Capitolo ventidue
Maya
Mi alzai presto e con uno scopo. L’alba era un misto indistinto di rosa e grigio. La neve intatta ricopriva gli alberi. Scattai mentalmente una foto, consapevole che quella bellezza silenziosa non sarebbe durata.
Mi trascinai per l’appartamento, facendo il caffè e il pane tostato per la colazione. Il mio corpo si era abituato ad alzarsi presto e, grazie a una forza di volontà miracolosa, non avevo sbornie da smaltire. Ora che il mio mondo era effettivamente sottosopra, ero fortemente determinata a non incasinarlo ulteriormente.
Mi sedetti e davanti a me erano aperti i due quaderni: il regalo di Cameron e il mio, quello che aveva sbirciato di nascosto. Mi chiedevo ancora quanto ne avesse letto, ma scacciai il pensiero. Non era importante. Quel giorno non doveva avere niente a che fare con il senso di colpa, il passato o le situazioni tristi che erano fuori dal mio controllo. Ero determinata a iniziare il lento e opprimente processo di ricostruzione della mia vita, il che significava affrontare il mio passato come non avevo mai fatto davvero.
Con tutto l’idealismo di un’ottimista che scrive i suoi propositi per l’anno nuovo, decisi che quel giorno sarebbe stato l’inizio per una nuova me stessa. Sapevo bene che non ero ancora quella persona e che avrei dovuto faticare per trovarla. Ero grata ed estremamente sollevata che Cameron avesse accettato la mia indecisione, la sera prima. Avevo davvero bisogno di tempo, e il tempo era l’unica cosa che mi avrebbe messa nelle condizioni di dargli la risposta che voleva, quella che volevo dargli con tutta me stessa. Non avevo idea di quando sarebbe successo, speravo solo che mi avrebbe aspettata.
Nel corso della mattinata riempii il nuovo quaderno con le copie degli scarabocchi che avevano ingombrato il quaderno a spirale. I pensieri erano chiari. Invece di vergognarmi delle parole – che Cameron le avesse lette o no – avevo dato loro un posto in cui vivere e, speravo, riposare.
Il quaderno aveva rappresentato anni di momenti passeggeri, il forte turbinio di emozioni che provavo per Cameron, per mia madre, per il lavoro e per il futuro. Fino a poco tempo prima, avevo sfrecciato in quel dolore senza curarmi della mia salute e senza rispettare la mia vita e le persone che ne facevano parte. Non avevo più intenzione di continuare così.
Finii, buttai via il vecchio quaderno e posai quello nuovo con la copertina di pelle sulla mensola accanto ai libri e alle mie foto preferite. Avevo passato la mattina a rivivere ogni emozione in ogni parola, ed ero pronta a vivere il futuro.
Passai i pomeriggi della settimana successiva al bar, scrivendo di più, riflettendo, cercando offerte di lavoro. Sognando. Andavo a piedi ovunque. Passeggiate tranquille, al freddo, che mi portavano in posti della città che non mi ero mai disturbata a visitare. Tutto era possibile, dovevo solo scegliere che strada prendere.
Dermott mandò finalmente il contratto con le più belle raccomandazioni che avessi mai letto, il che mi diede parecchia soddisfazione. Firmai, più grata che mai per il fatto che non sarei più entrata in quell’ufficio. Non escludevo la possibilità di incontrarli, in futuro, ma speravo sarebbe passato abbastanza tempo perché il mio risentimento si affievolisse.
Eli usciva con il nuovo ragazzo quasi tutte le sere, mentre io passavo il tempo a leggere e a dormire. Sentivo Cameron una volta al giorno, e ogni tanto andavo in palestra ad aiutarlo con le scartoffie. La sua mancanza di organizzazione era sconcertante, e avere il compito di gestire il tutto fu inaspettatamente appagante. Mi stavo godendo il licenziamento, ma avevo disperatamente bisogno di un lavoro, quello era chiaro.
Con enorme sorpresa di Cameron, facevo attività fisica per scelta. Mi dedicavo allo yoga e fingevo che non fosse Raina l’insegnante. Nell’ulteriore tentativo di mantenere l’equilibrio, mi ripetevo che la mia recente assenza non le stava fornendo l’occasione per farsi di nuovo avanti con Cameron.
Ci stavamo prendendo del tempo, ma i miei sentimenti per lui non si erano raffreddati. Gli leggevo quella domanda negli occhi. Mi aveva invitata a cena, ma avevo rifiutato il più gentilmente possibile. Non volevo nient’altro che passare del tempo con lui, ma la sua presenza non mi permetteva di pensare lucidamente, era come una droga. Almeno per il momento, mi aggrappavo alla chiarezza che quella pausa mi stava dando, determinata a trovare e consolidare la persona che dovevo essere prima di correre tra le sue braccia.
Cameron
Olivia portò l’ultimo piatto in tavola. Darren iniziò a mangiare senza fare complimenti, continuando a riempirsi il piatto di pasta come se non vedesse del cibo da secoli. Olivia sorrise.
«Sembra ottima, Liv, grazie».
«Figurati. È da un po’ che non facciamo una cena in famiglia». Il suo sorriso scomparve un attimo dopo e mi lanciò uno sguardo. «Voglio dire…».
«Va tutto bene. D’altronde questa è quella che considero una cena in famiglia».
Per i minuti successivi mangiammo in un silenzio imbarazzante. Pensai alla serata con i nostri genitori, cercando di capire a chi dare la colpa per com’era andata a finire. All’inizio me l’ero presa con Olivia per averli fatti preoccupare, incoraggiando di conseguenza una seconda visita che non era assolutamente necessaria, almeno secondo me. Avevo anche preso in considerazione l’idea di incolpare Darren per non essere stato presente, ma il suo fascino non avrebbe fermato nostra madre dal dire quello che aveva detto.
Avevo incolpato il capo di Maya per averle rovinato la giornata e probabilmente la carriera, spingendola al limite emotivo. Negli ultimi giorni, stavo valutando seriamente di fare una visitina a quello stronzo e riempirlo di botte, come avrei dovuto fare la sera in cui aveva fatto quella proposta a Maya. Ma se lei l’avesse saputo, non avrei di sicuro guadagnato punti.
A parte il dramma del suo lavoro, ce l’avevo con me stesso per aver fatto l’errore di portarla a quella cena e per aver tirato fuori l’argomento matrimonio troppo in fretta, quando non era palesemente pronta. Ero stato egoista, la volevo legare a me. Tutto quello che volevo era semplicemente stare con lei. Potevo puntare il dito quanto volevo, ma alla fin fine la colpa era solo mia. Matrimonio o no, volevo solo averla al mio fianco, mi rifiutavo di accettare che avrei potuto perderla di nuovo. Avevo anche accarezzato l’idea di restituire l’anello, come se quel simbolico passo indietro potesse annullare la separazione. Se solo fosse stato così semplice.
Gli eventi di quella sera l’avevano allontanata da me. Non per sempre, ma abbastanza da farmi pentire di quella distanza tra noi. Soffrivo. Dormivo male, sempre se riuscivo a chiudere occhio. Al lavoro me ne stavo sulle mie, ed era il motivo per cui Olivia aveva organizzato quella cena. Un’offerta di pace, forse. Lei era stata la più colpita dal mio malumore. Eravamo una squadra, anche se piccola, ma dovevamo essere forti gli uni per gli altri.
«Come va al lavoro, Darren?», chiese.
«Bene. È il periodo degli incendi. Un sacco di persone cercano di riscaldare casa con i fornetti. Sono giornate interessanti».
«Qualche nuova iscritta?».
Incurvò le labbra. «No».
Inarcai un sopracciglio. «E la bionda? Ti sta sempre addosso. Conquista facile, giusto? Non è quello che dici sempre?».
Si mordicchiò il labbro inferiore e scostò lo sguardo. «Non lo so, non è il mio tipo».
Scoppiai a ridere. «Scherzi, vero?».
Ghignò, incrociando finalmente il mio sguardo. «Vaffanculo. Che succede con Maya, comunque? Odio dover evidenziare l’ovvio, ma ultimamente è impossibile starti vicino. È finita tra voi due o cosa?».
Quando la nominò, gli rivolsi un’occhiataccia. Avevo messo bene in chiaro che non volevo parlarne. Olivia fissava il suo piatto, giocherellando con il cibo, le labbra serrate.
«Ci stiamo prendendo un po’ di tempo, tutto qui».
«Ma viene ancora in palestra. Ti sta bene?»
«Sì. Ho vissuto senza di lei per cinque anni, qualche settimana o qualche mese non cambiano niente. Ormai sono diventato bravissimo». Contrassi la mascella. In quel momento, da qualche parte nella mia testa, desideravo avere un posto lontano in cui poter andare. Era un pensiero cupo, voler essere in un luogo che mi teneva sveglio la notte. Qualsiasi cosa per liberarmi da quell’agonia.
Quando andava in palestra, dovevo trattenermi per non stringerla tra le braccia e baciarla fino a toglierle il respiro; invece mi allontanavo un po’ di più ogni volta che la vedevo. Meno interagivamo, più sembrava semplice. Doverla vedere e non poterla toccare o dirle cosa provavo era una lenta tortura. Aveva chiesto un po’ di spazio e io l’avevo già messa abbastanza sotto pressione. Non aveva detto di no, e per quanto odiassi l’idea di darle tempo – tempo in cui eravamo inutilmente separati – il pensiero che fosse finita non mi lasciava un attimo.
Per quanto potesse sembrare impossibile, avrei cercato con tutto me stesso di darle il tempo che le serviva, ma non sapevo per quanto sarei sopravvissuto.
Darren bevve un sorso di birra. «E tu, Liv? Nessuno che abbia attirato la tua attenzione, ultimamente?».
Scrollò le spalle. «Non lo so. In una città così grande, avrei già dovuto frequentare qualcuno».
«In palestra ci sono tanti ragazzi muscolosi», le disse Darren sorridendo.
«Certo». Alzò gli occhi al cielo. «Perché voi due non attacchereste con la solita routine da fratelli protettivi nel momento in cui qualcuno mi invitasse a uscire, vero?»
«Ehi, i fratelli maggiori servono a questo». Darren si sporse e le arruffò i capelli.
Lei lo scacciò senza riuscire a nascondere un sorriso.
Finimmo di mangiare e Olivia si alzò per sparecchiare, ma Darren la fermò.
«Lascia, Liv. Hai cucinato, sparecchio io».
Tornò a sedersi e iniziò a giocherellare con il tovagliolo, mentre Darren sparì in cucina con i piatti sporchi. Il silenzio era pesante. Ci eravamo a malapena parlati dopo san Silvestro, e più tempo passava, più era difficile allentare la tensione che c’era tra noi.
«Mi dispiace, Cameron. Una parte di me sente che è tutta colpa mia».
Resistetti all’impulso di dirle che aveva ragione. Volevo che provasse un frammento della devastazione che provavo io, ma il dispiacere nei suoi occhi placò quell’impulso. Al posto della testa calda che si era occupata dei più piccoli dettagli della mia vita negli ultimi mesi, riuscivo a vedere solo la mia sorellina. La conoscevo abbastanza da sapere che era dispiaciuta davvero.
«Acqua passata, va bene? Lasciamoci tutto alle spalle. Ma devi promettermi che non mi combinerai mai più una cazzata del genere, d’accordo?».
Rilassò le spalle per il sollievo. «Grazie. Presto parlerò anche con Maya, magari quando tra voi due le cose si saranno sistemate. Ma le devo delle scuse, me ne rendo conto. Sono stata una stronza. So che non è una giustificazione, ma spero tu capisca che volevo solo proteggerti».
«Lo capisco, anch’io voglio proteggerti, è qualcosa che non cambierà mai. Spero solo che non farò scappare a gambe levate la tua ragione di vita».
Il dispiacere tornò, e in un attimo gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso.
Le presi la mano e la strinsi lievemente. «Ma ora basta con questi discorsi seri. Ti va di guardare un film?».
Si illuminò. «Certo».
«Scegli tu. Ma niente commedie romantiche».
Rise e si alzò. «Ovvio. Non ci tengo a vedere voi due uomini duri piagnucolare».