece riaffiorare i ricordi.

La volevo assaggiare.

Le afferrai i capelli e mi sistemai sopra di lei. Le nostre lingue si incontrarono, inizialmente esitanti. Un gemito la fece vibrare e mi spronò ad avventarmi sulla sua bocca. Cazzo, quant’era dolce. Si aggrappò al mio cappotto, senza muoversi, mentre facevo vagare le mani tra i suoi capelli, sul contorno del suo viso, sul suo petto.

«Maya…». Il suo nome mi scappò dalle labbra come un soffio, offuscando momentaneamente gli anni in cui eravamo stati lontani, come se non fossero mai esistiti. Il sogno di quello che eravamo stati era di nuovo reale.

Maledissi gli strati di stoffa che ci separavano. Volevo il suo seno nei miei palmi, ogni centimetro della sua pelle esposto per sfiorarlo. Volevo stuzzicarla e accendere il suo desiderio fino a farla tremare. La volevo pronta per me, che mi pregasse di possederla subito come avevo voluto da quando l’avevo rivista.

«Cam», sospirò.

Le baciai delicatamente le labbra ora gonfie, affondando la lingua per non farla parlare. Mi allontanò leggermente.

«Cosa stiamo facendo?». Aveva gli occhi lucidi e le guance arrossate.

Avevo la vista appannata per il bisogno che avevo di sentire il suo corpo e sbattei le palpebre. Poi la baciai di nuovo. Non volevo che quel momento finisse. «Stiamo pomiciando su un cumulo di neve. Tranquilla, è normale», sussurrai.

Sorrise contro le mie labbra.

Feci scivolare la mano sulla sua coscia e poi di nuovo su, sotto la giacca e sulla cintura dei jeans. A parte gli scherzi, ero pronto per fare l’amore con lei su quel cumulo di neve. Sopraffatto dal desiderio di toccarla, di reclamare la sua pelle e il suo corpo e tutti i punti che erano stati miei, le passai una mano sul ventre e sulla curva morbida della vita.

Ridacchiò, spingendo giù il mio avambraccio, e la mano mi scivolò via da quella pelle calda.

Mi bloccai. «Che succede?»

«Hai le mani gelate», rise.

«Oh, merda. Scusa».

Feci per spostarmi ma lei parlò.

«Non ti fermare».

Mi passò le dita tra i capelli, bloccandomi. Si leccò il labbro inferiore e mi irrigidii. Cristo, desideravo quella donna. Il mio cervello non aveva voce in capitolo per decidere se fosse il momento giusto o no. Dovevo essere dentro di lei, e presto.

Strinsi la presa sul suo fianco. «Non credo ci riuscirò, se ti bacio di nuovo».

«Allora baciami», sussurrò.

Mi attirò contro la sua bocca tirandomi i capelli, il che indicava senza dubbio che non voleva mi fermassi. E non ne avevo intenzione.

Il tempo si arrestò. Non importava nient’altro, solo noi due, vicini e l’una nelle braccia dell’altro. Le baciai la mascella, il collo, di nuovo la bocca, fino a restare senza fiato. Niente avrebbe potuto fermarmi. Ogni movimento intensificava il mio bisogno di averla.

Mi girava la testa, il cuore batteva a mille, mi sentivo come se fossi sull’orlo di un precipizio: non avevo idea di cosa ci fosse sul fondo, ma sapevo che se fossi andato a letto con lei avrei oltrepassato il punto di non ritorno. L’avevo amata, e se mi fossi innamorato di nuovo di lei non sarei stato mai più in grado di dimenticarla. Eppure, per quanto volessi aspettare il momento giusto, quello sembrava il migliore. Lambii la sua lingua, la sollevai sulla mia coscia provocando il giusto livello di attrito per farla impazzire. Gemette e mi baciò con tutta la passione che avevo dimostrato anch’io. Ero estremamente eccitato, in fiamme nonostante il freddo. Non riuscivo a fermarmi.

I suoi ansiti mi fecero scordare che stavamo pomiciando su un cumulo di neve, finché delle voci in lontananza non mi riportarono momentaneamente alla realtà. Mi staccai dalle sue labbra mettendo fine alla frustrante esplorazione del suo corpo coperto.

«Porca vacca». Ripresi fiato per un minuto. Mi alzai con riluttanza e tirai su anche lei.

Mi sentivo come una strana massa di umido, caldo, freddo e fastidio quando mi ritrovai in posizione verticale. Non volevo lasciarla andare, ma francamente non avremmo potuto andare molto oltre senza essere passibili di oltraggio al pudore.

«Dovremmo tornare indietro». Si scrollò la neve dai jeans.

«Sì, dovremmo portarti al caldo».

«E all’asciutto. Sono bagnata fradicia».

Feci violenza su me stesso per ignorare il doppio senso di quella frase, la presi per mano e andai verso la macchina, deciso a infrangere tutte le sue regole.

 

 

Maya

 

Nel breve tragitto di ritorno restammo in silenzio, con Cameron che mi stringeva la mano. Quel contatto non era casuale ma saldo; le nostre dita erano intrecciate e posate sulla sua gamba mentre guidava verso il mio appartamento. Il suo sguardo era puntato sulla strada e aveva un’espressione decisa che valorizzava i suoi stupendi lineamenti.

Mi strinse delicatamente la mano mentre continuavo a guardarlo con un misto di meraviglia e preoccupazione. Quel semplice tocco era l’unico contatto tra noi ma era significativo, come un filo che collegava i nostri cuori e che era sempre esistito, anche negli anni della distanza. Ora, con il nostro nuovo incontro, quel filo tirava – dava strattoni forti e dolorosi che diventavano sempre più difficili da ignorare ed erano il risultato dei ricordi latenti. Erano un misto tra i nuovi sentimenti e quelli vecchi.

Avevo bandito quei sentimenti dalla mia vita troppo a lungo per poterli affrontare tranquillamente. Avevo avuto diversi amanti. Erano per la maggior parte bravi ragazzi, non bestie assetate di sesso come facevo credere. In realtà, avrei potuto avere delle relazioni con loro senza sforzarmi troppo, ma appena nascevano sentimenti più profondi mi ritiravo. All’inizio l’avevo fatto inconsapevolmente, dando la colpa a una mancanza di interesse da parte mia, a qualche difetto immaginario o presunto. Alla fine però ero riuscita a distinguere quel momento ricorrente di paura, il momento in cui il loro rifiuto avrebbe avuto il potere di ferirmi. E non potevo riviverlo. Cameron mi aveva distrutta, e avevo ributtato tutti i pesci in mare per evitare di provare di nuovo quel dolore.

Eppure ero lì, insieme al demone che mi aveva fatta a pezzi senza possibilità di rimedio. La minaccia di un rifiuto si mischiava a quell’innegabile attrazione, un’energia pulsante che mi aveva sempre trascinata nella profonda agonia del nostro amore. Era quello che Cameron rivoleva? Dopo quello che gli avevo detto, forse stava davvero cercando di dimostrare che non era come gli altri. La realtà era che non poteva essere proprio nulla, se volevo sperare di salvarmi.

Il silenzio continuò a regnare tra noi, mentre salivamo su in casa. Non c’era bisogno di parlare: al parco l’avevo tacitamente invitato, e il suo sguardo risoluto dimostrava chiaramente che aveva accettato. Appena varcata la soglia me lo ritrovai addosso. Ci togliemmo i cappotti e iniziò a far vagare le mani liberamente sulla mia pelle, tra il maglione e i jeans, poi sulle costole, con l’intenzione di salire ancora. Fui colpita dall’intensità del mio desiderio, la sua erezione premuta contro di me.

Gli cinsi il collo e lui mi circondò la vita, sollevandomi e stringendomi a sé. L’attrito tra i nostri corpi fu abbastanza per farmi impazzire. La lussuria iniziò a scorrermi dentro come lava, facendo vacillare la mia fermezza, il mio giudizio e tutte le regole che mi ero imposta per tenere al sicuro il mio cuore.

La sua bocca e le sue mani si muovevano su di me, reclamavano con passione il mio corpo, lo stesso che un tempo conosceva così intimamente. Non c’era nessuna esitazione, nessun impaccio. Ogni movimento prometteva piacere. Cazzo, quanto lo desideravo. In quel momento mi lasciai andare, cavalcai quell’onda finché non sentii l’umidità del mio desiderio e mi scoprii pronta a gridare per la frustrazione.

Le nostre labbra si staccarono. Deglutii e ripresi fiato. Non potevo arrendermi così, non quella sera. Stavo tornando a pensare razionalmente. Gli presi il braccio e glielo abbassai.

«Vado a cambiarmi», dissi con voce affannosa e carica di dubbi.

Mi fissò confuso. Lo spinsi delicatamente indietro per poter fuggire via. Non riuscivo a pensare lucidamente se mi stava vicino, e avevo un disperato bisogno di riflettere invece di farmi guidare dai miei istinti.

«Fatti del caffè, o prendi quello che vuoi. Torno subito».

 

 

Cameron

 

La lasciai andare con riluttanza e lei sparì in camera da letto, chiudendosi la porta alle spalle. Prima i vestiti, ora tra noi c’era una porta. Mi accigliai, irritato dalle piccole cose che ci separavano e che prima non lo facevano. Mi infilai le mani in tasca, cercando di non pensare al fatto che avevo creato personalmente tutti gli ostacoli che c’erano tra noi.

Non sapevo perché mi avesse respinto. Nello sforzo di distrarmi, feci un giro della stanza studiandone i dettagli, sperando che la mia frustrazione diminuisse.

Lei ed Eli sembravano vivere in modo semplice, il che mi stupì. Da quando l’avevo rivista, tutto di lei diceva che si stava adeguando a un qualche tacito standard. Il modo in cui si vestiva e il suo atteggiamento erano in contrasto con la ragazza semplice che conoscevo, ma la sua casa sembrava normale e modesta. La stanza era arredata con mobili vecchi ed eterogenei, e le uniche decorazioni erano foto di lei, Eli e del loro gruppo di amici. Le studiai, incapace di trattenere un sorriso davanti a quelle in cui rideva ed era in posa. Nella maggior parte sembrava fosse un po’ brilla, ma felice. Sentii il petto bruciare: volevo renderla così felice.

Mi sedetti sul divano, sforzandomi di rilassarmi. Perché cavolo ci metteva tanto? Avrei voluto entrare in camera, interrompere il cambio d’abito e spogliarla; premerla contro il muro come avevo fatto poco prima, pelle contro pelle.

‘Fanculo a tutto. Mi piegai in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. Dovevo pensare ad altro per non assalirla come un animale. Non potevo rischiare di allontanarla, dovevamo prenderla con calma. Ripetei il mantra, cercando disperatamente di convincermi. Se avessimo avuto anche solo una possibilità di avere qualcosa di più nel lungo termine – qualsiasi cosa significasse, nella nuova ottica distorta di Maya sulle relazioni – dovevamo provarci.

Presi il telecomando dal tavolino davanti a me e accesi la TV, togliendo il volume, poi lo posai. Lì accanto, notai un quaderno a spirale con dei fogli volanti all’interno e altri sparsi intorno. Quelli visibili erano scarabocchiati, e riconobbi immediatamente la calligrafia di Maya.

Feci per prenderli, ma arrivò in quel momento. Alzai lo sguardo su di lei. Indossava i pantaloni della tuta e una felpa con il cappuccio. I suoi occhi erano spalancati e aveva un’espressione preoccupata che prima non c’era. Si diresse al tavolino e infilò velocemente i fogli nel quaderno, poi si allontanò di qualche passo tenendolo stretto al petto.

«Tutto bene?».

Schiuse le labbra, gli occhi fissi su di me. «Sì», rispose in tono esitante. Posò il quaderno sulla mensola alle sue spalle. Mi raggiunse sul divano e si sedette, fissando il televisore.

Tremò e si strinse tra le braccia. Tra noi era cambiato qualcosa nel corso di quegli ultimi minuti. Non sapevo perché, sapevo solo che la volevo di nuovo tra le mie braccia.

«Vieni qui», sussurrai porgendole la mano.

Il suo sguardo tremò e mi guardò da sotto le ciglia. «Cam, non dovremmo…».

Prima che provasse a dissuadermi, l’attirai a me in modo che si accucciasse contro il mio petto.

Senza dire altro la sentii rilassarsi. I tremiti si fermarono e rimase solo il suono dei nostri respiri. Avevo paura di parlare e di richiamare l’attenzione su qualsiasi cosa fosse successa all’improvviso tra noi, quindi la tenni semplicemente stretta a me. Ero stato senza di lei per tanto tempo. Non avevo il diritto di volere di più, di chiedere di più. Quello era abbastanza. Per il momento, era abbastanza.