Capitolo 3
Tagliaerba, martello, trapano, pure la sega elettrica.
Questo signor Hamilton ci sta dando dentro con i lavori, non c’è che dire. Ha iniziato martedì mattina e non c’è stato un giorno in cui non l’abbia sentito trafficare con qualche attrezzo o con la falciatrice.
L’ho sentito appunto, ma non l’ho ancora visto. Non ci siamo mai incrociati anche se la cosa non mi interessa più di tanto. Dopotutto lui fa il suo lavoro, io il mio. Ho la mia cucina a cui pensare e il giardino non è affar mio. Anche se bisogna ammettere che sta facendo un ottimo lavoro, papà, mamma e Laura ne sono entusiasti. Non passa giorno in cui l’argomento “signor Hamilton” non accenda le nostre conversazioni, sicuramente ha il merito di aver riportato, in pochi giorni, il parco ai livelli a cui eravamo abituati prima che Iain scappasse con la ragazzina cubana.
Osservo il giardino dalla veranda del ristorante, con una tazza di caffè in mano, godendomi qualche momento di relax in questo caldo pomeriggio di maggio. Sono stati giorni sereni, insolitamente caldi e asciutti per questa stagione. Inspiro il profumo delle rose appena sbocciate e dell’erba appena tagliata. Mi piace questo periodo, l’estate è ormai alle porte e mi sento bene, rilassata, in pace con il mondo e con me stessa. Almeno per il tempo di bermi un caffè, poi si ricomincia a correre: spesa, fornitori, portare Viola a scuola, prendere Viola da scuola (anche se spesso se ne occupa mia madre), preparare dei dolci per gli ospiti, pensare alla cena di stasera, alla colazione del giorno dopo e così via. Il tempo che posso dedicare davvero a me stessa solamente, alla fine, è ben poco; ogni mio momento libero lo riservo a Viola.
È sabato, oggi non c’è scuola e l’ho appena vista correre per il giardino rincorsa da Freddie, il nostro cagnolino meticcio, nonché suo migliore amico. È passata davanti alle finestre della cucina per salutarmi e mi è bastata un’occhiata rapidissima per rendermi conto delle condizioni pietose in cui erano ridotti i suoi vestiti. Ho sospirato, cos’altro potevo fare? Ormai, con l’arrivo della bella stagione, macchie di terra ed erba sono all’ordine del giorno, tenerla in casa con questo sole è un’impresa molto ardua, così la lascio giocare in giardino senza però mai perderla di vista. Voglio che sia sempre a portata d’occhio e d’orecchio, quindi rimane a giocare nei pressi della cucina.
Finisco il mio caffè e torno in cucina a sbucciare frutta e lavare verdura, il tutto accompagnato da un po’ di musica; quando lavoro lo stereo è perennemente acceso, non amo il silenzio così vivo con la musica in sottofondo.
Oggi mi sento nostalgica così ho riesumato un vecchio CD delle Hole che ascoltavo quando frequentavo il liceo e mi ritrovo a cantare Celebrity Skin insieme a Courtney Love. La mia cucina è il mio personale palcoscenico dove, mentre lavoro, tengo veri e propri concerti, a discapito di chi, passando da queste parti, si ritrova involontariamente costretto ad ascoltarmi. Viola a parte, dato che a lei piace vedermi ballare e cantare tra i fornelli ma si sa, l’innocenza dei bambini, non ha limiti.
Sono alle prese con un ananas non troppo maturo e difficile da sbucciare e tagliare, quando mia figlia entra in cucina di corsa. Il cane rimane ad aspettarla sulla soglia come gli ho insegnato. Tra i due non so chi sia più sporco…
«Viola non toccare niente, mi raccomando» la imploro prima che si avvicini troppo al bancone dove sto lavorando.
«Mamma, mi dai qualcosa per merenda, per favore?» mi chiede tenendosi a distanza di sicurezza e dondolandosi da un piede all’altro.
«Per te o per Freddie?» le domando indicando il cane.
«Per me, per Freddie e per il signor Hamilton» risponde con un sorriso che le illumina il volto.
Il signor Hamilton? Pare, in effetti, che mia figlia abbia fatto amicizia con il nostro nuovo dipendente, visto che da qualche giorno, non manca mai di chiedermi un bicchiere d’acqua, di succo o un biscotto per l’uomo che non ho ancora visto. Io di solito le concedo quanto mi chiede e la osservo lasciare la cucina insieme a mia madre per consegnare uno spuntino a quel pover’uomo che si sta facendo il mazzo in giardino. Anche con Iain ero abituata a questa sorta di rituale della pausa pomeridiana e spesso ci siamo ritrovati a prendere un tè o un caffè insieme sotto il portico o in veranda. Con questo caldo anomalo poi, quel poveretto starà facendo ancora più fatica, alla sua età lavorare sotto il sole non è l’ideale. Non lo conosco e non so nulla di lui, però mi sono fatta l’idea che sia un signore di mezza età come Iain.
«Viola, ascolta tesoro, lavati le mani poi corri dal signor Hamilton e chiedigli se vuole venire a prendere una tazza di tè con noi, va bene?» le dico mossa a pietà per questo povero signore, costretto a passare il pomeriggio sul tetto rovente del capanno degli attrezzi che, so, sta riparando.
«Sì, mamma! Che bella idea! È sul tetto, vado a chiamarlo» risponde Viola saltando. Pure il cane pare voler dire la sua e comincia ad abbaiare.
«Dai, Viola laviamoci le mani.» Lascio quindi il mio ananas e accompagno mia figlia in bagno a darsi una ripulita. Poi torniamo in cucina e le dico di andare a chiamare il signor Hamilton e invitarlo a fare uno spuntino insieme a noi ma di non avvicinarsi troppo al capanno, non vorrei mai che le cadesse una tegola in testa.
Annuisce solennemente e corre in giardino seguita dal cane. Ho la sensazione che tornerà sporca quanto prima ma lascio perdere, sospiro, vado a preparare il tè per il nostro ospite e del latte tiepido per Viola. Non ama il tè, forse perché è ancora piccola, preferisce di gran lunga latte e cioccolato.
Abbasso il volume dello stereo tentata di spegnere o cambiare CD, non so se un signore dell’età di mio padre possa gradire il rock anni ’90, ma opto per la seconda ipotesi. Abbasso il volume e torno a dedicarmi allo spuntino pomeridiano, per me, infatti, anche la preparazione di qualcosa di semplice come una merenda è qualcosa di sacro. Tovagliette colorate, tovaglioli e piattini coordinati, qualche biscotto e la torta al cioccolato che ho sfornato da poco. Visto che, non essendomi ancora presentata, sono stata una pessima e maleducata datrice di lavoro, voglio almeno rimediare sfoggiando le mie doti di regina della cucina.
Mi metto a ridere e sistemo un vaso di ortensie rosa e blu al centro del tavolo che ho preparato vicino all’ampia porta-finestra aperta sul giardino.
Intanto, Viola rientra in cucina di corsa, non si è sporcata come avevo previsto per fortuna, e va a prendere i biscotti per il cane ponendoli poi nella sua ciotola sotto una piccola veranda adiacente.
«Il signor Hamilton ha detto che va a lavarsi e arriva subito» mi comunica Viola allungando una mano verso i biscotti con le gocce di cioccolato bianco e mirtilli che ho preparato questa mattina.
Le bacio la fronte e vado a prendere il bollitore che intanto ha iniziato a fumare, versando l’acqua calda dentro una teiera colorata. Mi piacciono i colori, tutto intorno a me è colore, la mia cucina è colorata come lo è casa mia e di mia figlia. Ma, e non chiedetemi il motivo, io vesto sempre di bianco, nero e grigio. Tanto grigio. Mia madre mi chiama “tristezza” e mia sorella ha sempre da ridire, sia sulla scelta dei colori che su quella degli abiti che indosso, ma sono sempre stata così e cambiare a trentadue anni è davvero impossibile.
«Ti è simpatico questo signor Hamilton?» domando a Viola mentre la osservo mangiare il suo biscotto appoggiandomi al tavolo.
Scuote la testa in segno affermativo mormorando qualcosa come un sì, poi finito di masticare aggiunge: «Sì, è simpatico e gentile, ieri mi ha regalato un fiore. Piace tanto anche alla nonna e a zia Laura» conclude.
Oh, che brav’uomo. Non è facile trovare persone a modo ed educate di questi tempi.
Annuisco ripensando all’entusiasmo con cui, in effetti, anche mia madre e mia sorella me ne hanno tessuto le lodi, ma a ripensarci non prestavo loro molta attenzione. Non ricordo esattamente cosa mi abbiano detto di lui, se non che si è trasferito da Edimburgo da qualche tempo, ma niente di più. Dovrei considerare di più la gente quando mi parla, ma la mia famiglia ha la brutta abitudine di comunicare con me, quando sono in cucina a lavorare, pur sapendo bene che in certi momenti sono concentrata su quello che sto facendo. Mi basta niente per bruciare arrosti o fare casini con la cottura dei dolci, quindi, nella mia cucina pretendo silenzio e concentrazione. Musica a parte ovviamente.
«Vado a prendere del succo di frutta» dico a Viola e in quel momento sento bussare alla porta della veranda.
«Avanti!» grida mia figlia e alzo gli occhi proprio nel momento in cui il signor Hamilton entra in cucina…
Oh mio Dio…
Sbatto le palpebre e non riesco a muovere un passo. Rimango lì, immobile con un’espressione, di questo ne sono sicura, da perfetta idiota stampata in faccia. Non solo, ma sento anche che sto arrossendo, anzi lo so, mi conosco troppo bene, quando sono in imbarazzo le mie guance diventano ridicolamente rosse. Guardo Viola poi guardo lui… E così questo sarebbe il signor Hamilton che si occupa della manutenzione del nostro giardino e dell’albergo? Quello che la mia mente bacata si figurava come un gentile e anonimo signore di mezza età, magari con un po’ di pancia, quasi calvo? Oddio, perché nessuno mi aveva avvertita?
Mi tocco i capelli improvvisamente consapevole di essere in condizioni pietose, almeno se consideriamo il mio aspetto in confronto a quello del modello di Vogue appena entrato nella mia cucina. Perché ho messo questa ridicola molletta a tenermi su la frangia? La maglietta bianca anonima come non mai e sporca di macchie di frutta, i jeans sdruciti sulle ginocchia e le ballerine, saranno anche comode per cucinare ma, non lo sono per… per… per lui! Ma che diavolo mi sta succedendo?
Fermi tutti! Luisa, respira… è soltanto un uomo bellissimo che è qui per prendere il tè insieme a te e tua figlia. Rilassati! Non comportarti come una quindicenne isterica, sei una donna adulta! Respira e chiudi la bocca, prima di tutto.
«Salve…» è la cosa più intelligente e sensata che il mio cervello riesca a produrre e le mie labbra a pronunciare in questo momento.
Ma io non ero quella insensibile al genere maschile e con gli ormoni morti e sepolti? Che mi sta succedendo? Santo cielo, mi faccio paura.
«Salve» risponde lui e… oh santo cielo… che sorriso! Sento che sto per morire per la vergogna, sto reagendo come una perfetta rincoglionita che non ha mai visto un uomo in tutta la sua vita. Vorrei sprofondare per l’imbarazzo ma, visto che pare non voglia aprirsi una voragine nel pavimento, ringrazio silenziosamente mia figlia che mi viene in soccorso.
«Ciao signor Hamilton, lei è mia madre. Ti ha preparato il tè.» gli dice con un gran sorriso, «La mia mamma fa la cuoca, sta sempre nel ristorante e in cucina.»
Sì, detto così sembra che passi la mia esistenza rinchiusa qua dentro e in effetti la realtà non è poi così diversa.
Lui sorride e mi guarda: occhi verdi, uno sguardo che potrebbe uccidermi, sento il bisogno di sedermi, o di bere qualcosa di forte.
Mi appoggio al bancone da lavoro e incrocio le braccia al petto nel tentativo di coprire le macchie di frutta. Non potevo mettere almeno un grembiule, mi domando? Così devo avere un’aria terribilmente sciatta.
«Lo so, la cucina è il suo regno, o almeno così mi hanno raccontato sua madre e sua sorella» mi dice con aria divertita. Mi sta forse prendendo in giro, e poi, cosa gli hanno riferito mamma e Laura di me? Comincio ad aver paura seriamente.
«Il mio regno? Oh, beh… sì, in un certo senso sì. Passo molto tempo qui» dichiaro sorridendo a mia volta, sperando di non sembrare isterica.
«È un lavoro impegnativo» afferma lui e non riesco a fare nulla di più intelligente se non annuire. Non voglio passare per idiota, né per sfacciata, ma non riesco a non osservarlo forse un po’ più del dovuto. È alto, direi imponente rispetto a me che supero a malapena il metro e sessanta, muscoli perfettamente definiti e carnagione abbronzata, risultato, con ogni probabilità, delle lunghe ore passate al sole negli ultimi giorni. Credo di non aver mai visto nessuno a cui jeans logori da lavoro e una t-shirt sbiadita con il logo degli AC/DC, stiano così bene. Non voglio continuare a fissarlo quindi distolgo lo sguardo rivolgendomi a mia figlia.
«Tesoro, accompagna il nostro ospite in veranda. Io arrivo tra un minuto con il tè» dico. Ecco, così ne approfitto per riprendere aria e darmi un contegno.
Santo cielo che shock…
Mentre mi interrogo su cosa diavolo stia succedendo al mio cervello e ai miei ormoni che credevo essere ormai morti, non posso evitare di osservarlo attraversare la cucina. Viola che lo prende per mano per accompagnarlo a tavola, mi sembra così minuscola in confronto a lui. Ha le spalle larghe, maglietta e jeans nascondono a malapena la muscolatura e ragazzi… che culo!
Mi verso un bicchiere d’acqua e bevo tutto d’un fiato.
Santo cielo. Sono una stupida, una trentaduenne con il cervello di una sedicenne in calore. Già una volta ho avuto questa reazione e mi sono ritrovata abbandonata in ospedale con una neonata di tre giorni tra le braccia.
Luisa, fatti un favore e sii furba.
Ora vai di là, servi il tè e ignoralo.
Ottimo proposito ma che crolla miseramente appena varco la soglia della veranda. Mi sorride ancora, mentre noto sul suo viso, un accenno di barba che lo rende ancora più sexy. Come se già non lo fosse.
Poso il vassoio con il tè sulla tavola e mi accomodo. Viola parla, sta raccontando al signor Hamilton che il nonno ha promesso di allestire un’area giochi in giardino con scivoli e altalene.
«Aiuterai il nonno a montare i giochi, signor Hamilton?» domanda Viola porgendogli il piatto con i biscotti. Io li osservo quasi incredula, mia figlia è sempre stata una bambina piuttosto chiusa e introversa, timida come ero io da piccola, invece con quest’uomo è completamente a suo agio. È vero che lo conosce da qualche giorno ma noto che hanno superato la fase del “Viola che si nasconde dietro le gambe di mamma”. Lui prende un biscotto e le sorride.
«Ma certo che aiuterò tuo nonno, signorina» le risponde e mi passa il piatto. Ci metto forse più del dovuto a replicare al gesto e a comprendere che rimanere a bocca aperta con un piatto pieno di biscotti davanti al naso, non fa di me una ragazza sveglia, ma alla fine reagisco e scuoto la testa.
«No, grazie» rifiuto, mi si è stretto lo stomaco all’improvviso. Non è da me, giuro. Devo distrarmi ed evitare di osservarlo mentre parla con mia figlia mangiando biscotti, altrimenti divento scema. Ne approfitto per versare il tè ma, rincoglionita come sono in quel momento, afferro il manico della mia bella teiera colorata e bollente, senza usare una presina, scottandomi la mano.
Sorrido con nonchalance facendo finta di niente, anche se dentro di me impreco come uno scaricatore di porto e recupero al volo la presina che avevo lasciato sul tavolo.
Servo il tè facendo attenzione a rimanere concentrata. Non mi era mai sembrata un’operazione tanto complicata come in questo momento, ma riesco a riempire le tazze senza combinare casini. Sorrido compiaciuta e passo lo zucchero al signor Hamilton. Ecco, sono riuscita a porgergli il barattolo senza rovesciarglielo addosso. Sono fiera di me.
«Vuole del latte?» domando senza balbettare.
«No, va bene così, grazie» mi risponde, mentre io sono sinceramente tentata di dirgli di smetterla di sorridere in questo modo, è illegale, può nuocere alla salute delle donne, potrei anche denunciarlo.
Mi sento una scema, rigiro lo zucchero nella tazza osservando il cucchiaino come se fosse la cosa più interessante del mondo e per un attimo rimaniamo in silenzio. Pure Viola tace e, alzando lo sguardo, la sorprendo a osservarmi con un’espressione seria in viso. Alzo un sopracciglio come a domandarle cosa ci sia che non va, ma credo di avere capito. Di solito sono più loquace quando abbiamo ospiti. Ha solo cinque anni e mezzo ma è sveglia a sufficienza per comprendere che sua madre ha qualcosa che non va, tipo che è completamente impazzita, ecco.
«Lei si chiama Luisa, giusto?» mi sento domandare. Pure la sua voce è pericolosa: profonda, calda, sensuale. Può una semplice domanda sulle mie generalità farmi arrossire? Evidentemente sì…
«Oh, sì. Luisa. Lei?» chiedo dopo aver ritrovato il dono della parola.
«David. David Alexander Hamilton» risponde sorseggiando il suo tè.
Mio Dio… ha pure un nome bellissimo.
«I biscotti li ha fatti la mamma» interviene mia figlia con l’intento di sbloccarmi e rendermi un po’ più espansiva, in effetti, lo sguardo che mi lancia da sopra la sua tazza di latte e cioccolato, è più che eloquente.
«Sono buonissimi» dice lui rivolgendomi un sorriso cortese.
«Assaggia anche la torta al cioccolato, signor Hamilton!» esclama Viola piena di entusiasmo, prendendo il vassoio con la torta con le sue manine, mentre so già come andrà a finire. Non faccio in tempo a dirle di posarlo perché troppo pensante, che il vassoio va a urtare il vaso di vetro con le ortensie che avevo messo a centrotavola, che non cade, ma oscilla pericolosamente toccando però la zuccheriera che si ribalta proprio contro la tazza di tè che il nostro ospite aveva appoggiato sul piattino.
Non ho parole, mi sembra di vedere la scena al rallentatore e mi allungo verso David – lasciate che lo chiami David – per evitare che la tazza gli caschi addosso. Peccato che la tazza sia ancora ustionante così faccio ancora più danno e rovescio direttamente il tè caldo addosso al nostro giardiniere che, probabilmente, dopo questo pomeriggio deciderà di farci causa. Lo vedo alzarsi di scatto dalla sedia, vuoi per il contatto con il tè ancora bollente sulla pancia, vuoi per placcare me, che nel frattempo, nel ridicolo tentativo di evitargli un’ustione, gli sono praticamente crollata addosso.
Silenzio, nessuno si muove. Intravedo solo con la coda dell’occhio che mia figlia si è portata le mani alla bocca in un puro gesto di panico. Credo che questa merenda la ricorderò come una delle esperienze più imbarazzanti della mia vita.
«Sta bene?» mi domanda.
Lui chiede a me se sto bene, quando dovrei essere io a farlo, visto che la vittima di questo delirio è lui, completamente inzuppato di tè bollente e con una donna di cinquantadue chili appena franatagli addosso. Si è riseduto sulla sedia con me praticamente sulle sue ginocchia.
Dio che imbarazzo… Devo fare qualcosa, non posso rimanergli incollata addosso. Il suo viso è così vicino al mio che non riesco a non guardargli la bocca. Come gli dona questa barba incolta di tre giorni almeno…
Basta così Luisa!
Gli appoggio le mani sulle spalle – Gesù che spalle! – e mi tiro su. Mi tiene per la vita, ha le mani grandi, forti, sentirmele addosso mi fa tremare le ginocchia.
«Mamma, scusami» sento mormorare Viola e a questo punto, scatto in piedi come se, improvvisamente, il corpo del nostro ospite bruciasse. O forse sono io che sto andando a fuoco, più probabile.
«Oh santo cielo. Mi dispiace, signor Hamilton io… Non volevo, mi perdoni. Mi spiace per il tè ma, ecco, non era nemmeno mia intenzione caderle addosso, mi creda!» blatero, imbarazzata e al limite dell’isteria.
Lui si alza e improvvisamente mi ricordo che il tè bollente su un punto delicato come la pancia, potrebbe non essere una delle esperienze più piacevoli del mondo, così corro a bagnare uno strofinaccio nell’acqua fredda del lavandino.
«Tranquilla, non è niente è solo un po’ di tè. Non è successo niente, davvero» cerca di rassicurarmi ma io sono entrata in modalità “emergenza” quindi devo fare qualcosa. Un po’ come quando Viola si sbuccia un ginocchio o sbatte da qualche parte: mi trasformo in medico del pronto soccorso, e la stessa cosa sta capitando adesso. Solo che lui non è Viola, né un bambino di cinque anni e me ne rendo conto solo dopo aver parlato.
«Si tolga subito la maglietta» gli ordino con lo straccio bagnato tra le mani.
Ops… Imbarazzo… Gli ho appena chiesto di spogliarsi nella mia cucina e davanti a mia figlia. Ma non è una proposta indecente, è un intervento di pronto soccorso, di cosa diavolo mi sto preoccupando?
«Non è niente, Luisa. Non era più bollente» si oppone e dall’espressione del suo viso, non riesco a capire se l’incidente lo stia divertendo, o se lo abbia infastidito.
«Le ho detto di togliere la maglietta. Viola sai qual è la pomata per le ustioni?» domando a mia figlia che, prontamente, annuisce e corre verso l’armadietto del pronto soccorso. Si aiuta salendo su una sedia e va a colpo sicuro prendendo la crema che le ho chiesto. Non conto più le volte in cui mi brucio con pentole, forno e fornelli, perciò mia figlia ormai conosce molto bene il tubetto dell’unguento da spalmare in queste occasioni.
Torno a osservare lui, ci scambiamo un’occhiata e potrò sembrare pazza, anzi, probabilmente lo sono, ma ho come la sensazione che tra noi sia crollato quel muro di imbarazzo e formalità che avevamo avuto fino a un minuto prima. Sembra quasi che mi stia rivolgendo uno sguardo complice e divertito.
Mio Dio, ma che idiozie.
Mi sta semplicemente osservando come se fossi pazza, cercando probabilmente di assecondarmi, prima che dia di matto una volta per tutte.
Tutta colpa del tè…
Si toglie la maglietta con un unico movimento. Giuro che mi sembra di vedere una pubblicità o un film. Devo cercare anzitutto di non aprire la bocca e non sembrare la donna in preda alla tempesta ormonale che in realtà sono.
È semplicemente perfetto. Non ho parole per descrivere il metro e novanta d’uomo che ho davanti agli occhi. Erano anni che non mi sentivo così, e non so se esserne spaventata, mettermi a ridere oppure telefonare immediatamente al mio psicologo, dicendogli che aveva ragione: prima o poi mi sarei scongelata.
Allunga una mano verso di me e capisco che mi sta chiedendo lo straccio bagnato. L’addome intorno all’ombelico è in effetti molto arrossato, ma devo smettere di guardarlo nelle parti basse. Subito.
Viola mi è vicino, stringe la crema tra le mani e osserva anche lei con espressione preoccupata, il signor Hamilton. Comprendo che si senta in colpa per il piccolo incidente.
«Ti fa tanto male?» gli domanda dondolandosi sui piedini e stringendosi a me.
Lui la guarda e le sorride, un sorriso così rassicurante che quasi mi commuovo.
«Ma no, non è niente. Stai tranquilla, piccola. Non sarà un po’ di tè a uccidermi» e nel dirlo guarda me.
Non so cosa mi stia succedendo. O meglio, una vaga idea ce l’avrei ma la cosa mi terrorizza.
«Mi daresti la crema, Viola» le domanda e mia figlia gliela porge immediatamente, è più rilassata ora, ma temo che abbia paura che io la sgridi.
«Viola, te l’ho detto mille volte di non prendere le cose pesanti. Sei ancora piccolina» le rammento accarezzandole i capelli, il mio tono tranquillo la rassicura e sento il suo corpo stretto al mio fianco rilassarsi.
Ho volutamente ignorato il nostro giardiniere intento a spalmarsi la crema sulla pancia perché credo che non avrei retto. Torno a guardarlo nel momento in cui mi ritrovo il tubetto sotto il naso.
«Grazie, ma non era un’ustione così grave» mi dice.
«Non si sa mai…» mormoro e prendo al volo la crema per andare a rimetterla nell’armadietto del pronto soccorso. Gli do le spalle e lo sento parlare con mia figlia, ora serena e di nuovo con la voglia di chiacchierare. Fingo di rimettere a posto garze, cerotti e medicinali per un tempo indefinito. Non so nemmeno io perché non voglio guardarlo mentre chiacchiera con Viola. Li sento ridere e lei, per scusarsi credo, gli offre ancora un biscotto.
«Sai piccolina, credo proprio che per rimediare a questo increscioso incidente tua madre sarà costretta a invitarmi a cena prima o poi.» Sussulto quando sento queste parole e mi volto incredula.
Possibile che si sia invitato a cena?
O era forse un modo per invitare me?
Non ci capisco più niente. So solo che mi sta guardando divertito, la maglietta bagnata di tè gettata su una spalla e le braccia – che braccia, mio Dio – incrociate sul petto. Viola saltella felice e ride insieme a lui che, intanto, non mi toglie gli occhi di dosso.
Come prima, sento il bisogno di bere.
«Io… oh, sì certo… una cena» emetto più che altro suoni, non parole.
E lui ride.
Ovvio che ride. Sono ridicola!
Saluta Viola e le spettina i capelli, lei sorride felice. Io non riesco a far altro se non rimanere a guardarlo appoggiata alla parete.
«Ora vado. Vorrei finire il lavoro sul tetto prima di andare a casa» mi dice, senza avvicinarsi, rimanendo accanto al tavolo in veranda con Viola, mentre io sono ancora in cucina attaccata alla parete.
«Grazie per il tè, Luisa.»
Io annuisco. Non so se scusarmi ancora per l’incidente o giustificare il mio comportamento assicurandogli che di solito non sono così idiota.
In realtà non faccio nulla, mi limito a salutarlo con la mano, sempre appoggiata al muro mentre lo guardo uscire dal mio mondo accompagnato da mia figlia.