Capitolo sedici
Cameron
Restai in silenzio al buio, ascoltando il ticchettio delle lancette del nuovo orologio che Olivia aveva appeso al muro. Era tutto perfetto: i mobili, i cuscini del cazzo, perfino dei quadri sulle pareti. Nel mondo di Olivia, compiacere i nostri genitori era ancora importantissimo.
Era passata l’una di notte. Sarebbero arrivati tra qualche ora, eppure non riuscivo a prendere sonno. Maya aveva messo in chiaro che non voleva la seguissi. Mi ero ripromesso di non farla più scappare, ma il senso di colpa aveva superato la frustrazione. Avevo reagito senza pensare, senza prendere in considerazione neanche per un attimo cosa significasse tutto quello per lei. Ero stato uno stronzo a sfogarmi così, a giudicarla troppo in fretta. Si era già allontanata da me una volta, ma a quanto pareva dovevo ancora imparare la lezione.
Sobbalzai quando sentii squillare il telefono. Era il numero di Maya.
«Maya?»
«Sono Vanessa. Sei a casa?»
«Sì. Che succede? Va tutto bene?»
«È per Maya. È…».
Mi alzai di scatto. «Che succede?»
«Si è presentata a casa mia una ventina di minuti fa. È quasi caduta fuori dal taxi. La farei stare qui da me, ma i miei genitori arrivano in mattinata. Non voglio si senta a disagio quando si riprenderà. Mi dispiace…».
«Va bene. Scrivimi l’indirizzo, arrivo appena possibile».
Riattaccai, corsi fuori e balzai sul SUV parcheggiato in strada.
Quando arrivai, Vanessa uscì e mi fece cenno di fermarmi. Era in pigiama.
«Dov’è?».
Mi fece entrare, poi mi condusse lungo il corridoio fino a una piccola camera. Lì Maya era sdraiata sul copriletto, priva di sensi. Il suo viso era nascosto dai capelli scompigliati, braccia e gambe abbandonate in maniera scomposta.
«Quanto ha bevuto?».
Vanessa si mordicchiò il labbro senza staccare lo sguardo da Maya. «Non lo so. Ha detto che è stata al Delaney’s. È un locale vicino all’ufficio, ogni tanto ci va».
«Non l’ho mai sentito».
«Dubito ti porterebbe lì. È una specie di bettola. Non mi sorprenderebbe se le avessero servito quello che voleva finché l’ha voluto. E potrebbe essere molto. Non sa quand’è il momento di fermarsi».
«Dici?». Il mio tono era tagliente, traboccava di delusione perché lasciava che la sua amica si riducesse così.
Incurvò leggermente le spalle, tradendo il senso di colpa. «Mi dispiace disturbarti. Di solito c’è Eli, ma è andato dalla sua famiglia. Non sapevo chi altri chiamare».
«Hai fatto bene a chiamarmi. Però che cazzo, Vanessa! Come potete guardarla ridursi così e non dire niente?».
Incrociò le braccia evitando i miei occhi.
«Questa storia finisce stanotte».
Alzò lo sguardo e incontrò il mio.
«Se scopro che si è ridotta di nuovo così insieme a te o Eli, dovrete risponderne a me».
«Non posso controllare quanto beve, è adulta e vaccinata».
«Allora non uscire con lei».
Non aspettai la sua risposta e andai da Maya. Non riuscendo a svegliarla in nessun modo, la presi in braccio.
«Puoi aprirmi la portiera?».
Vanessa annuì, mi precedette e uscì. Posai Maya sul sedile posteriore, la coprii con il mio cappotto e alzai al massimo il riscaldamento. Nonostante tutto il trambusto fatto per portarla fin lì, non si svegliò.
«Devo portarla in ospedale? Non reagisce». Le posai una mano sul cuore: il battito regolare andava al ritmo del suo respiro. Almeno stava respirando.
«So che sembra messa male, ma credo stia bene. Insomma, domani mattina starà da schifo, ma non è la prima volta che le succede».
«A quanto pare». Trattenni una serie di commenti acidi e chiusi la portiera. «Buonanotte, Vanessa».
«Buon Natale». Il tono era triste, con un briciolo di sarcasmo che una piccola parte di me apprezzò. Buon Natale del cazzo.
Guidai fino all’appartamento di Maya. La presi in braccio con cautela e riuscii a trovare le chiavi nella sua borsa. Mentre entravamo in camera il suo corpo si irrigidì, e mi sembrò di aver sentito un gemito attutito contro il mio petto. La posai sul letto e accesi la lampada. Socchiuse gli occhi, riparandosi dalla luce con le mani.
«Sei tu, Cam?»
«Sì».
Si girò di lato e mugugnò, un suono felice da ubriaca. Le tolsi i vestiti con la delicatezza di un bambino che spoglia una bambola di pezza. Dopodiché mi svestii anch’io e mi infilai nel letto accanto a lei, coprendo entrambi.
Le scostai i capelli dal viso. «Stai bene?».
Aprì le palpebre e sembrò mettermi a fuoco. Nei suoi occhi vidi un lampo di confusione ma poi mi riconobbe.
«Perché ti fai questo, Maya?», sussurrai. Le sfiorai la guancia e la guardai riaddormentarsi.
Aprì gli occhi e mi trovò nonostante la confusione. Mi prese la mano, allontanandola debolmente dal suo viso e posandosela sul petto. «Cam… Ti amo. Anche se non durerà mai, tra noi. Ti amo ancora. Voglio che tu lo sappia».
«Perché dici così?»
«Manderò tutto a puttane, in qualche modo… Proprio come ora. E tu andrai di nuovo via».
Le sue labbra si strinsero tristemente e mi chiesi se avrebbe pianto. I suoi occhi erano gonfi e rossi, come se l’avesse già fatto.
Serrai la mascella e digrignai i denti alla fitta di dolore che mi provocarono quelle parole. Se quello che avevo fatto anni fa era la causa della sua tristezza, di qualsiasi cosa l’avesse fatta cadere così in basso, la conoscevo più intimamente di chiunque altro. D’altronde, mi ero sottoposto alla stessa tortura. Ci avevo convissuto. Ed ero sopravvissuto.
La baciai dolcemente. «Non me ne vado. Mi prenderò cura di te, va bene?».
Chiuse gli occhi. Il sorriso triste scomparve e si riaddormentò. La guardai, studiai il suo respiro finché il sonno non colse anche me. Lottai perché temevo che, una volta chiusi gli occhi, l’avrei persa di nuovo.
Maya
Ero stata male per ore prima di accorgermi improvvisamente che era Natale. Troppo imbarazzata per essermi fatta vedere da lui in quello stato pietoso, supplicai Cameron di lasciare che mi depurassi dalla mia orribile stupidità da sola. Continuarono ad arrivare ondate di nausea, poi le lacrime. Non ricordavo molto, ma sapevo che non era un bene. Mi ero svegliata nel letto con lui, che aveva un’espressione preoccupata stampata in faccia. Nei miei ricordi della sera prima Cameron non c’era, e non era un buon segno.
Dopo un po’ bussò alla porta. La nausea mi aveva concesso un attimo di tregua, e mi mossi sul tappeto del bagno.
«Tutto bene, Maya?»
«Sì».
Mi alzai lentamente per evitare che la testa mi pulsasse ancora di più. Non volevo vedere in che stato fosse la mia faccia; avevo paura che anche solo un’occhiata allo specchio mi avrebbe fatta correre di nuovo verso il water, quindi tenni lo sguardo basso mentre mi lavavo la faccia e i denti. Mi asciugai e uscii dal bagno, superando Cam e tornando in camera.
Crollai sul letto, stringendomi nelle coperte come se potessero proteggermi – salvarmi, in qualche modo. Si sedette ai miei piedi, in silenzio, e restò immobile.
«Posso portarti qualcosa?»
«No», gracchiai. «Grazie per… esserti preso cura di me, ieri notte».
«Come ti senti?»
«Credo preferirei essere morta che in questo stato. Fa male perfino parlare». E non esageravo.
«Non avevo escluso che potessi morire, ieri sera».
Chiusi gli occhi e capii in che condizioni di merda dovevo essere stata la notte prima. «Ho solo bevuto troppo».
«No, hai bevuto in un locale in cui non conoscevi nessuno, hai perso i sensi e sei quasi caduta dal taxi che, grazie a Dio, ti ha portata a casa di Vanessa. Come tu sia riuscita ad arrivare fin lì nello stato in cui eri, è un mistero».
Le lacrime minacciarono nuovamente di uscire, e il ronzio nella mia testa si fece più acuto e più forte.
«Per favore». La supplica mi sfuggì in un soffio. «Non puoi farmi sentire più in colpa di quanto già non sia».
«Non cerco di farti sentire in colpa, ma di farti capire cosa mi hai fatto passare. E anche a Vanessa. Ne hai un’idea?».
La sua voce era tesa. Percepivo la rabbia sfrenata della sera prima in ogni parola, ma era proprio quella rabbia ad avermi fatto scattare.
Contro ogni mio istinto, aprii gli occhi. Il modo in cui lui mi guardava, con preoccupazione e dolore, mi fece crollare del tutto. Combattei contro la nausea che era tornata a farsi sentire. Il mio corpo era ancora in guerra con se stesso.
«Mi dispiace. Non devi stare con me. Di sicuro vorrai passare la giornata con la tua famiglia, in fondo oggi è Natale».
«Per quanto sia arrabbiato no, preferisco stare con te». Mi posò un pacchetto accanto.
«Cos’è?»
«Un regalo. Uno dei tanti. Non ero preparato alla mattina di Natale, quando ieri ti correvo dietro».
Il tono della sua voce mi fece di nuovo sentire in colpa. Volevo prendere il pacchetto, ma mi sentivo indegna.
«Aprilo».
Lo guardai con gli occhi pieni di lacrime. «Ci stiamo lasciando?».
Fece una smorfia. «No. Perché dici così?».
Mi sfuggì una risatina amara. «Perché sono un disastro, ecco perché. Non capisco perché tu voglia stare con me in queste condizioni», dissi indicandomi.
«Be’, per fortuna non sei sempre sbronza. Si dà il caso che mi piaci molto quando non lo sei. Punto su quello».
«E il resto di me?»
«Ne parleremo quando non ti sentirai uno schifo». Indicò il pacchetto. «Apri il regalo».
Lo presi, lo scartai e vidi che era un quaderno. Sfiorai con le dita la morbida pelle marrone della copertina e sfogliai le pagine di pergamena color seppia.
«È bellissimo».
«Per la tua scrittura».
Alzai lo sguardo troppo in fretta e mi tornò il mal di testa.
«È stupendo». Troppo, per le mie parole. «Grazie».
«Prego».
Fece un respiro profondo, pieno di sollievo e stanchezza, sembrava. Mi chiesi per quanto l’avessi tenuto sveglio, quanto l’avessi fatto spaventare.
«Maya, dispiace anche a me… per ieri sera. Non avrei dovuto lasciarti andare via così».
«Ti dispiace?»
«Ho esagerato per la storia di Dermott. Insomma, non giustifico le sue azioni o quelle di Jia, ma ho perso la testa e non te lo meritavi. Sono sicuro che non ti saresti ridotta così, se non avessi fatto lo stronzo».
«Non è colpa tua se ho bevuto così tanto. Di scuse per farlo ne trovo anche in settimana e senza il tuo aiuto, fidati».
«Perché?». Incrociò il mio sguardo. «Non posso prometterti che capirò, ma cerca lo stesso di spiegarmi cosa ti prende quando fai così».
Posai la mano sulla fronte. Perché? Perché lo facevo? E ci ricascavo ogni volta, dopo aver giurato a me stessa che non avrei più bevuto così tanto. Dopo aver punito il mio corpo così duramente come avevo fatto la sera prima.
«A volte ho bisogno di far sparire tutto per un po’». Chiusi gli occhi ma non potevo sfuggire alla realtà che stavo affrontando. «Sul momento mi sento felice», sussurrai, fin troppo consapevole del fatto che in quel momento non lo ero per nulla.
«Cercare di affogare la malinconia dà come risultato una felicità artificiale, non trovi?»
«Forse. Ma il sollievo crea dipendenza, che la felicità sia vera o no. Ho paura che quella sensazione finisca, che la realtà torni, e inizio a sentirmi male prima di essere pronta ad affrontare la mia vita. Quindi bevo di più, e a un certo punto non capisco più quello che sto facendo. Esagero e… sì, a volte perdo i sensi».
«E qualcuno è lì a raccogliere i pezzi».
Annuii lentamente. «Vanessa ed Eli sono sempre con me, è per questo che ho chiamato lei».
«So che sono i tuoi migliori amici, ma non è il loro lavoro assicurarsi che tu non venga aggredita o che nessuno si approfitti di te».
Aggrottai le sopracciglia, incapace di razionalizzare il fatto che stesse esagerando. «Guarda che anch’io mi sono presa cura di loro. Ho tolto a Vanessa i capelli dalla faccia parecchie volte, mentre era chinata sul water».
«Non sei all’università, Maya. Sei un’adulta. Per quanto hai intenzione di andare avanti così?».
Avvampai, la frustrazione arrivò in superficie. «Senti, sto soffrendo abbastanza, non ho bisogno di te che mi giudichi. Fidati, non è così che volevo trascorrere il Natale». Mi massaggiai le tempie cercando di far passare il dolore. «Che ore sono?»
«Quasi mezzogiorno. Perché?»
«Devo andare via».
«Dove vai?»
«Da mia nonna. Non sentirebbe la mia mancanza, ma devo andare da lei così non resta sola per Natale, visto che il progetto è concluso».
«Dove abita?»
«In una casa di riposo a qualche ora fuori città».
«Ti accompagno».
«Non c’è problema, di solito affitto una macchina». Mi lamentai mentalmente al pensiero di dovermi muovere nelle mie condizioni, soprattutto per organizzare i dettagli all’ultimo minuto del viaggio.
«Non sei nelle condizioni per guidare. E in più, tra poco dovrebbe nevicare».
«Non sono più ubriaca!», sbottai.
Lui si alzò. «Non mi sorprenderebbe se invece lo fossi. E comunque non stai abbastanza bene per guidare. Ti porto io. Datti una sistemata, e magari prima di partire mangia qualcosa».
Cameron
Iniziò a nevicare poco dopo la nostra partenza. Mi sentii subito sollevato nel vedere la città nello specchietto retrovisore, come se fossimo usciti da una bolla di rumore e caos per entrare in un altro mondo. Mi succedeva ogni volta che andavo via, e ogni volta non vedevo l’ora di tornare in quella bolla.
Maya si era addormentata. Aveva a malapena mangiato, ma aveva ripreso colorito. Se non altro, stava migliorando.
Quando il telefono squillò, erano passate un paio d’ore. Risposi velocemente per farlo smettere di suonare. Era Olivia. «Che succede?»
«Dove sei?»
«Sono con Maya».
«Fantastico, ma mamma e papà sono qui. E ci chiedevamo tutti dove fossi finito».
«Be’, puoi dire loro che sono con Maya. Saranno entusiasti. Stiamo andando a trovare sua nonna».
«Cosa? Dove? Stai guidando?»
«Sì, sto guidando, e probabilmente tornerò tardi. Quindi sentitevi liberi di festeggiare senza di me».
«Non puoi lasciarci con loro, Cameron». La sua voce sfumò in un sussurro infuriato.
Trattenni una risata. In un certo senso ero contento della situazione in cui si trovava, ma d’altra parte mi sentii un po’ in colpa per averla abbandonata. Noi figli eravamo in maggioranza numerica, e di solito insieme riuscivamo a evitare che uno di noi venisse massacrato dai loro giudizi e dai loro commenti maligni. Al nostro piccolo esercito mancava un soldato, ma non avremmo avuto bisogno nemmeno di un esercito se lei avesse tenuto la bocca chiusa.
«Sei tu che hai combinato il casino, Liv, veditela da sola. E fai le mie condoglianze a Darren».
«Daranno di matto. Devi tornare qui».
«Di’ loro di andare in albergo, io arrivo più tardi. Forse riusciamo a fare un salto prima che se ne vadano. Mi dispiace, ma ora non posso tornare indietro».
«Vaffanculo», sbottò prima di riattaccare.
Posai il telefono e tornai a concentrarmi sulla strada.
«Chi era?».
Maya si era tirata su. Ora era appoggiata al sedile e mi guardava con occhi stanchi.
«Olivia».
«Che succede?».
Scrollai le spalle, non volevo parlarne.
«Scusa tanto, Cameron, ma mi fai la predica perché ti escludo, e poi fai la stessa cosa con me? Se vuoi essere un buon esempio, forse è il caso che riconsideri la scrollata di spalle e mi dica invece cosa sta succedendo».
«Devi sentirti meglio, perché stai iniziando a farmi innervosire di nuovo».
Si girò per guardare fuori dal finestrino e la vidi sorridere nel riflesso.
«E va bene. I miei sono a casa. Li ha invitati Olivia, più o meno».
«Che vuol dire?».
Non avevo intenzione di dirle che sia Olivia sia i miei avevano scelto lei come capro espiatorio, incolpandola per le missioni per cui ero partito volontario.
«Sono dei ficcanaso e volevano controllarci. Una volta che si mettono in testa una cosa, è difficile che cambino idea».
«Ce l’hai ancora con loro? Hanno pagato la tua istruzione. Ti hanno dato tanto».
«Non si tratta solo di questo, che tu ci creda o no. Hanno fatto molto per me, e non lo do per scontato, davvero. Ma non la vediamo allo stesso modo su quello che conta davvero nella vita. Perciò mi riesce molto difficile passare del tempo con loro senza litigare».
Posò la testa sulla mano e continuò a guardare fuori. «Non potrò mai saperlo, immagino».
«Cosa ti fa pensare che voglia dipendere da loro più di quanto succedeva quando stavamo insieme? La pressione perché facessi esattamente quello che facevano loro, ma di più e meglio, era troppa già allora. E non sono cambiati molto: mio padre non scende a compromessi, e mia madre è ossessionata da quello che la gente pensa di lei. Per me non c’è molto spazio di manovra in quel mondo».
Maya era stata una delle poche persone che ai tempi avevano davvero capito la mia situazione. Era stata lei a convincermi che avrei potuto farcela anche se i miei piani erano così in contrasto con il futuro che i miei genitori volevano per me. L’aveva dimenticato?
«Almeno tu ce l’hai un mondo. Per te sarebbe stato facile subentrare e aiutare tuo padre».
«Certo, ma non era quello che volevo».
«Forse sono solo amareggiata. Non tutti riusciamo a fare quello che vogliamo».
Le presi la mano. «Tu puoi. Cosa vorresti?».
Fece spallucce. «Sono troppo occupata anche solo per pensare a cosa vorrei davvero. Senza contare che devo mantenermi».
«Non puoi mantenerti facendo qualcosa che non ti faccia sentire infelice?»
«Non lo so, Cam. È un po’ tardi per sognare».
«Perché? Non puoi permetterti di essere felice?».
Restò in silenzio per un po’. Quando si girò verso di me, i suoi occhi erano pensierosi e seri. «Tu sei felice?».
Tornai a concentrarmi sulla strada, non sapendo bene come rispondere a quella domanda. Le strinsi la mano, sperando capisse che la mia felicità iniziava a dipendere dalla sua. Per avere la possibilità di essere felice, avremmo prima dovuto sistemare le cose tra noi.
Mentre cercavo le parole giuste, lei indicò un cartello in parte nascosto dalla neve su cui c’era scritto LAUREL ESTATES.
«Siamo arrivati».