Capitolo 1

 

    Inverness, Scozia – Maggio 2015

 

Le intenzioni sono una cosa, la realtà un’altra.

Me ne sono resa conto molto presto.

Dimenticare lui non è stato possibile, essere felice con mia figlia sì.

Secondo i miei piani, lui e la nostra immaginaria vita insieme, nel giro di ventiquattr’ore, sarebbero dovuti diventare solo un lontano e spiacevole ricordo. Invece no, era ancora vivido nella mia mente purtroppo. Anni di analisi non mi erano serviti letteralmente a un cazzo.

Non fraintendetemi, non sono più innamorata di lui. Lo sono stata ancora e per molto tempo, ma oggi quel sentimento ha lasciato il posto al buco nero che ha sostituito il mio cuore. L’unico amore che potrò mai dare nella vita è quello che riservo a Viola, unitamente all’affetto infinito che nutro nei confronti della mia famiglia. Punto, basta, finito.

Non ci sarà mai più spazio per un uomo nel mio cuore, né nella mia vita, tantomeno nel mio letto.

Sesso? E chi se lo ricorda! Dopo tutti questi anni credo di essere addirittura tornata vergine, ma non mi importa. Non ne sento la mancanza. Mia sorella mi ripete spesso di trovarmi un uomo, anche solo per divertirmi. Mia madre si dice d’accordo con lei. Persino mio padre alle volte si sente in dovere di esprimere la sua opinione, suggerendomi un po’ di svago con un essere di sesso maschile. Ma ogni volta la mia risposta è no. No, no e ancora no.

Non ne voglio sapere.

È vero, per farli contenti, per alcuni periodi, sono uscita con qualcuno, ma non posso nemmeno definire queste frequentazioni delle vere e proprie storie, visto che il rapporto con l’accompagnatore di turno si limitava a scambi telefonici, SMS, mail e qualche cena insieme. Al primo tentativo di approccio fisico mi davo alla fuga. Via, basta così, a mai più!

Il mio analista sostiene che sto ancora subendo le conseguenze del trauma vissuto per colpa del padre di Viola… e vorrei ben vedere! Che ci provi lui a essere mollato in sala parto, con una creatura appena nata tra le braccia! Che genio, e pensare che lo pago pure per sentirmi dire cazzate che già conosco.

Ma torniamo a noi.

I primi due anni dopo la nascita di mia figlia e il ritorno a casa, a Inverness, li ho trascorsi dedicandomi completamente a lei, nel tentativo di rimettere ordine nella mia vita e nella mia testa. Se vi dicessi che sono stata tanto brava da non provare a ristabilire, nemmeno una volta, un contatto con lui vi racconterei una bugia. L’ho cercato in diverse occasioni ma all’ennesimo: “Cosa c’è, Luisa? Vuoi ancora soldi? Quanto ti serve?” ho deciso che era bene lasciar perdere e non cercarlo più per davvero. Non mi ha mai chiesto di Viola né tantomeno di me. Quindi mi sono arresa, ho smesso definitivamente di chiamarlo, inutile continuare a farsi del male e buttare nel cesso i soldi che ogni settimana, spendevo dallo psicologo. I miei non erano patetici tentativi di tornare con lui, ma solo la speranza che potesse interessarsi al prodotto della nostra storia: Viola.

Missione fallita, mia figlia continuerà ad avere una madre e ogni membro della mia famiglia le farà un po’ da padre. Dopotutto, così è stato sin dall’inizio.

Il problema di fondo però rimane: Viola ha cinque anni, ne compirà sei in autunno, e anche se sono stata tentata, non me la sono sentita di dirle che suo padre è morto. Così sa che esiste, abita in Italia e non ha mai vissuto con noi perché non sempre i figli crescono insieme a entrambi i genitori. Un bambino può avere soltanto una mamma o soltanto un papà, non necessariamente entrambi. Grazie al cielo all’asilo e a scuola, non sono mai stata l’unica mamma single, quindi mia figlia si è accontentata della mia spiegazione e raramente ha fatto domande. Ma temo che arriverà il giorno in cui insisterà per conoscerlo e a quel punto sarò costretta a rivelarle le modalità poco ortodosse del nostro abbandono!

Affronterò il problema quando sarà il momento, per ora tutto ciò che posso fare è mantenere il mio equilibrio mentale, crescere Viola nel miglior modo possibile e, riuscire a non bruciare questo arrosto!

Ecco, l’ho fatto di nuovo! Mi sono persa nei miei viaggi mentali, dimenticandomi completamente del resto del mondo e soprattutto di quello che stavo facendo nel momento in cui il mio cervello è partito per la tangente!

Butto nel lavandino il coltello con cui stavo affettando i pomodori per il sugo, acchiappo al volo uno strofinaccio e tolgo il coperchio alla pentola sul fuoco  che sta fumando come una ciminiera: pessimo segnale!

Impreco come uno scaricatore di porto, ma tanto Viola non è nei paraggi, pertanto nessuno può accusarmi di essere un cattivo esempio per lei, quindi tolgo la pentola dai fornelli. Con un forchettone stacco l’arrosto tristemente attaccato al fondo della pentola e quasi mi viene da piangere. Non posso di certo proporre “arrosto di vitello carbonizzato ad arte” come piatto del giorno ai clienti che si presenteranno per cena questa sera!

Sospiro, imprecando ancora un pochino, poi aggiunta un po’ d’acqua al pezzo di carbone, lo rimetto a cuocere a fuoco molto lento. Quello ce lo mangeremo noi e pace. Per fortuna, al tacchino non sembra essere toccata la stessa sorte e cuoce tranquillo in forno. Prendo il mio blocco per appunti ed elimino dal menù che avevo studiato per stasera, la voce “arrosto di vitello con salsa di funghi e contorno di verdure di stagione”, sostituendolo con un più pratico e veloce “omelette della casa” d’emergenza. Dovrei riuscire a non fare danni, almeno spero.

Mentre torno al bancone da lavoro, pronta ad occuparmi dei miei pomodori, riconosco l’inconfondibile scampanellio dell’ingresso della hall. Rumore di passi e voci familiari, non si tratta di ospiti. Mamma e Viola sono tornate da scuola. Sorrido e interrompo il lavoro per prendermi una pausa e fare merenda insieme a mia madre e mia figlia.

La porta si spalanca e Viola irrompe in cucina correndomi incontro per abbracciarmi.

«Mamma!» Mi si getta al collo e io la tiro su. Non so per quanto tempo ancora riuscirò a sollevarla, visto che cresce a vista d’occhio e i suoi ventidue chili cominciano a farsi sentire sulle mie povere ossa da trentaduenne! È al suo primo anno di scuola, nel Regno Unito i bambini iniziano la scuola dell’obbligo a cinque anni anziché a sei come in Italia. A novembre compirà sei anni e io la guardo, le accarezzo i capelli lunghi, morbidi e biondi, e vedo ancora la bimba minuscola di neanche tre chili che dormiva tra le mie braccia nella sala d’attesa di quell’ospedale a duemila chilometri da qui. Potrei mettermi a piangere, giuro.

La bacio sulla fronte e come ogni volta che le osservo il viso, ringrazio silenziosamente che somigli a me: occhi nocciola screziati di verde e capelli vaporosi di un biondo scuro con riflessi dorati. I suoi sono lunghi, belli e i miei corti, pratici, sbarazzini e ho cominciato a tingerli per coprire i primi capelli bianchi.

La aiuto a togliere la giacca e nel frattempo mia madre entra in cucina.

«Cosa dobbiamo togliere dal menù per questa sera, Lu?» mi domanda storcendo il naso e posando la borsa su una sedia.

«Arrosto di vitello» rispondo, facendo cenno alla pentola sul fuoco con la testa.

«Deduco che sarà la nostra cena» conclude andando a prendere il bollitore per il tè.

Sorrido e aiuto Viola a salire sulla sua sedia rialzata in modo che arrivi al bancone da lavoro che usiamo anche come tavolo da merenda. Metto le tovagliette e prendo la crostata che ho preparato, porgendo a mia figlia la sua tazza di latte e cioccolato.

Io e mia madre parliamo in italiano quando siamo sole o insieme a mia sorella, ci viene naturale e sono felice che mia figlia abbia imparato così bene la lingua madre di sua nonna. Io sono mezza scozzese e mezza italiana, ed è giusto che anche mia figlia sia bilingue, dopotutto è nata a Torino.

Se vi state chiedendo se l’ho già portata in Italia la risposta è sì.

Se siamo state a Torino, no. Ancora non ci riesco, ho i miei limiti.

«Passami lo zucchero, Lu. Hai visto tuo padre?» mi chiede mia madre dopo un po’, sedendosi con noi e poggiando sul ripiano due tazze fumanti di tè bollente.

«È con dei clienti, una coppia di anziani del Galles che volevano fare una gita sul lago di Lochness. Li ha accompagnati» le dico passandole il barattolo dello zucchero.

«Anziani? Ma se avranno la mia età, ho capito a chi ti riferisci» ribatte facendo una smorfia.

Rido e assaggio la crostata: marmellata di fichi fatta in casa. Divina. Brucerò gli arrosti ma con i dolci ci so proprio fare. Diciamo che in generale con il cibo, fatto salvo alcune eccezioni, sono brava. Quando vivevamo in Italia, avevo frequentato il liceo, per poi accorgermi dopo il diploma, di voler fare la cuoca. Così mi iscrissi a un corso dal quale, in teoria, sarei dovuta uscire come chef ma dal quale, nonostante l’attestato e il diploma a piena voti, sono finita a fare la cameriera in pizzeria, la barista e pure la lavapiatti per il ristorante del Circolo Ricreativo Amici delle Bocce. Una carriera non molto esaltante la mia ma, per fortuna, quando sono tornata a Inverness con Viola, cinque anni fa, ho preso possesso della cucina della Guest House che i miei familiari gestiscono da quando sono tornati a vivere e lavorare qui in Scozia, potendo così finalmente dare libero sfogo alla mia passione e alla mia creatività tra i fornelli. Cucinare mi rilassa, mi è servito da antidepressivo in questi anni e soprattutto mi diverte. Mi sento bene in cucina a tagliare verdura, infornare dolci e sperimentare nuove ricette. Forse potrei cominciare a valutare seriamente l’idea di liquidare il mio strizzacervelli.

«Lu, ho trovato chi sostituirà Iain» dice mia madre, mentre di colpo torno alla realtà.

Iain è il nostro giardiniere e aiutante tuttofare alla Guest House. O meglio era. Lavorava per la mia famiglia da quando avevano aperto l’albergo, ormai dieci anni fa, una brava persona a cui eravamo tutti sinceramente affezionati ma che, un paio di mesi fa, ha dato le dimissioni annunciando il suo trasferimento a Cuba, insieme alla fidanzata venticinquenne, incontrata lo scorso inverno durante una vacanza al caldo. La notizia ci ha lasciato a bocca aperta, soprattutto considerando che Iain, non solo ha più del doppio degli anni della fidanzata cubana, ma ha sempre sostenuto di essere allergico ai legami seri e impegnativi. Superato lo shock iniziale, non ci è rimasto altro se non augurargli tanta felicità, e iniziare a cercare un sostituto che ci aiutasse per la manutenzione dell’albergo.

La Mac Kinnon Family’s Guest House non è un grande albergo, intendiamoci. I miei genitori hanno acquistato la struttura una volta rientrati in Scozia dopo il periodo trascorso in Italia. Una quindicina di stanze ben curate e un ristorante – il mio ristorante – che non potrà vantare le famose stellette Michelin, ma ha le sue ottime valutazioni su Trip Advisor, che per me non è affatto poco! La struttura è piuttosto grande, posta su due piani, ha un’ampia veranda che dà sul giardino, davvero molto grande e ben curato. La stessa veranda attualmente ospita il ristorante, trasferito dopo gli ultimi lavori di ristrutturazione e ammodernamento; un risultato che mi rende particolarmente orgogliosa. L’albergo e la gestione di ospiti, prenotazioni ed escursioni, sono prerogativa dei miei genitori e di mia sorella. La cucina e il ristorante, il mio regno.

Mi pulisco la maglietta  piena di briciole, non riesco mai a mangiare un dolce senza sbriciolarmi.

«Fantastico mamma. E chi sarebbe?» domando.

«Un signore, non è di qui. Si è trasferito recentemente da Edimburgo e ha risposto al nostro annuncio. Passerà tra poco per dare un’occhiata all’albergo. Comincerà domani mattina» risponde sorseggiando il suo tè.

«Ancora!» ordina intanto Viola porgendomi il piatto.

«No, tesoro. Altrimenti stasera non hai fame e non mangi» rispondo a mia figlia, anche se ripensando all’arrosto carbonizzato, sarei tentata di darle un altro paio di fette di crostata…

Sbuffa ma non insiste, prendendo dal cassetto dove teniamo le sue cose, un album e delle matite colorate.

«Cos’ha questo tizio in più rispetto a quelli sottoposti a colloquio in queste settimane  che non avete ritenuto idonei?» sembrava quasi che Iain fosse insostituibile e nessun candidato pareva andare bene per i miei genitori.

«Mh… Mi è sembrato in gamba, Lu. E comunque non possiamo aspettare oltre, qui abbiamo un gran bisogno di qualcuno che ci dia una mano. Vuoi forse occuparti tu dei fiori e delle siepi?» domanda ironica.

«Per carità, lo sai benissimo che con me morirebbe tutto. Va bene, vada per questo sostituto. I capi siete voi e il giardino ha bisogno di una sistemata» concludo dando un’occhiata fuori dalla grande finestra, da cui intravedo il giardino dall’erba effettivamente un po’ troppo alta.

Alzo le spalle dimenticando la questione “sostituto di Iain” e porto piatti e tazze nel lavello con la testa già altrove. Viola rimane con me in cucina, impegnata a colorare mentre mia madre prepara un piccolo rinfresco da offrire agli ospiti rimasti in albergo questo pomeriggio. Siamo a maggio, e anche se di turisti ne arrivano tutto l’anno da queste parti, questo è il periodo  in cui iniziamo ad avere il “tutto esaurito” fino alla fine dell’estate. È la stagione che preferisco: gente che arriva da ogni parte del mondo, chiacchiere, ricordi, condivisioni di esperienze. Le colazioni da preparare al mattino, i consigli da dare e il ristorante sempre pieno alla sera. Questo lavoro richiede un impegno enorme, ma l’entusiasmo e l’aiuto non mi mancano, inoltre avere la vita completamente assorbita da una figlia e dal lavoro, toglie lo spazio anche alla più remota possibilità di instaurare relazioni sentimentali. Per carità…

«Mai più!» dico tra me, baciando la testa profumata di shampoo all’albicocca di mia figlia, i suoi capelli mi pizzicano il naso e sorrido. Prendo il coltello che avevo lasciato nel lavandino e torno a dedicarmi ai miei pomodori. Tra poco Anthony, Stephany e Kate saranno qui e i primi clienti inizieranno ad arrivare. Anthony è il ragazzo che da un paio d’anni mi aiuta in cucina. Per darci un tono ci definiamo chef e sous-chef anche se, quando serve non esita a dare una mano alle cameriere servendo i clienti ai tavoli. Sono dei bravi ragazzi, mi trovo bene con loro, insieme formiamo una bella squadra.

Ora però basta pensare!

Al lavoro, Luisa.

 

                            Capitolo 2

 

                       David

 

David Hamilton si prese qualche momento per osservare l’albergo che da lì a poco sarebbe diventato il suo nuovo posto di lavoro.

Tolse gli occhiali da sole scuri e affondò le mani nelle tasche della giacca leggera che indossava.

Aveva risposto all’annuncio dopo essere stato contattato dalla signora Butler, la responsabile dell’ufficio di collocamento a cui si era iscritto alcune settimane prima.

«Ho il lavoro perfetto per lei, David!» gli aveva detto entusiasta, spiegando che in un albergo a conduzione familiare molto conosciuto a Inverness c’era bisogno di un addetto alla manutenzione. Così gli aveva fissato un appuntamento con i proprietari per un colloquio. David si era presentato all’appuntamento con i possibili nuovi datori di lavoro senza sapere realmente cosa aspettarsi. Oltre a non lavorare da circa un anno, confessò ai signori Mac Kinnon, la sua scarsa esperienza per quel genere di mansione, salvo che non volessero tenere conto di quando, da ragazzo, tagliava il prato dei vicini per racimolare qualche sterlina extra o, di quando aiutava il padre nei suoi lavori di bricolage. Ciò nonostante, ai due aveva comunque fatto una buona impressione, tanto che lo assunsero comunicandogli che avrebbe cominciato a lavorare la settimana successiva.

Era un anno esatto da quando aveva detto addio per sempre allo studio legale di cui era socio, mettendo da parte completi scuri, giacca e cravatta da avvocato. Un anno da quando aveva deciso di cambiare vita. Un anno da quando la sua vita era cambiata per sempre.

David chiuse gli occhi per un attimo e scosse la testa come a voler scacciare i cattivi pensieri che rischiavano di assalirlo proprio in quel momento.

Si concesse quindi un’ultima occhiata alla facciata dell’edificio a due piani dal tipico stile scozzese con muri esterni in mattoni a vista, torri e torrette dal tetto spiovente in pietra grigia dallo stile vagamente baronale, tipico delle abitazione scozzesi costruite nel XIX secolo. Un’abitazione privata trasformata in albergo, avrebbe richiesto senz’altro un impegno non indifferente, pensò, ma la prospettiva non lo spaventava.

Si incamminò lungo il vialetto d’ingresso superando l’insegna su cui spiccava a lettere rosse la scritta Mac Kinnon Family’s Guest House senza smettere di guardarsi intorno. Un parco, più che un giardino, si intravedeva estendersi sul retro dell’albergo. Ebbe un’ottima impressione del suo nuovo luogo di lavoro. Si era informato tramite internet e le notizie relative all’albergo e le recensioni di chi vi aveva soggiornato risultavano entusiaste. Anche il ristornate aveva la sua fama, ricordò.

Aveva accettato quell’incarico con entusiasmo. Era arrivato il momento di ricominciare a lavorare e di pensare di nuovo al proprio futuro e alla propria vita.

Si era preso un anno. Un anno lontano da tutto e da tutti, lontano dalla sua vita di prima e dall’uomo che era stato. Aveva trentasei anni e non poteva lasciare che il dolore prendesse definitivamente il sopravvento.

Aprì la porta d’ingresso ed entrando nella hall dell’albergo, si diresse al bancone della reception dove in quel momento non c’era nessuno. Suonò la campanella nell’attesa che si presentasse qualcuno. Si guardò intorno per studiare l’ambiente in cui si trovava, pavimenti in parquet lucidissimo, arredamento classico con mobili in legno bianco e divani e poltroncine in pelle scura, adornate da cuscini colorati. Pareti dai colori pastello su cui si alternavano quadri, specchi e librerie ricolme di libri. Un grande caminetto d’angolo in quel momento spento, lampade dalla luce soffusa e piccole candele accese, davano una sensazione di calore e familiarità che lo misero a proprio agio. A un tavolino, due signore che sorseggiavano il loro tè pomeridiano, gli sorrisero incrociando il suo sguardo. Ricambiò, e attese paziente che arrivasse qualcuno. Una delle cose che aveva imparato nel corso di quell’ultimo anno era proprio l’avere pazienza. Un pregio che non rientrava tra i suoi, ma quell’uomo ormai, non c’era più dopotutto…

«Signor Hamilton! Eccomi. Scusi, ero in giardino a servire il tè a degli ospiti seduti sotto il gazebo. È una così bella giornata, si sta proprio bene all’aria aperta. Benvenuto!»

Cristina Mc Kinnon andò incontro al suo nuovo dipendente sinceramente felice di vederlo. Il giardino era un disastro e avevano davvero bisogno di due braccia in più in albergo.

«Buongiorno» la salutò David stringendole la mano.

«Ha fatto buon viaggio? Abita fuori città, non è vero? Vuole una tazza di tè? Caffè?» domandò la donna, costretta ad alzare il viso per poterlo guardare negli occhi. David Hamilton superava il metro e novanta e l’altezza non era l’unica cosa che colpiva di lui. Un ragazzo con quel viso e con quel corpo, non poteva di certo passare inosservato, fu quello che la donna aveva pensato la prima volta che si erano incontrati, la settimana precedente, in occasione del colloquio di lavoro.

«No, la ringrazio. Viaggiato benissimo, niente traffico» rispose David sorridendole.

«Molto bene. Allora venga signor Hamilton. Le mostro l’albergo, il giardino e i lavori più urgenti da fare. Così domani mattina quando inizierà ufficialmente a lavorare da noi, saprà già come muoversi e cosa c’è da fare. In ogni caso, io e mio marito saremo a sua completa disposizione così come mia figlia Laura, in questo momento è assente, ma la conoscerà molto presto. Mia figlia Luisa invece, la maggiore, si occupa principalmente della cucina e del ristorante, ma non esiti a rivolgersi a lei per qualunque esigenza, anche solo per una tazza di tè. La trova quasi sempre là, oltre quella porta, nel suo regno tra i fornelli! Ora mi segua, la prego» concluse la donna sorridendogli.

David annuì impaziente di iniziare quel nuovo lavoro. Dopo tanti anni di scrivania, ufficio e aule di tribunale non poteva trovare un’occupazione più diversa da quello che era stato il suo mondo.

Incamminandosi insieme alla signora Mac Kinnon, attraversarono la hall e uscirono in giardino dalla porta di servizio.

Anche questo, era un nuovo inizio…