Capitolo otto
Maya
Fissai lo schermo che avevo davanti con aria assente. I numeri e le lettere erano confusi. Riuscivo a pensare solo alla bocca di Cameron su di me, al suo corpo premuto contro il mio. L’attrazione tra noi era palpabile. L’avevo allontanato giusto in tempo: un altro secondo contro quel muro e la mia forza di volontà già debole si sarebbe spezzata come un ramoscello. Se non avessi interrotto quel momento, avremmo passato la notte nel mio letto, e non accoccolati sul divano a guardare TV spazzatura finché non ci si erano chiusi gli occhi.
Se Cameron fosse stato un altro, sarei andata a letto con lui senza pensarci due volte. Quando si trattava di uomini ero impulsiva, eppure sempre cauta. Ero stata così per anni, senza mai dire di no a un vizio o a un piacere che poteva portarmi da un momento difficile a un altro. Cameron stava diventando sia un vizio sia un piacere, di quelli più pericolosi.
Lo desideravo, e lui desiderava me, ma mentre salivamo le scale per arrivare all’appartamento una vocina giudiziosa mi aveva ricordato che c’era in ballo molto di più – il mio cuore, lo stesso che aveva distrutto quando mi aveva lasciata la prima volta. La stessa distruzione di cui avevo scritto in quelle pagine che speravo davvero non avesse letto. L’idea che lui potesse osservare il mio mondo di parole era molto peggiore che sentire le opinioni da ubriaco di Eli.
Chiusi gli occhi, cercando invano di placare quel fiume di emozioni. Stare con Cameron era come ballare un lento, e ogni volta che ci incontravamo ci avvicinavamo un po’. Ci toccavamo di più, ridevamo di più. Per quanto lo volessi, non riuscivo a resistere al modo in cui mi faceva sentire da un momento all’altro, che variava dall’irritazione incontenibile al desiderio bruciante che pulsava dentro di me in quel momento. Dio, cos’avrei fatto per essere tra le sue braccia. Presto mi sarei trovata premuta contro di lui, supplicandolo per avere di più, facendo tacere la voce della ragione e molto probabilmente lanciandomi a tutta velocità verso l’inevitabile sofferenza.
Dentro di me gemetti e incrociai le gambe, dolorosamente consapevole di quanto lo desiderassi. A dispetto di quello che diceva la ragione, il mio corpo se lo ricordava bene. Andavo a fuoco al solo pensiero del suo tocco. A meno che uno di noi non avesse avuto il buonsenso di fermare tutto questo, non era più questione di stabilire se saremmo andati a letto insieme, ma quando lo avremmo fatto.
Sobbalzai allo squillare del telefono sulla mia scrivania. Risposi e la voce prevedibilmente secca del mio capo vibrò nella cornetta.
«Maya, vieni nel mio ufficio, per favore».
«Certo, arrivo subito».
Feci un respiro profondo e iniziai a chiedermi cosa volesse. Kevin Dermott raramente aveva qualcosa di gentile da dirmi. Da quand’ero entrata in azienda, mi aveva parlato solo per rimarcare un difetto o sottolineare cosa si aspettava che facessi. Non era tipo da incoraggiamenti.
Entrai nel suo ufficio. Stava leggendo con attenzione dei documenti alla sua scrivania, ma mi fece cenno di sedermi in una delle sedie. Dermott aveva circa quarantacinque anni e un aspetto curato, con i capelli color biondo scuro e un completo grigio che faceva risaltare le striature grigie dei suoi occhi. Era un bell’uomo, e l’avrei considerata una qualità se non fosse stato uno stronzo per la maggior parte del tempo. Portava un semplice anello in platino sull’anulare della mano sinistra, il che mi ricordava che non ero l’unica donna a doverlo sopportare.
«Sei tornata tardi dal pranzo», disse.
«Sì, be’…».
«Mi aspetto quei bilanci per oggi, come avevamo stabilito».
«Glieli farò avere entro un’ora. Ho quasi finito».
«Bene».
Non importava che avessi lavorato per quasi tutta la mia pausa. Avevo deciso di non perdere tempo a difendermi: era dell’umore giusto per condannarmi, quindi non volevo rovinargli il momento. Rimasi invece seduta ad aspettare pazientemente che continuasse a parlare.
«La prossima settimana ci sarà la festa aziendale, immagino parteciperai».
«Sì, certo». Avevo intenzione di andare semplicemente per dovere. Socializzare da sobria con persone con cui avevo la sfortuna di lavorare ogni giorno non era proprio la mia idea di divertimento. Se avessi bevuto, avrei finito per raccontare a ognuno di loro cosa pensavo veramente, com’ero incline a fare ogni sabato sera.
«Ci saranno anche i dirigenti dell’azienda. C’è un progetto per cui abbiamo bisogno di persone in più, e potrebbero voler conoscere la gente che verrà coinvolta».
«Mi sta dicendo che vuole che io ne sia parte?».
Si appoggiò allo schienale della poltrona e mi fissò. «Nonostante il tuo atteggiamento, sì. Sei una dei migliori che ho. Per te sarebbe un’ottima opportunità, sempre se non hai altri piani per le vacanze. Potrebbe accavallarsi con il Natale».
«Non ne ho, a dire il vero». Quasi sospirai di sollievo all’idea di poter lavorare per le vacanze, in modo da non pensare al fatto che le persone intorno a me avrebbero festeggiato. Eli e Vanessa avevano le loro famiglie, e ogni anno rifiutavo i loro inviti. Imbucarmi così mi sembrava ancora più deprimente che passare quei giorni da sola.
«Ottima scelta. Considerati della squadra. Inizieremo oggi con i documenti, quindi aspettati di restare fino a tardi».
Forse perché l’offerta di Dermott conteneva un’offesa più o meno velata, non riuscii a festeggiare. Mi stava dando un’occasione, mi aveva scelta dalla mandria dei box per aiutare in un progetto che avrebbe potuto mettermi in mostra. Mi ricordai del consiglio di Jia. Avrei dovuto approfittarne, giocare la partita.
«Nessun problema. Mi faccia sapere cosa le serve».
Un mezzo sorriso gli alterò i lineamenti. Resistetti all’impulso di mandarlo a cagare, e invece gli restituii un sorriso educato.
«Lo farò. E mi aspetto quei bilanci a breve». Si raddrizzò e tornò a concentrare l’attenzione sulle sue scartoffie, scrivendo a penna sui documenti.
Uscii e quasi mi scontrai con Jia.
«Ehi, stavi parlando con Kevin?»
«Sì».
«Ti ha parlato dell’affare Cauldwell?»
«Non ha detto il nome, ma immagino sia quello».
«E hai accettato?»
«Certo».
«Ottimo».
Lo scintillio nei suoi occhi mi portò a chiedermi se c’era lei dietro alla proposta.
«Ci lavorerò anch’io. Sarà fantastico lavorare con qualcuno che mi sta simpatico. A proposito, che fai nel fine settimana?»
«Non lo so ancora», mentii. Il nostro rapporto stava progredendo velocemente; le avevo già raccontato di Cameron e di quanto odiassi il mio lavoro. Non ero sicura di volerle dire anche dei miei fine settimana selvaggi. Sembrava andare contro i progressi professionali che avevo appena fatto.
«Probabilmente andrò a bere con degli amici, sabato sera. Possiamo incontrarci», disse.
«Certo».
«Perfetto. Mandami il tuo numero via mail, ti scrivo poi i dettagli».
Accettai e tornai alla mia scrivania, cercando inutilmente di dare un senso a quel nuovo sviluppo lavorativo. Prima l’inspiegabile desiderio di Jia di diventare… amiche? E poi questa nuova opportunità su un progetto importante. Se non altro mi avrebbe distratta da Cameron, che aveva popolato abbondantemente i miei pensieri per tutta la settimana.
Alex arrivò in pochi minuti per torchiarmi sulla riunione con Dermott, e sembrò sconvolto che fossi stata scelta per un incarico di responsabilità del genere. Quando se ne andò, tornai a occuparmi di ciò a cui stavo lavorando. Sorrisi sentendo una nuova energia dentro di me. Odiavo farmi illusioni, ma forse tra il lavoro, Cameron e questa mia nuova svolta salutista, stavo mettendo ordine nella mia vita dopo aver vissuto passivamente per anni.
Mandai un messaggio a Cameron dicendogli che quella sera avrei saltato l’allenamento. Avvertii una fitta di dispiacere all’idea di non vederlo, ma probabilmente quella pausa mi avrebbe fatto bene. Le cose si erano scaldate troppo la sera prima, e mi serviva del tempo per capire come gestire tutta quella tensione tra noi.
La sera dopo Dermott ci fece uscire presto, semplicemente perché aveva impegni per quel venerdì.
Mi affacciai al piccolo ufficio sul retro della palestra. Ero vestita, piena di energie e stranamente impaziente di iniziare la sessione di tortura. Non vedevo Cameron da circa quarantotto ore e non c’era traccia di lui.
«Dov’è Cameron?».
Darren alzò lo sguardo dallo schermo del computer. La scrivania era sommersa da pile di documenti. «Doveva occuparsi di una cosa a casa. Ha detto che avrei potuto lavorare io con te, stasera».
«E perché non mi ha chiamata?»
«Forse ha pensato che avresti saltato l’allenamento».
Alzai gli occhi al cielo. «Che stronzo».
Rise. «Potrebbe tornare prima che finiamo e glielo dirai tu stessa».
«Non devi farmi da baby-sitter. Credo di essere in grado di fare da sola gli esercizi, per oggi. Grazie, comunque».
Feci per andare via ma mi fermò. «Ehi, che programmi hai per il fine settimana? Cam ha detto che sareste usciti».
«Ah», esitai. «Sì».
Continuò a fissarmi, evidentemente aspettando altri dettagli.
«Di solito andiamo al Muse. Possiamo vederci con voi per bere qualcosa qui davanti, prima di andare via».
«Vuoi che ti veniamo a prendere?»
«No, mi organizzo con Eli e Vanessa. Probabilmente saremo lì per le dieci».
«Chi è Vanessa?». Inarcò un sopracciglio, il che mi preoccupò immediatamente.
«Un’amica. La conoscerai».
Annuì e tornò al suo lavoro. «Bene. Ci vediamo tra poco, devo finire questa scheda».
Andai in sala pesi. Posai le mani sui fianchi, provando un nuovo senso di autoaffermazione: era il quinto giorno e, nonostante fossi dolorante, mi sentivo una professionista. O almeno così mi dissi. Chi aveva bisogno del personal trainer?
Mi lodai mentalmente per aver aumentato i carichi: sollevavo i manubri da sette chili ed ero fiera di me perché riuscivo a tirarli su senza fatica. Un piccolo trionfo. Vidi nello specchio il riflesso di Raina che si stava avvicinando. Era vestita per una delle sue lezioni di yoga.
«Ciao, Maya. Come va?»
«Benissimo, tu?»
«Sono stata impegnata. Ti dispiace se mi unisco a te?»
«Certo che no, prego». La mia autostima incassò il colpo quando prese un peso maggiore del mio e iniziò a fare gli esercizi.
«Darren mi ha detto che sei l’ex di Cameron, giusto?».
Posai i pesi per una piccola pausa. «Sì, qualcosa del genere». Odiavo essere definita “l’ex di Cameron”. Sembrava troppo negativo, e stavamo cercando di ritrovare qualcosa di positivo – un’amicizia o forse, come il mio corpo decisamente voleva, qualcosa di più.
«È strano».
«Perché?»
«Non ha mai parlato di te».
Che cavolo vorrebbe dire?
Presi di nuovo i pesi, sperando di mascherare l’irritazione. Finsi di ignorarla, ma seguii i suoi movimenti per il resto dell’allenamento, odiando il suo fisico incredibilmente tonico ogni minuto che passava.
Lei e Cameron sarebbero stati la coppia perfetta sulla copertina di una qualche rivista di fitness. A quel pensiero, le mie energie diminuirono.
Perché aveva deciso di dirmi una cosa del genere? Forse lei e Cameron avevano avuto una storia. Non mi era sembrato il tipo da avere relazioni con chiunque, ma forse lei non era “chiunque”.
Prima che i miei pensieri diventassero incontrollabili, arrivò Darren.
«Scusami».
«Nessun problema. Io e Raina stavamo facendo due chiacchiere», dissi con una punta di sarcasmo. Mi stavo davvero atteggiando con la loro insegnante di yoga?
«Vuoi fare qualche esercizio per le spalle?»
«Certo». Non mi importava, bastava solo che mi facesse finire la sessione e mi allontanasse da Raina.
«Allora, come stanno le cose con lei?», dissi, cercando di usare un tono di voce fermo.
«Cosa vuoi dire?»
«C’è qualcosa fra lei e Cameron?».
Scoppiò a ridere. «No, proprio no. Con grande dispiacere di Raina».
Nonostante il sorrisetto contagioso di Darren, la fitta di gelosia di poco prima tornò a farsi sentire. Mi guardai intorno, cercando la sua sagoma nella folla. Perché? Così avrei potuto guardarla male? Cristo santo, Maya, datti una calmata.
Incapace di ritrovarla, finii l’ultima ripetizione con determinazione metodica.
«Tutto a posto?». Darren si accigliò.
«Sì, sto bene», mormorai.
«Non c’è niente tra loro, te lo assicuro».
Riuscii a sorridergli. «Grazie, ma non sono affari miei. Non so neanche perché l’ho chiesto».
Ma chi volevo prendere in giro? Di sicuro non Darren, re della manipolazione femminile. Avevo chiesto semplicemente perché dovevo saperlo. In quel momento, nient’altro era importante come scoprire se quei due avessero dei trascorsi.
Andai nello spogliatoio e mi vestii velocemente. Il pensiero che Raina continuasse a insistere con Cameron nonostante lui non fosse interessato mi faceva incazzare. E il fatto che cercasse di seminare zizzania tra noi per poterlo avvicinare mi faceva incazzare ancora di più.
Cinque giorni con lui e stavo già marcando il territorio… Incredibile.
Cameron entrò mentre stavo per scappare via. Merda.
«Ehi, speravo di riuscire a beccarti prima che te ne andassi». Sorrideva, i suoi occhi brillavano.
«Be’, mi hai beccata».
Avrei voluto illuminarmi anch’io, ma ero troppo incazzata e avevo troppe cose in testa per fingermi allegra.
«Scusami, sono stato trattenuto. Avevo gli operai a casa e sono dovuto restare fino a tardi».
«Non c’è problema».
Raina ci passò vicino, sorridendogli dolcemente prima di incrociare il mio sguardo.
«Ciao», disse lui facendole un cenno.
«Ciao, tesoro».
Quelle due parole uscite dalla bocca di Raina mi fecero serrare la mascella. Mi rimproverai mentalmente perché mi importava. Non avrebbe dovuto. Per niente. Superai Cameron e mi diressi verso l’uscita.
«Ehi, dove scappi?». Mi prese la mano.
«Vado via. Sono abbastanza sicura che questa sia la fine della settimana di torture. Era quello il patto, no?».
Aggrottò le sopracciglia. «Va tutto bene?»
«Sì, sono solo stanca. È stata una settimana faticosa». Mentre lo dicevo mi sentii debole. Cameron aveva ragione a dire che l’allenamento mi avrebbe dato più energie, ma in quel momento mi sentivo sfinita.
Ogni minuto che passava, ero sempre più esausta emotivamente.
«Be’, è venerdì. Puoi rilassarti».
«Infatti, è quello che farò. Ho un appuntamento con un bel bicchiere di vino, direi che me lo sono meritato». L’appuntamento ce l’avevo con la bottiglia intera, ma immaginai fosse meglio omettere quel dettaglio.
Il suo sguardo si fece serio. «Maya», sussurrò, azzerando la distanza tra noi e sfiorandomi la guancia. «Che succede? Sembri turbata».
Mi rilassai a quel contatto. Volevo essere tra le sue braccia, come una volta, come se fossi già sua. Perché lo desideravo così tanto? Perché non riuscivo a tenerlo a distanza come tutti gli altri?
«Ti porto fuori. Posso farmi sostituire da Darren».
«No, sto bene», insistetti. «Devo andare. Ci vediamo domani sera, ho dato a Darren i dettagli».
Inarcò un sopracciglio. Gli sorrisi, sperando mi lasciasse stare. Quel giorno mi ero schiarita un po’ le idee, ma ora ero di nuovo confusa come l’ultima volta che eravamo stati insieme.
Mi mollò e io uscii. Avevo bisogno d’aria. Avevo bisogno di bere. La settimana era stata tranquilla, ma la presenza di Cameron mi aveva messa KO, più del solito.
La verità era che in fondo volevo Cameron solo per me. Nonostante non mi fossi sbilanciata, volevo quel “qualcosa di più” di cui avevamo parlato. Ma la persona che ero stata molto tempo fa non c’era più. Essere attratta da lui era una cosa, ma volermi assicurare quel posto speciale nel suo mondo era un’altra. Il modo in cui avevo reagito dopo la breve conversazione con Raina dimostrava quanto fossi presa da lui.
Cameron
«Che cazzo le hai detto?».
Sbattei la porta alle nostre spalle e Darren spalancò gli occhi.
«Di cosa cavolo parli?»
«Maya. Cosa le hai detto?»
«Non lo so. Abbiamo allenato le spalle».
Lo presi per la maglietta e lo sbattei contro il muro.
«Dimmelo», ringhiai, l’adrenalina alle stelle.
Mi spinse via, la confusione sostituita da una rabbia pari alla mia. «Cristo santo, Cam, datti una calmata».
«Stava da schifo quand’è corsa via da qui. Devi averle detto qualcosa».
«Cazzo». Scosse la testa e si massaggiò la fronte. «Raina».
«Che c’entra Raina?». Inarcai le sopracciglia e feci un passo indietro. Non ero ancora sicuro di aver finito con lui.
«Maya mi ha chiesto se tra voi c’era qualcosa. Le ho assicurato di no, ma Raina ha una cotta per te. Mi è sembrata arrabbiata per un secondo, ma poi più niente. È stato come se si fosse chiusa in se stessa. Abbiamo finito l’allenamento e mi ha detto a malapena tre parole».
«Cazzo».
Conoscevo bene la capacità di Maya di chiudersi a riccio per impedire agli altri di capire a cosa stesse pensando davvero. Mi sforzai di capire cos’avesse potuto sconvolgerla tanto. Mi allontanai e camminai avanti e indietro davanti alla scrivania.
«Con la tua reputazione, avrà pensato che le stessi dicendo cazzate per coprirmi».
«La mia reputazione?», ripeté con una smorfia, in tono di sfida.
Mi voltai verso di lui. «Siamo fratelli, migliori amici e lavoriamo insieme. Non mi ha visto per cinque anni e non credo abbia mai visto te senza una donna attaccata addosso o viceversa. Immaginerà che sono come te e che lei è solo l’ennesima conquista».
«E non lo è? Non le hai messo le mani addosso tutte le volte che è venuta qui? Non sono cieco, che cazzo. Cos’è che ti renderebbe tanto gentiluomo?»
«Io e te non siamo uguali», dissi a denti stretti, anche se la rabbia contro di lui si stava placando.
«No? Perché io non voglio sistemarmi e figliare con la prima ragazza che dopo una notte selvaggia ha gli occhi a cuoricino?».
Riprendemmo fiato entrambi, tra noi c’era un silenzio teso. Non era il momento, né il luogo, di dare addosso a Darren per le sue abitudini con le donne. Avevo cose più importanti di cui occuparmi. Qualcos’altro – qualcun altro – aveva provocato quella freddezza in Maya.
«Scusa, tu non c’entri», dissi infine, anche se pronunciare quelle parole mi bruciava.
«Scuse accettate». Si raddrizzò e i suoi lineamenti si rilassarono. «Che tu ci creda o no, voglio che le cose tra voi funzionino, Cam. Non vi renderei le cose difficili di proposito, spero tu lo sappia».
Annuii. «Certo. Lei è… Cazzo, non lo so. Con lei le cose cambiano in un attimo. Ogni volta in cui mi sembra che ci stiamo avvicinando a quello che eravamo, succede qualcosa e la sento allontanarsi. E non posso impedirlo, perché la farei andare via. Sto impazzendo».
«Sì, lo vedo», rise. «Non sei ancora andato a letto con lei, vero?».
Scossi la testa.
«Pensi che manderesti tutto a puttane se te la facessi?»
«Sì, la cosa mi preoccupa. Non voglio affrettare le cose per evitare che se ne penta e dia di matto». Avrei voluto, ma lei era fin troppo cauta. Le conseguenze dell’andare a letto insieme troppo presto potevano essere abbastanza gravi da allontanarla per sempre. L’altra sera ne era stata una prova.
«Lo so che secondo te io non capisco niente di donne, ma Maya mi dà l’impressione di essere una che sa cosa vuole. Pensi che lei lo voglia?»
«Non lo penso, lo so». Non c’era bisogno che me lo dicesse direttamente. I piccoli gesti, alcune reazioni impercettibili e altre decisamente più evidenti del suo corpo me l’avevano già fatto capire. Avrei potuto sfruttarle e averla, ma mi ero trattenuto.
«E allora che cavolo stai aspettando? Le stai solo dando più tempo per pensare a qualche scusa per rifiutarti, come temi possa fare».
«Se avessi voluto solo portarmela a letto, l’avrei già fatto. Forse si merita del tempo per decidere se lo vuole o no. Cinque anni fa l’ho lasciata senza dire una parola e non mi sono mai guardato indietro. Sicuramente dubita che questa sia una buona idea. Sono dubbi che ho anch’io».
«Evidentemente non ne ha abbastanza da stare lontana».
«Anche questo è vero».
Darren scosse la testa. «Se ci tieni così tanto, dovresti solo stare con lei e vedere che succede».
Sospirai, iniziando a sentirmi stanco come mi era sembrata Maya quando se n’era andata poco prima. Avrei voluto presentarmi al suo appartamento e chiarire la questione, ma forse avevamo entrambi bisogno di una notte per pensare e dare un senso a tutto quanto.
«Vado a casa. Puoi sostituirmi?»
«Certo. Ci vediamo domani mattina».
Feci il tragitto a piedi, sicuro come non mai di desiderare Maya. Non c’erano dubbi. E lei desiderava me, niente avrebbe potuto convincermi del contrario. Mentre tornavo a casa, per passare quella che sarebbe stata un’altra notte insonne, decisi che qualsiasi cosa fosse cambiata nelle nostre vite non avrebbe impedito a quello che avevamo di funzionare.