Capitolo 11

 

                          David

 

 

Da quanto tempo era sotto la doccia? Mezz’ora? Forse di più… David aveva perso la cognizione del tempo. La pelle scottava, ma proprio non ce la faceva ad abbandonare il getto d’acqua bollente. Le mani appoggiate alle parete contro le piastrelle fredde, la testa china e gli occhi chiusi. Il dolore, i ricordi, il senso di colpa. Di nuovo, ancora una volta, tutti insieme a travolgerlo come non accadeva da tempo.

Qualcosa in lui aveva iniziato a vacillare nel momento in cui la bambina gli aveva chiesto del tatuaggio, quella sera a cena. Erano mesi che si imponeva di essere forte, di non ripiombare nel buio, ma la semplice domanda di una bimba curiosa e innocente l’aveva riportato indietro di mesi e il dolore ero tornato a travolgerlo.

Erano settimane, forse mesi che non si sentiva così, ma qualcosa in lui stava rischiando di spezzarsi un’altra volta e temeva per le conseguenze che tutto ciò  avrebbe avuto su di lui. Non poteva crollare di nuovo, non adesso. Non quando nella sua vita era arrivata lei, Luisa.

Come avrebbe voluto fare l’amore con lei quella sera, rimanere insieme tutta la notte, tenerla tra le braccia e lavare via il dolore trovando riparo nel corpo di lei.

Si passò le mani sul volto allontanandosi dal getto d’acqua bollente, la chiuse e usci dal box doccia, prese un asciugamano e ripulì lo specchio sopra il lavandino, appannato per il calore.

Osservò il proprio volto, gli occhi verdi, i capelli scuri e leggermente ondulati e i lineamenti marcati, duri e guadandosi rivide l’immagine di un altro uomo. L’altro se stesso. L’altra metà di sé.

Arthur.

Chiuse gli occhi. Era tanto che non piangeva più, ma sentiva che era sul punto di lasciarsi andare.

Uscì dal bagno nudo e ancora gocciolante d’acqua.

Aveva voglia di bere, non qualcosa di leggero come ogni tanto, ultimamente, si era nuovamente concesso, ma un drink forte. Del whiskey, ecco cosa ci voleva in quel momento, sebbene fossero mesi che si teneva alla larga dai superalcolici. Gli fu sufficiente ripensare ai giorni di Glasgow, vissuti nell’incoscienza dettata dall’alcol, per accantonare il pensiero.

Cercò le sigarette e ne accese una. Inspirò a fondo lasciando che il fumo gli penetrasse nella gola, nei polmoni, poi espirò dal naso.

Prese un paio di pantaloni della tuta buttati su una poltrona, li indossò e andò a sedere sull’ampio davanzale della finestra della camera da letto.

Quell’appartamento era un buco ma gli piaceva, si trovava in una zona alla periferia di Inverness, in un quartiere tranquillo e borghese. Di buono aveva soprattutto la vista, che si godeva da quella finestra al quarto piano  con il fiume Ness e le luci della città in lontananza. Inspirò ancora dalla sigaretta e appoggiò la schiena contro la parete.

Luisa.

Era stato bene insieme a lei e alla bambina.

Chiuse gli occhi. Le immagini della serata appena trascorsa, le chiacchiere a tavola e il film insieme sul divano, Viola addormentata e lui che l’aveva portata in camera, e messa a letto insieme a Luisa. Non aveva mai amato i bambini né li aveva mai considerati più di tanto. Viveva in un mondo fatto di adulti troppo presi da loro stessi, dalle loro vite e dalle loro carriere. Lui per primo non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di mettere su famiglia, nonostante l’insistenza di sua madre sull’argomento, né a una relazione che andasse oltre l’aspetto puramente sessuale. La superficialità con cui gestiva, almeno fino a oggi, il suo rapporto con le donne non l’aveva mai turbato né preoccupato più di tanto.

Un ultimo tiro alla sigaretta e la spense nel posacenere sul davanzale colmo di mozziconi. Quell’appartamento gli piaceva sì, ma aveva bisogno di una ripulita, valutò. Immaginò Luisa lì con lui, nel suo letto e si rese conto di quanto avesse trovato difficile lasciarla quella sera.

Luisa Mac Kinnon stava diventando qualcosa di cui non riusciva più a fare a meno, vederla in albergo, cercarla con lo sguardo ogni volta che passava nei dintorni della cucina, i caffè e le tazze di tè presi insieme, ormai le era entrata nel sangue.

Sorrise al ricordo del loro primo tè, quando la tazza gli si era rovesciata addosso e Luisa l’aveva costretto a spogliarsi credendo di avergli procurato ustioni gravissime. Era successo qualcosa quel pomeriggio e il fatto che in quel momento desiderasse averla lì con sé, era il segnale più evidente che quella donna stava diventando sempre più importante per lui. Baciarla e darle la buonanotte, senza poter fare l’amore con lei quella sera, era stato come una tortura per lui.

Al buio della sua stanza, illuminata dalla luce della luna che forte, filtrava attraverso i vetri della finestra, rimase qualche istante a osservare fuori, il cielo scuro cosparso di stelle. Per un attimo ebbe l’impressione che nulla nella sua vita fosse cambiato. Si riscosse da quel torpore di cui ogni tanto ricadeva prigioniero, e sebbene fosse passato un anno, c’erano giorni in cui, ancora, pensava di prendere il telefono e chiamare Arthur.

No, non poteva accadere di nuovo.

Non doveva lasciare che la sofferenza tornasse.

Allungò la mano in cerca delle sigarette, sfilandone con le labbra  ancora un’altra dal pacchetto, la accese e lasciò cadere a terra l’accendino.

E se ne avesse parlato con Luisa, tentando di rivelarle il peso che si portava dentro?

 Provando a renderla partecipe del tormento che lo dilaniava e che sapeva, non l’avrebbe mai abbandonato per il resto della vita…

Quella sera a cena era stato tentato di confidarsi, di svelare il significato della lettera A che si portava tatuata sulla pelle in maniera indelebile, e togliersi un peso dal cuore.

Non ne aveva mai parlato con nessuno.

I suoi genitori vivevano a Londra chiusi nel loro dolore e indifferenti al figlio, come se si fossero scordati di averlo mai amato in passato. I suoi amici e colleghi a Edimburgo non sapevano nulla e probabilmente non avevano nemmeno compreso quanto fosse accaduto a David Hamilton di tanto grave, da sconvolgerlo nel profondo dell’anima.

Era rimasto solo con se stesso e il peso che si portava nel cuore.

Solo, senza l’altra metà di sé che aveva amato per trentacinque anni e che amava ancora, il dolore ancora vivo  nonostante fosse passato un anno.

Un anno della sua vita senza di lui.

Un anno senza Arthur, suo fratello gemello.

Chiuse gli occhi e questa volta pianse come si era ripromesso non avrebbe fatto mai più. Pianse liberando l’angoscia che aveva nel cuore…