Quarto capitolo
Sì, Ninive è salva. Ma Giona? Giona che è stato svegliato nel cuore della notte, è fuggito a rotta di collo, è stato su una nave in preda alla tempesta, inghiottito da un pesce, ha vissuto tre giorni nel suo stomaco, ha urlato quaranta giorni contro una città, e tutto questo per cosa? Per niente! Per niente, perché poi la profezia non si è avverata! La città non è stata rasa al suolo. Giona è distrutto. È distrutto dalla stanchezza, dalla frustrazione, dall’amarezza, dall’insensatezza. Urla contro il cielo: “kahna nefshì mimmèni, ki tov motì mihhaihài!”, “prendi il mio respiro via da me, perché è meglio la mia morte della mia vita!” Cioè, chiede a Dio di morire.
Ora, bisogna capire una cosa: sta bestemmiando. Sta bestemmiando perché, nella concezione ebraica, la vita è il valore supremo. È il grande dono che Dio ha fatto all’uomo. Un dono che non è possibile rifiutare. Così, mentre per altre culture, mentre per un eretico cataro, un asceta indù, un cittadino romano, un samurai giapponese, in alcuni casi, il suicidio può essere un’opzione contemplabile (persino onorevole, talvolta), per la mentalità ebraica (così come per quella cristiana) è una colpa mortale. Per una simile concezione chiedere a Dio di ucciderti, di “prenderti via il respiro” è una bestemmia.
E Dio? Come reagisce a questa insubordinazione di Giona? Come lo punisce? Cosa fa? Lo fulmina? No (anche perché lo accontenterebbe). Tenta di parlargli. Gli chiede: “È fare bene infuocarsi d’ira?” È una domanda retorica, ovviamente: “È fare bene infuocarsi d’ira?”, come dire “Ti pare il caso?”
E a questa domanda Giona… non risponde! Non risponde e se ne va via!
Come quando tu sei un po’ nervoso. Uno ti dice qualcosa per calmarti, per giustificarsi. Invece ti manda in bestia ancora di più. Allora tu, per non mettergli le mani addosso, per non dare in escandescenza, vai via senza rispondere. Ecco, fa così. Solo che fa così con Dio. Insomma, se ne va.
Se ne va su un promontorio. Guarda Ninive da lontano. È solo. Disteso in terra. Sotto il sole.
E Dio vorrebbe parlare con lui. Ma c’è da scardinare il suo mutismo. Bisognerebbe sbloccare la chiusura ermetica. Non basta fare domande, non serve.
Allora Dio fa crescere un kikaion, una pianta vicino a Giona. E la pianta fa ombra alla testa di Giona, gli dà sollievo. E Giona, allora, viene preso da un’allegria grande. A volte, quando siamo davvero distrutti, un minimo evento favorevole, una fortuna insignificante può indurci una gioia illogica. Dopo che Giona si è rallegrato, allora Dio manda un vento secco, che fa inaridire l’albero e un verme, che lo fa marcire. E l’albero muore. Così Giona ripiomba di colpo in una disperazione ancora più fonda. Di nuovo urla contro il cielo: “Prendi il mio respiro da me, perché è meglio la mia morte della mia vita”. Di nuovo la stessa bestemmia. Sempre meglio di niente.
Il silenzio è rotto. La serratura è saltata. Dio torna a parlare. Fa di nuovo la stessa identica domanda: “È fare bene infuocarsi d’ira?”
Ecco, fermiamoci qui. Tutto questo per rifare la stessa domanda. Un dio escogita il trucco dell’albero, tutto per questo: avere una risposta a una domanda rimasta in sospeso. Riprendere un dialogo interrotto.
Viene da chiedersi: qual è il valore del dialogo nella cultura ebraica? Smisurato. La cultura ebraica è la cultura del confronto verbale smisurato, della dialettica sconfinata, del dialogo indomabile. Ma da dove viene questo costume? Un costume a cui persino Dio sembra allinearsi.
C’è un fatto. Un fatto centrale nella tradizione ebraica. Il suo cuore e il suo tratto, per me, più esaltante. La Bibbia è infinita. Cioè, la Bibbia, essendo opera di Dio, non è un deposito finito di dati. Ma, al contrario, è qualcosa che è possibile indagare all’infinito. Più si scava, più se ne estraggono verità. È come una miniera inesauribile di senso.
Ora a questa estrazione interminabile, a questo lavoro immane, che non sarà mai concluso, tutti hanno, non solo il diritto, ma il dovere di partecipare. Quindi – secondo punto – tutti sono ammessi alla discussione sulla Bibbia, tutti possono (e devono) tentare loro interpretazioni. Tutti, anche la persona meno acculturata, dall’intelligenza meno brillante.
Terzo punto (forse il più sconvolgente per chi proviene da un’altra cultura): in questo tipo di discussione, di dialogo, di assemblea non esistono autorità. Non esistono, semplicemente. Non c’è nessuno che possa dire: “Basta! Il discorso è chiuso! Ho ragione io! Ho ragione io perché sono il più colto, o il più intelligente, o il più saggio, o il più anziano, o il più potente, o il più ricco, o etc. etc. No. Nessuno può dire una cosa del genere. Nessuno può fermare il dialogo. Come Davide ha sconfitto Golia, così, su una interpretazione, la persona più ignorante della terra potrebbe avere ragione sulla più colta, il più ottuso potrebbe, per una volta, superare il più intelligente.
Perciò – punto quarto e conclusivo – l’unico modo in cui sia lecito supportare le proprie affermazione è citare passi della Bibbia che le avvalorino. E l’unico modo in cui sia lecito contrastare affermazioni di altri è citare passi della Bibbia che sembrino contraddirle. Si combatte, per così dire, a colpi di citazioni (come fanno Gesù e Satana nel Vangelo di Matteo).
Potrei raccontarvi settanta volte sette storie su questo. Ma non vi racconterò settanta volte sette storie. Né settanta. Né sette. Ve ne racconterò una. Una sola. Forse la storia più potente nella quale mi sia imbattuto da quando leggo e ascolto storie ebraiche. Quella che segue.