Capitolo quindici

Maya

 

Spogliò entrambi in pochi secondi e mi posò sul letto sotto di lui, sistemandosi tra le mie gambe. Le sue carezze erano decise, quasi calcolate, e così lente che mi sentii pervasa da un’aspettativa inebriante. Le sue labbra tracciarono un lento percorso sulla mia pelle.

Cavolo, mi faceva impazzire. Lo amavo e lo odiavo perché non mi aveva lasciato lo spazio che mi serviva per scappare. Mi aggrappai alle sue spalle, allontanandolo ma allo stesso tempo attirandolo a me.

Si mosse sopra di me, per niente scoraggiato. Pelle contro pelle, mi eccitò con la lingua, con la labbra e con i denti finché non tremai, frastornata dal modo in cui lo desideravo.

«Stupenda… perfetta».

Vidi amore nei suoi occhi mentre lo diceva. La sua voce roca mi portò alla disperazione, com’era successo prima a lui.

«E mia. Sei mia. Ogni tuo irascibile centimetro». Affondò le dita nelle mie natiche e fece sfregare i nostri bacini.

«Fermo». Lo allontanai di nuovo. Le sue parole mi stavano uccidendo.

«Non mi fermerò mai». Catturò la mia bocca, mordicchiandomi e succhiandomi il labbro inferiore. «Non me ne andrò mai».

Il pensiero di lui che andava via mi colpì. La vecchia ferita era ancora aperta. Tutte le emozioni volevano uscire fuori quando diceva quelle cose. Lo strinsi a me, intrappolandolo contro il mio corpo.

«Non voglio pensare a niente di tutto quello. Le cose che dici… non posso gestirle».

Le sue carezze rallentarono mentre parlavo. «Non posso dirti che sei stupenda? E che ti amo così tanto che fa male?».

Porca puttana. Strinsi gli occhi.

«Devi… solo volermi, Cam. Non parliamo del nostro passato o di quello che proviamo».

Si fermò. «Mi stai dicendo di stare zitto e scoparti?».

Trattenni il respiro a quel commento glaciale, e in risposta inarcai la schiena verso di lui. «Qualcosa del genere», ansimai.

Era davvero ciò che volevo? Qualcosa che avesse meno significato, così il mio cuore non sarebbe scoppiato per le cose che mi stava dicendo in quel momento? Strinsi la presa della mia gamba sul suo fianco, spronandolo a muoversi.

Il suo corpo si bloccò contro il mio. Nei suoi occhi lessi esitazione e desiderio. Sì, volevo che fosse forte e intenso. Volevo essere scopata, sparire nell’abbagliante ondata dei sensi che avevo conosciuto non molto tempo prima.

«Allora ti scopo, Maya. Fino a farti svenire, se è quello che vuoi, ma devi sapere che tra noi c’è molto più di questo. Credimi, ho vissuto quella vita. Un corpo caldo è solo quello: un corpo caldo e senza amore. Tu per me non lo sarai mai».

Mi sfiorò il petto con le labbra, il cuore mi batteva all’impazzata. Esclusi tutti i suoni: il mio respiro affannoso, il mio cuore, la sua voce.

«Prenderò il tuo corpo, ma voglio il tuo cuore».

Mi si inturgidirono i capezzoli per lo sfregamento contro il suo petto sodo mentre scivolava in basso, cingendomi la vita. Mi sfiorò il seno e continuò a guardarmi, seducente. I suoi respiri caldi mi stuzzicavano la carne umida. Mi baciò il ventre, trovando il tumulto che mi stringeva lo stomaco. Il calore mi pervase e desiderai Cam ovunque – sopra di me, dentro di me – volevo che mi possedesse fino a perdermi, fino a farmi dimenticare il significato delle sue parole.

Come risposta al mio desiderio silenzioso, mi afferrò il fianco e mi piegò fino a sovrastarmi del tutto. Mi bagnai solo a pensare alla sua forza e a cosa mi avrebbe fatto.

Alzai i fianchi finché la sua erezione scivolò dentro di me. Chiusi gli occhi e serrai la mascella; la tensione stava amplificando tutti i miei sensi. «Ora, Cameron».

«Guardami».

Aprii gli occhi sentendo il suo tono autoritario. Prima che riuscissi a dire qualcosa, affondò dentro di me, così all’improvviso che emisi un gemito. Aprii la bocca, ma non uscì una sillaba. Mi prese la nuca con la mano libera e fece leva sul mio corpo in modo che, quando affondò di nuovo, lo sentii arrivare fino in fondo.

«È questo quello che vuoi?»

«Sì». Boccheggiai, facendo un respiro profondo mentre mi irrigidivo.

«Ogni mio centimetro dentro di te?»

«Oddio», ansimai. Strinsi le gambe intorno alle sue, come se in quel modo potessi controllare la sua forza. Il primo di quella che sarebbe stata sicuramente una serie di orgasmi iniziò a farsi strada; la brace lenta del desiderio era diventata una fiamma ardente che mi pervase mentre lui si muoveva forte dentro di me.

«Ti scoperò così finché non mi supplicherai di smettere. Ti farò urlare, e domani sentirai il mio ricordo dentro di te. È questo quello che vuoi?»

«Sì… sì…». Il tremolio leggero si trasformò in un fremito violento alle parole che aveva pronunciato con quelle labbra stupende. La mia reazione fisica fu una risposta più che sufficiente. Continuai a fissarlo, ma feci fatica a mantenere il contatto visivo quando trovò un ritmo intenso che abbatté la mia capacità di pensare.

Mi baciò con trasporto, la dolcezza venne sostituita dalla passione cieca. Gli tirai i capelli, inarcandomi a tempo delle sue spinte.

«Questo sono io, Maya. Io che ti scopo, che ti amo».

Mi sollevò i fianchi di qualche centimetro dal letto e vidi la stanza girare. Gridai, affondandogli le unghie nel braccio, incapace di controllare l’orgasmo che si stava diffondendo nel mio cuore, nell’anima e nella mente. I nostri corpi si fusero, la mia intimità si contrasse intorno alla sua. Mi aggrappai al suo corpo, le mie mani scivolavano sulla schiena madida.

Non riuscivo a lasciarlo andare, ogni parte di me era intrecciata a lui. Andò avanti, affondando profondamente un’ultima volta con un gemito strozzato, e il mio nome gli scivolò dalle labbra. Quel suono rimbombò nella stanza e svanì come il nostro orgasmo.

Tremai sentendo il suo respiro sul collo, ancora scossa dalla passione, ma recuperando pian piano la lucidità. Era stato intenso, ma di sicuro aveva mantenuto le sue promesse.

Mi baciò delicatamente, scostandomi i capelli dal viso.

«Dimmi che mi ami, Maya».

Serrai la mascella. Quelle parole erano da qualche parte nel mio stomaco, intrappolate da tutte le emozioni confuse che provavo riguardo la nostra nuova relazione. Volevo dirglielo, ma anche nella beatitudine postorgasmo c’era qualcosa che mi tratteneva. L’orgoglio, forse. Dirlo significava perdonare tutto quello che mi aveva fatto passare, dargli davvero il mio cuore, affidarglielo completamente. In qualche modo l’avevo già fatto, ma dovevo essere in grado di trattenere qualcosa, fossero anche solo quelle due parole.

Tenne lo sguardo fisso su di me, i suoi occhi azzurri stanchi e carichi di sentimento. «Perché non riesci a dirlo?».

Mi sdraiai sul materasso e gli sfiorai la mascella ispida.

«Rispondimi».

«Non sono pronta». Non poteva essere più vero. Non ero sicura di quando lo sarei stata, ma non potevo cedere a quella richiesta.

Mi passò il pollice sulle labbra. «Che ne dici se faccio l’amore con te finché non lo sei?».

Avevo le labbra secche e vi passai sopra la lingua. Lui catturò un labbro e iniziò a morderlo e succhiarlo finché non ansimai. Mi strinsi a lui e mi baciò più profondamente, come se stesse versando dentro di me ogni goccia dell’amore che provava.

 

 

Cameron

 

Quando mi svegliai lei era già uscita per andare al lavoro. Mi rimisi il completo e andai in salotto. Eli si affacciò dalla cucina.

«Ciao», salutò con la mano.

«Scusa, stavo andando via».

«Vuoi un caffè?».

Esitai, incerto se rischiare o meno l’analisi del coinquilino. Sembrava una brava persona, ma Maya mi stava già facendo penare abbastanza. Però avevo proprio voglia e bisogno di un caffè: eravamo stati svegli quasi tutta la notte. Il mio corpo e il mio cervello erano intorpiditi, ma non abbastanza da pentirmene.

«Sì, mi serve proprio».

Appoggiai il cappotto su una sedia mentre Eli armeggiava in cucina.

Posai lo sguardo sul quaderno nero nella libreria. Mi ricordai di come Maya l’aveva preso dal tavolino, tenendoselo stretto al petto come se fosse qualcosa di prezioso. Eli mi comparve di fianco in quel momento con una tazza fumante.

«Grazie».

«Figurati. Ho immaginato che servisse a tutti un po’ d’aiuto, stamattina».

Mi grattai la fronte. «Ah, sì, scusa». L’appartamento era piccolo, e sicuramente avevamo tenuto sveglio anche lui. Ero riuscito a far dire a Maya una sfilza di porcherie, ma non le due parole che volevo sentire. Cristo, se era ostinata.

«Fa niente». Scrollò le spalle e si sedette sul divano. «Le cose stanno diventando serie?».

Spostai il cappotto e mi sedetti sulla sedia. Dalla tazza salivano nuvolette di vapore che sparivano poi nell’aria. Come potevo rispondere?

«Ci stiamo arrivando. Di sicuro lei non rende le cose semplici».

Eli sogghignò. «È una rompipalle».

«Puoi dirlo forte».

«Ma tu la ami».

«Mi piacerebbe che fosse abbastanza. È…». Sospirai. «Non ho idea di cosa cavolo le passa per la testa. Pensavo di conoscerla. Insomma, la conoscevo. Dentro e fuori. Le espressioni, i gesti… era come un libro aperto. Quella parte di lei non è sparita del tutto, ma questa sua cazzo di filosofia distorta sulle relazioni è una novità».

Eli bevve un sorso di caffè e mi guardò in silenzio.

«Ne ha passate tante».

Annuii. Eli sicuramente sapeva tutta la storia. Che cavolo, forse ne sapeva anche più di me. Chi ero per lamentarmi? Ero stato io a combinare quel casino.

«Non c’è bisogno di ricordarmelo. Le ho fatto passare l’inferno, e probabilmente mi merito tutto questo».

«Forse sì, ma forse meritate entrambi la possibilità di riprovare a stare bene insieme. Se riesci a capire come farlo senza ferirla di nuovo, hai la mia benedizione. È la mia migliore amica e con te, nonostante tutto, è felice. Ed è tutto quello che voglio: vederla felice».

«Ci sto provando. Ma lei non rende le cose semplici».

Eli si alzò e si avvicinò. Strinsi la tazza. Sperai non avesse intenzione di abbracciarmi. Si sporse e prese il quaderno dalla mensola, poi me lo porse stringendo le labbra.

«Se le dici che te l’ho dato ti darò la caccia, e non troveranno mai il tuo cadavere».

Ci guardammo in silenzio prima che lui sparisse in camera sua. Posai la tazza e riflettei su quello che avrei potuto trovare in quelle pagine. Il quaderno era leggero. La curiosità e la mera disperazione di trovare qualche indizio sui pensieri di Maya mi diedero la spinta. Aprii il quaderno con cautela, sfogliandolo. Pagine di parole, poesie, scarabocchi. Lo richiusi.

Mi alzai e camminai per la stanza. Se quello era una specie di diario, stavo per fare qualcosa di ingiustificabile. Potevo farlo? Magari una pagina e basta… Una pagina poteva dirmi qualcosa? Qualsiasi cosa della donna di cui mi stavo disperatamente rinnamorando.

Tornai a sedermi. Finii il caffè e feci trascorrere i minuti. Alla fine aprii il quaderno e iniziai a leggere.

 

 

Ogni giorno, senza lasciare nulla di intentato;

una promessa di qualcosa di più,

giorni felici e lunghe notti

d’amore e di vita,

se avessi detto sì.

 

Staccionate, visetti d’angelo,

tutti i sogni realizzati,

se avessi detto

sì.

 

Le seconde occasioni sono solo un sogno,

perché non ho potuto

dire sì.

 

Girai la pagine con le mani che mi tremavano. Ce n’erano tantissime altre. Non riuscivo a pronunciare neanche una sillaba perché il significato della poesia che avevo letto mi riempiva la testa. Cristo. Mi nascosi il viso tra le mani.

Avevo passato giorni cercando di scavare a fondo, cercando di scoprire chi fosse diventata Maya. A ogni piccolo successo un barlume di speranza mi incoraggiava ad andare avanti, e ora questo. Una cazzo di valanga di sentimenti. E non mi ero accorto di niente. Avevo passato le ultime ore a tirarle fuori i sentimenti a forza di sesso, e quel quaderno aveva le risposte. Alcune, forse quasi tutte.

Mi alzai velocemente, incapace di parlare o formulare un pensiero coerente. Come potevo, dopo aver letto una cosa del genere? Feci avanti e indietro per la stanza, desiderando che Maya fosse lì per poter sentire la verità direttamente da lei. Mi avrebbe mai detto così tanto? Volevo cercare nei suoi impenetrabili occhi castani una qualche ammissione sul significato di quella poesia, di tutte le cose che avevamo provato e che non ci eravamo detti. I sogni che avevo condiviso solo con lei, i progetti che avevamo fatto per il nostro futuro che avrei potuto realizzare con lei e nessun’altra.

Rimisi il quaderno sulla mensola, presi il cappotto e corsi giù per le scale. Una volta fuori, apprezzai l’aria fredda che mi riempiva i polmoni. Guardai in direzione di casa mia e mossi i primi passi di quella che sarebbe stata una lunga camminata nella direzione opposta.

 

 

Maya

 

Era la vigilia di Natale. La squadra si era decimata finché non eravamo rimasti solo io, Jia e Dermott. Avevamo finito per il rotto della cuffia. Per quanto le vacanze per me non avessero significato, avevo sperato di poter concludere presto. Ero esausta e volevo andare a casa da Cameron. La sera prima era stata intensa. Stancante e intensa. Non avevamo mai litigato, ma ora lo facevamo eccome. Io urlavo e lui urlava più forte. Poi mi aveva fatta stare zitta con quel tipo di passione che non avevo mai conosciuto, con quell’amore folle che ci aveva fatti stare svegli fino all’alba. Era stato implacabile, instancabile, come se stesse cercando di farmi crollare a modo suo.

Qualsiasi cosa mi stesse facendo, probabilmente aveva funzionato: non riuscivo a pensare ad altro, era come una droga da cui ero stata lontana fino a quel momento. Ce l’avevo nel sangue e, cazzo, ne avevo di nuovo bisogno.

Affondai nella poltrona nell’ufficio di Dermott, cercando di non pensare a quanto avrei preferito correre da Cameron piuttosto che prendermi un minuto per brindare al lavoro appena concluso.

«Lo scotch va bene?».

La figura snella di Jia oscillò verso l’angolo bar.

«Certo». Sospirai. Studiai la stanza, valutandone le dimensioni e l’arredamento – legno scuro, linea elegante e una vista mozzafiato. Cercai di immaginarmi lì, seduta dietro l’enorme scrivania da dirigente, o mentre osservavo New York dall’alto del nostro quarantatreesimo piano, ma non ci riuscii. Forse quella prospettiva era semplicemente troppo lontana dalla realtà che stavo vivendo. Di sicuro non coincideva con i sogni che avevo prima di arrivare lì.

Eppure era quello a cui puntavo, no? Jia mirava a quello, e mi stava portando con lei. Il rispetto e una targhetta sarebbero stati una valida ricompensa per le lunghe notti e gli anni in cui ero stata ignorata? Le fantasticherie sul mio futuro professionale furono interrotte quando Jia mi mise in mano un bicchiere. «Ecco, bevi».

«Grazie».

Era in piedi di fronte a me, appoggiata alla scrivania di Dermott, e sorseggiava il suo scotch. Sembrava più dolce, più giovane. Non sapevo come fosse possibile, perché avevamo appena finito di lavorare dopo una giornata intera. Mi sorrise mentre la esaminavo. Forse nei suoi occhi c’era un accenno di malizia, ma a quel punto molto probabilmente era una mia impressione.

«Stanca?».

Chiusi gli occhi per un attimo. «Contenta di aver finito».

«Cin cin». Sollevò il bicchiere e lo fece tintinnare con il mio.

Bevvi un altro sorso, lentamente, apprezzando quel liquido che veniva da una bottiglia molto costosa e gustandone il sapore affumicato.

«Hai fatto meraviglie, questa settimana».

«Grazie. Anche tu».

«Non sapevo cosa aspettarmi, ma ora che ho lavorato con te ho capito che sei un’ottima risorsa. E credo l’abbiano visto tutti».

«Dici?». Sorrisi leggermente.

«Assolutamente sì. E se non l’hanno fatto, mi assicurerò che se ne rendano conto».

«Grazie, Jia. È stata un’opportunità incredibile. Hai fatto tantissimo per me, me ne rendo conto, e spero tu sappia che l’apprezzo».

«Mi ha fatto piacere. Magari un giorno ricambierai il favore».

«Certo». Non c’era neanche bisogno di dirlo che avrei ripagato la sua cortesia. Non mi conosceva e aveva comunque rischiato, e un giorno avrei fatto tutto il possibile per lei.

Mentre prendevo quell’impegno, Jia mi porse la mano. Esitai. La mosse, sollecitandomi a prenderla. Quando lo feci, mi tirò su. Feci un passo verso di lei fino a che fummo faccia a faccia.

«Che succede?».

Mi zittì posandomi un dito sulle labbra.

«Voglio finire quello che abbiamo cominciato quella sera».

Inarcai le sopracciglia. Prima che riuscissi a dire una parola lei si avvicinò e posò la bocca sulla mia. Scioccata dalla sua audacia, sussultai e schiusi le labbra, e lei colse l’occasione per baciarmi più profondamente, per cercare la mia lingua con la sua. Mi prese la guancia per avvicinarmi di più.

«Che stai facendo?», chiesi interrompendo il contatto.

«Ti sto baciando».

«Lo so. Non ho capito perché».

«Perché sei bellissima e sono attratta da te». Mi sfiorò i bottoni della camicetta. «E Dermott vuole guardarci».

Spalancai gli occhi, il cuore iniziò a rimbombarmi nel petto per il panico e la confusione. Sperai di aver capito male. «Cosa?».

Corrugò le sopracciglia. «Vuoi una promozione, Maya?»

«Certo».

«Allora rilassati», disse, iniziando a sbottonarmi la camicetta. «Sarà divertente».

«Jia, non posso». Mi scostai e lei lasciò cadere le mani.

«È per Cameron?».

Cercai le parole per rispondere, i pensieri mi ronzavano nella testa. «Forse».

«Non deve mica saperlo. E inoltre non puoi permettergli di dirti cosa fare».

«È una follia. Kevin sarà qui da un momento all’altro».

«Già, e gli faremo vedere un bello spettacolo. Ti piacerà, Maya. Poi lui farà quello che deve. Ma non preoccuparti, non dura molto. Sarai ancora in estasi dopo che ti avrò fatta venire, neanche ti accorgerai di lui». Incurvò le labbra in un sorriso inquietante. «Se lo fai, potremmo ottenere entrambe una promozione».

«Ma che cazzo stai dicendo?».

Alzò gli occhi al cielo e il tono sensuale della sua voce si raffreddò. «È annoiato».

«È sposato».

«E chi se ne frega. Pensi che la metà di questi uomini non scopi in giro? Comunque, non ha mai visto due donne insieme. Siamo sexy, ci piacciamo e lui si svuota. Vinciamo tutti. E, se siamo fortunate, avrà concluso prima ancora di avvicinarsi a una di noi due».

Restai con la bocca spalancata, senza parole.

«Signore». La voce di Kevin rimbombò nella stanza. «Continuate pure, non volevo interrompere». Si chiuse la porta alle spalle e si allentò la cravatta. Si slacciò i primi bottoni della camicia e si accomodò sulla sedia lì accanto. Aveva allargato le gambe e si mordeva il labbro. Ci guardò con palese appetito. Quel guardone che si era rivelato essere il mio capo stava aspettando con non troppa pazienza che Jia desse inizio allo spettacolo.

«Dove ci vuoi, Kev?».

Fece un cenno verso la sua scrivania. «Lì. Dopo voglio scoparmela là sopra».

Il cuore mi batteva all’impazzata e avevo le vertigini. Era troppo. Primo, non ero abbastanza ubriaca per considerare anche solo la cosa; secondo, era del mio lavoro che stavamo parlando, e non intendevo rischiare.

Senza esitare, Jia iniziò a sbottonarsi la camicetta di seta mentre io cercavo di capire la proposta che mi era stata fatta. In pochi secondi, lei si tolse anche la gonna e rimase davanti a me, coperta solo dalla biancheria intima color lavanda e con le gambe decorate da calze in pizzo. Tornò ad armeggiare con i miei bottoni e mi baciò di nuovo. Fu più rude, più esigente, e annullò la mia capacità di pensare lucidamente.

Non stava succedendo davvero. Non poteva essere. Jia era un’amica, era bellissima e sicuramente sensuale; certo, avevamo avuto quel momento in discoteca, ma non avevo mai pensato a lei in certi termini. Ci eravamo solo divertite, ma questo andava ben oltre i limiti della nostra amicizia.

Mi guardai attorno, sperando che qualcuno arrivasse e mi salvasse da quella situazione di merda. Dermott si aggiustò i pantaloni senza staccare lo sguardo da noi. Mi venne la nausea; quella situazione era sbagliata sotto tutti i punti di vista. Mi irrigidii e resistetti all’impulso di spingerla via, anche se non pensavo ad altro.

«Che c’è?», sussurrò.

Scossi lentamente la testa, sperando che Dermott non se ne accorgesse. Lei mi zittì di nuovo, e il suo sguardo aggrottato lasciò il posto a un sorriso sensuale. Fece scivolare una mano tra le mie gambe e fece pressione attraverso la stoffa dei pantaloni.

«Non mordo, giuro», sussurrò.

Feci un passo indietro, lasciandola alla scrivania. Con le mani che tremavano, armeggiai con i bottoni cercando di ricompormi.

«Mi dispiace». Scossi la testa. Non riuscii a dire altro. Mi girai e uscii. Andai velocemente verso il mio box cercando di riabbottonare la camicetta. L’ufficio era vuoto, c’erano solo gli addetti alle pulizie che non erano ancora arrivati in quella parte dell’ufficio.

Presi la mia borsa e mi fermai di colpo quando vidi Cameron seduto alla mia scrivania. Stava scarabocchiando su un bloc notes, aveva le gambe distese e riempiva quel piccolo spazio con la sua mole.

Alzò lo sguardo facendomi un sorriso smagliante, che si spense appena vide in che stato mi trovavo. Un attimo dopo arrivò Dermott, inconsapevole della presenza di Cameron. Sembrava irritato e in qualche modo deciso. Prima che potesse parlare, Cameron si alzò.

«Cosa sta succedendo?». Il tono di Cameron nascondeva a malapena una rabbia che, me ne resi conto, stava crescendo sempre di più appena sotto la superficie.

Dermott si raddrizzò. Cameron indossava un maglione che metteva in evidenza i pettorali. Dettaglio che al mio capo non era sfuggito, mentre si ricomponeva.

«Assolutamente nulla», disse subito. «Maya, volevo dirti che nei documenti potrebbero essere rimasti dei dettagli da rivedere domani. Ti mando una mail in caso di problemi».

Lo fissai e annuii. Avrei fatto finta di niente? Dermott si voltò e tornò verso il suo ufficio, dove Jia si stava probabilmente rivestendo. Oppure no. Mi sentii in colpa per averla lasciata lì a badare a se stessa.

Abbottonai l’ultimo bottone, misi il cappotto e superai Cameron per prendere la borsa.

«Mi vuoi spiegare che cazzo sta succedendo?». Aveva la mascella serrata e i suoi occhi erano spalancati. Emanava rabbia.

«Andiamocene», dissi a voce bassa nascondendo l’imbarazzo per essere stata colta nel bel mezzo di quella situazione terribile.

Non eravamo ancora usciti dall’edificio che si bloccò. Si girò verso di me e si chinò per guardarmi dritta negli occhi.

«Parla. Ora. Devo sapere che cazzo è successo lì dentro».

Cercai le parole giuste ma non le trovai, perché io stessa stavo ancora provando a capire. Odiavo come doveva sembrare la situazione vista dall’esterno. Lui era palesemente furioso. E non c’era modo di spiegare la situazione senza farla apparire come un tradimento.

Lo fissai con cautela. Sembrava ancora più massiccio con il cappotto. Se non l’avessi amato così tanto, la sua stazza mi avrebbe terrorizzata.

«Non è successo niente», ribadii.

«Col cavolo». I suoi respiri lenti formavano nuvolette nell’aria gelida. «Devi dirmi cosa cazzo è successo prima che perda la testa».

Sospirai e mi guardai intorno nervosamente. Non volevo intavolare quella conversazione con lui, né in quel momento né mai. Volevo far finta che quanto successo prima non fosse mai accaduto. Strinsi gli occhi e decisi di dire la verità.

«Jia è venuta da me».

Quando riaprii gli occhi, sul suo viso c’era un’espressione confusa. «Jia? Non capisco».

«Lei e Dermott volevano che…». Scossi la testa cercando di scacciare il ricordo sgradevole. «Non lo so. Per favore, parliamone dopo».

«No. Perché avevi la camicetta sbottonata?».

Alzai le mani. «Me l’ha sbottonata lei!».

«E non hai rifiutato?». Si passò le mani nei capelli e serrò la mascella.

«Be’, non subito. Non sapevo che cavolo stesse succedendo! Mi ha baciata così, dal nulla. Ero confusa».

«Ti è piaciuto?».

Trasalii. «Ma che razza di domanda è?»

«Non lo so. Cosa sei, lesbica?»

«Oddio, ma hai sbattuto la testa quand’eri nell’esercito? Solo perché ho baciato una ragazza non vuol dire che sia lesbica. Ero pietrificata per quello che stava succedendo. Mica ci ho scopato. Cristo santo».

«Avresti voluto?»

«Tu che dici? Sono scappata da lì e la mia decisione, che non era davvero una decisione, probabilmente mi costerà il lavoro. Mi stupirei di non trovare la lettera di licenziamento sulla mia scrivania, la settimana prossima. Tu comunque perché eri lì?»

«È la vigilia di Natale. Ho pensato finissi prima e volevo portarti a cena. Immagino il programma sia rovinato».

Mi massaggiai le tempie, la stanchezza stava prendendo il controllo del mio cervello e del mio corpo. «Mi dispiace che tu abbia visto quella scena. Non so cosa pensare. Dermott…». Gemetti e lottai contro l’ondata di panico che provai pensando che forse avrei perso il lavoro per quel disastro.

«Dermott, il tuo capo?»

«Sì».

Strinse gli occhi e il suo respiro rallentò. Sembrava un predatore, ma non il tipo seducente che adoravo. Misi le mani in tasca, felice di nascondere l’umidità dei palmi. Tutta quella situazione mi stava distruggendo i nervi.

«Quindi, se Jia ti stava sbottonando la camicetta, lui cosa faceva?».

Battei il piede per terra. Odiavo quella situazione. Odiavo quella conversazione. Anche dicendo la verità, lui si sarebbe infuriato. Con loro e, molto probabilmente, anche con me. Per Cameron nessuno era abbastanza buono, neanche io.

«Maya, parla. Ora».

«Guardava. Finché non sono scappata. È successo tutto velocemente. L’avevano pianificato e credo di aver rovinato tutto. Forse… forse lei pensava che sarei stata più aperta a una cosa del genere, visto quello che è successo in discoteca. Non lo so. Ha detto che, se l’avessi fatto, saremmo state promosse entrambe».

Risi all’idea assurda di scoparmi un’amica sulla scrivania del mio capo per avere una promozione. Santo cielo.

«Pezzo di merda». Serrò la mascella e girò dall’altra parte.

«No, no. Fermo».

«Devo dare una lezione a quello stronzo».

«Cameron, no!», gridai.

Si fermò e gli andai di fronte, posandogli le mani tremanti sul cappotto.

«Se non perdo il lavoro per questa cosa, è un miracolo. Non acceleriamo l’inevitabile, okay? Lasciamo che prima mi licenzino, va bene?»

«Ti ha toccata?»

«No, giuro. Non mi ha mai toccata. Sono scappata appena ho capito cosa stava succedendo».

«Cristo, Maya». Digrignò i denti e si allontanò.

Mi sentii debole. La sua rabbia mi schiacciava. «Perché sei arrabbiato con me? Non è stata una mia idea!».

«Ti avevo messo in guardia su di lei, tanto per cominciare. E, seconda cosa, non ti è mai venuto in mente che pomiciare da ubriaca con una collega avrebbe portato a questo?».

Mi fissò, e nei suoi occhi vidi rabbia ma anche delusione. Mi venne la nausea mentre seguivo il filo dei suoi pensieri.

Strinsi le labbra in una linea sottile e distolsi lo sguardo. Mi aveva schiacciata con una semplice occhiata di puro disprezzo. Feci un respiro profondo, ma non fu sufficiente per riprendermi.

«Non mi è venuto in mente perché non ho avuto neanche un secondo per rendermene conto. E tu sei qui, che mi attacchi e rigiri la situazione come se fosse colpa mia».

Mi allontanai e fermai un taxi.

«Dove vai?»

«A casa. Da sola».

Salii, chiusi la portiera e abbassai la sicura, prima che riuscisse ad aprire.

«Vada», ordinai al tassista.

«Dove?»

«Al Delaney’s sulla Pearl».