Un artista


Un’altra storia a questo riguardo. La storia di un frutto magnifico, forse il più spettacolare che l’umanità abbia mai dato alla luce. Il protagonista è Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo era un uomo dalla forza spaventosa, un macigno di muscoli. Potete vedere un suo ritratto nella Scuola di Atene di Raffello. C’è un tizio seduto in terra. Scrive qualcosa appoggiandosi a un blocco di marmo. Rappresenta il filosofo Eraclito di Efeso, ma ha le fattezze del Buonarroti.

Michelangelo si sente scultore dalla punta dei capelli alle piante dei piedi, dalla pelle al midollo. Scherzando dice di aver succhiato dalla balia, insieme col latte, polvere di marmo. Di contro, disprezza la pittura: è un’arte da sfaticati e da effemminati: non richiede forza, non richiede muscoli, non richiede sudore.

Anno di grazia 1505. Michelangelo ha 30 anni tondi tondi. È, perciò, un artista già maturo, ma un uomo ancora nel pieno delle forze. Viene chiamato dal Papa: Giulio II, al secolo, Giuliano Della Rovere.

Difficile immaginare un committente migliore. E cosa gli commissiona, il committente? Un’opera monumentale, destinata all’immortalità: la sua stessa tomba.

L’artista è infuocato d’entusiasmo: progetta un’opera grandiosa fino al delirio, una congerie di statue, oltre 40, alcune di dimensioni colossali. Mostra il progetto al Papa, che si infuoca a sua volta. È un sereno confronto fra due megalomani.

“Vai a Carrara, dove c’è il miglior marmo del mondo – dice il Papa a Michelangelo – e scegli tu stesso i blocchi”.

E Michelangelo va. Nelle cave di Carrara.

Manda a Roma blocchi mastodontici: le folle accorrono a vederli: sono già uno spettacolo così, non scolpiti, tanto sono abnormi.

Michelangelo arde di gioia. È volato in una sfera superiore di euforia. È in preda a una tale esaltazione che vaneggia di scolpire, non un grande blocco, ma direttamente la montagna.

E voi potreste dire: “Be’, è un pensiero ambizioso, ma non folle. In fondo, è stato fatto. Il monte Rushmore, negli Stati Uniti. Con i quattro presidenti: Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln”.

Sì, ma è stato fatto nel XX secolo. Con le tecnologie del XX secolo: la dinamite, i martelli pneumatici. E 400 operai.

No. Michelangelo, il monte, lo voleva scolpire da solo. Nel 1505.

Immaginate la foga sfrenata, l’energia che si sentiva in corpo, la visione di felicità che la sua mente proiettava. E immaginate come dovette sentirsi quando tornò a Roma e si sentì dire dal Papa che…

“Non si fa più niente”.

“Come?! Non si fa più niente?!”

“No”.

Cos’era successo?

Be’ erano tempi di rivalità livide. Un altro grande artista, più attempato, forse più disincantato, Donato Bramante, aveva, nel frattempo, parlato con Giulio II. Lo aveva convinto che, insomma, non era il caso. Troppo ambiziosa l’opera, troppo probabile il fallimento, troppo interminabili i tempi di esecuzione. Meglio lasciar perdere.

Il cielo in cui si era innalzato, crolla di colpo addosso a Michelangelo. Ora è nero d’ira delusa. Litiga con Giulio II. Se ne va da Roma.

Passano due anni.

Due lunghi anni.


Poi accade una cosa. Il Papa avrebbe un lavoro importante da far fare: dipingere la Cappella Sistina.

Eh, certo, ce ne sono tante di cappelle, in Vaticano. Ma lui vuol far dipingere proprio la Cappella Sistina. Quella e soltanto quella. E come mai? C’è un motivo, in effetti. La Cappella Sistina si chiama così perché l’ha fatta erigere Papa Sisto IV, al secolo, Francesco della Rovere.

E c’è qualche parentela fra costui, Francesco Della Rovere, e il Papa, Giuliano Della Rovere? Sì. Il primo è lo zio del secondo.

Francesco Della Rovere, a dirla tutta, è l’uomo per cui è stata coniata la parola “nepotismo”: un Papa che ha favorito in modo così smaccato i suoi nipoti che uno di essi… è diventato Papa a sua volta.

Per questo Giulio II tiene tanto alla Cappella Sistina: è la cappella della sua famiglia, del suo clan, simboleggia il prestigio e il potere dei Della Rovere.


Allora, siccome alla cosa ci tiene, chiede consiglio. Chiede a un uomo disinteressato, onesto, equanime: Donato Bramante. E quest’ultimo suggerisce di affidare il lavoro a… Michelangelo Buonarroti.

È una trappola.

Bramante sa che Michelangelo è uno scultore e non un pittore. Sa che di lì a poco Raffaello comincerà a dipingere le Stanze Vaticane. Ma Raffaello è il pittore più ammirato di Roma. I suoi affreschi saranno senz’altro impareggiabili. E chiunque si avventurerà nell’impresa della Cappella Sistina, dovrà subire il confronto con lui, niente meno. Si va, in pratica, a gettarsi fra le fauci del leone, a tuffarsi nella tana del lupo.

Me lo immagino mormorare, il nostro: “Nooo! Papa, la Cappella Sistina no! No, io non la faccio”.

Sono mille metri quadrati di superficie da ricoprire di pittura. L’odiata pittura.


Michelangelo tenta di sottrarsi. Arriva a suggerire a Giulio II di affidare il lavoro a un altro pittore: Raffaello. Forse perché Raffaello è l’unico a non dover temere Raffaello, dunque l’unico che avrebbe accettato.

Pensate a quanto è spaventato. Un artista così titanicamente ambizioso, arriva a sperare che la commissione sia affidato a un altro.

E tuttavia il Papa è inamovibile. Michelangelo non può rifiutarsi. È la prima commissione del Papa dopo due anni di rottura, di gelo, di silenzio. Rifiutare questa richiesta significherebbe, con ogni probabilità, aver chiuso per sempre con Giulio II.


Perciò accetta, non ha altra scelta.

Ma è disperato. Il 27 gennaio 1509 (quando i lavori dovrebbero essere già avviati da un po’) invia una lettera lamentosa al padre, elencando tutti i fattori che rendono improba l’impresa. A un certo punto arriva a scrivere:

“Questa è la dificultà del lavoro, e ancora el non esser mia professione. E pur perdo il tempo mio senza fructo. Idio m’aiuti!”

È infelice: non fa frutto.

E teme che quello non sia il genere di frutto che un albero come lui può produrre. “ non esser mia professione”. Vale a dire: “Non è il mio mestiere”. Incredibile.


Poi, accade qualcosa, in Michelangelo. Non è possibile sapere cosa. Qualcosa si libera, si scatena, divampa in lui. E riesce nell’impresa che aveva creduto impossibile.

Un’impresa così mastodontica che Goethe scriverà: “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile farsi un’idea di cosa sia in grado di compiere un uomo da solo”.


Ho parlato di questa storia con un amico esperto d’arte, Massimo Pulini. Massimo è uno di quei tizi che hanno autorità e che si prendono la briga di attribuire i dipinti anonimi. Viene ritrovata, poniamo il caso, una tavola non firmata. E lui dice, poniamo il caso, “è di Lorenzo Lotto”. Dopodiché la tavola è attribuita a Lorenzo Lotto.

Mi ha detto (spero di riportare le sue parole abbastanza fedelmente, nello spirito, se non nella lettera): “Ma – vedi, Roberto? – Michelangelo è stato un grande scultore. Tuttavia come pittore è stato ancora più grande. Perché è stato ancora più originale. Ha dipinto come nessun altro prima di lui. Con questi corpi torniti, che sembrano uscire fuori dalla superficie pittorica come se fossero, appunto, sculture. Senza usare i paesaggi e la prospettiva, a cui tutti gli altri dedicavano la massima minuzia (mentre uno scultore, che pure conosce l’anatomia, non ha confidenza con i paesaggi). Insomma, Michelangelo è stato un pittore così grande, così originale, proprio perché ha dipinto da scultore e non da pittore. È stato un pittore così immensamente unico e diverso da tutti gli altri proprio perché, in un certo senso, non era un pittore”.


Ecco, non so voi, ma io penso che questa storia sia piuttosto incoraggiante. Io, quando mi trovo di fronte a un’impresa per cui, nel mio piccolo, non mi sento pronto, non mi sembro adatto, che mi pare superare le mie forze, penso a questa storia.

Michelangelo Buonarroti. La Cappella Sistina. Com’era cominciato tutto? “Non è il mio mestiere”.