Socrate


Di fronte a queste due figure bellissime e opposte – Diogene, Platone – ci si domanda: ‘Non esiste una sintesi? Una figura meravigliosa che riunisca questi opposti, che abbia il fascino sommato di entrambi?’ Sì, esiste. Per me, esiste. È Socrate.


Platone diceva di Diogene il cane “è un Socrate impazzito”. Forse possiamo definire Socrate parafrasando questa definizione. E dire di lui: “È un Diogene il cane così illuminato, così saggio da riuscire a dialogare anche con Platone”.


La cifra di Socrate sta in questo: nella pace infinita del suo animo, nell’equilibrio perfetto, sovrannaturale della sua mente. Non perde mai la calma, qualunque cosa accada. Socrate, ci racconta Diogene Laerzio, parla con chiunque minando certezze, rovesciando convinzioni. Risponde senza mai perdere il controllo ai suoi interlocutori, a chiunque lo contrasti, lo critichi, lo offenda. I suoi interlocutori, viceversa, talvolta perdono la testa, cominciano a colpirlo con pugni, gli strappano i capelli. Una volta, addirittura, un tale lo prende a calci. Eppure Socrate è sereno, non esprime la minima stilla di rancore verso costui. Alcuni ne sono meravigliati. Ma lui dice loro: “Stavamo discutendo e lui ha perso la ragione. Dunque è divenuto, da uomo, animale. Io ho sentito l’urto dei suoi calci, ma non ho sentito nessun dispiacere dell’animo, nessuna offesa personale. È come se un asino imbizzarrito mi avesse sferrato un calcio. Non me la prenderei con lui”.


Quando gli comunicano che gli Ateniesi lo hanno condannato a morte, risponde: “Ma io ero già condannato a morte. Come voi che mi parlate. E come è condannato a morte chi crede di avermi condannato a morte. Tutti siamo condannati a morte dalla Natura perché, dal momento che siamo nati, è certo che moriremo”.

La moglie piange e si lamenta: “Ma tu muori innocente!” E lui replica: “Meno male! Perché, tu volevi che morissi colpevole?”


Ecco, la morte di Socrate è l’apoteosi di tutto questo, è se mi passate il paradosso l’apice della sua vita.

Qui, però, forse è meglio salutare Diogene Laerzio, che – come si è visto – mette insieme le notizie un po’ come può. Abbiamo un’enorme fortuna: possiamo leggere le parole di un uomo che era presente; uno che ha visto con i suoi occhi e udito con le sue orecchie: Platone.

Platone racconta nel Fedone la morte di Socrate.

Il maestro è circondato dai suoi discepoli. Giunge… il boia?… il farmacista? (non so come chiamarlo)… insomma, l’uomo che porta la cicuta. Socrate lo saluta e lo accoglie senza tradire un solo brivido di inquietudine. Si fa istruire da costui sul modo di assumere il veleno: “Tu sei maestro in queste cose. Che cosa devo fare?”

Poi beve.

Con apparente indifferenza.

Mentre tutti scoppiano in lacrime.

Non rinuncia alla sua ironia: “Certo che siete strani, eh! Ho fatto uscire le donne per non vedere certe scene e ora vi ci mettete voi! Calmatevi”. Quindi, secondo le istruzioni ricevute, cammina per la stanza finché non sente le gambe farglisi pesanti. Infine si sdraia. Il torpore sale dai piedi ai polpacci alle cosce. L’uomo della cicuta gli parla: “Quando arriverà al cuore, morirai”. È la fine.

Socrate si copre con un lenzuolo.

Ed è lì, in figura di morto, in attesa di morire da un momento all’altro, con i discepoli che hanno smesso di trattenersi, e ora danno libero sfogo al dolore. È lì, in pratica già morto quando, con una sorta di macabro, inaspettato “cu-cù”, si scopre improvvisamente il volto ed esclama:

O Kriton! Oh, Critone!”


Sta chiamando uno dei suoi discepoli. Immaginate l’attesa che si crea. Socrate ha chiamato un discepolo per rivolgergli un’ultima frase, prima di morire. È l’ultimissima frase di Socrate. Egli è, in un certo senso, tornato dai morti pur di pronunciarla.

“Chissà quale insegnamento di inarrivabile saggezza! Chissà che sovrumana profondità! Questo è il libretto delle istruzioni supremo! È la frase da chiodarsi nel cervello, imprimersi nel sangue per sempre!”

I presenti sono tutt’orecchi per udire cosa dica Socrate. E Socrate dice:


To Asclepiò ophèilomen alectruòna”.


Che in greco antico vuol dire: “Dobbiamo un gallo ad Asclepio”.


‘Eh?! Come?! Ma che razza di insegnamento è?!’

Allora il lettore scorre veloce le pagine del volume in cerca delle note. E le note ci sono, di solito. Ma sono note che non gettano luce sulla cosa, bensì buio ulteriore; infittiscono la tenebra. Le note dicono che era tradizione, presso gli Ateniesi, che chi guarisse da una malattia sacrificasse un gallo ad Asclepio, dio della medicina. Quindi la frase equivale a “sono guarito”. Ma che senso ha, in questo momento? Socrate sta morendo, dunque è l’ultimo uomo sulla terra a poter dire di essere guarito da un morbo e di trovarsi in buona salute.


Molti grandi filosofi hanno dato molte diverse (diversissime) interpretazioni a questa frase.

Io, a dirvela in confidenza, avrei la mia. Nel senso che le parole di Socrate mi ricordano qualcosa.

Questa volta non è un testo lontano nel tempo e nello spazio. Non è Pinocchio, né il Nan-hua Chen-ching. È il medesimo testo in cui la frase di Socrate compare, il Fedone. Solo, una trentina di capitoli prima. Torniamo là.

Socrate sta discutendo con i discepoli. È calmo, come sempre. Il farmacista/boia è ancora lontano. A un certo punto dice, più o meno: “Io so che sto per morire. Ma non temo la morte. Perché a morire è solo il corpo; l’anima è immortale”. Dopodiché spiega perché, secondo lui, l’anima è immortale.

Ecco, a questo punto, non senza una certa titubanza, si fa avanti un suo discepolo, tale Simmia. Il quale dice che, secondo lui, c’è poco da stare allegri, perché, l’anima, invece, non è immortale. E spiega perché, secondo lui, l’anima non è immortale.


Bene. Riuscite a immaginare un intervento più inopportuno? Più fuori luogo?

Platone riporta unicamente le parole dei personaggi. Ma noi possiamo ben immaginare le facce e i gesti con cui gli altri discepoli avranno accolto l’uscita di Simmia.

Ma, nonostante questo, Socrate accoglie con pacifica cordialità le parole di Simmia. Gli dice che ha fatto bene a esprimere la sua opinione. Ne loda, anzi, l’acutezza “coerenti parole, Simmia!”


Poi, al capitolo trentanove, dice una cosa cosmica. Che vale, per me, tutto il Fedone.

“Tutti noi non siamo ancora in buona salute”, dice Socrate.

“Dobbiamo tutti guarire da una malattia. Dobbiamo assolutamente guarire. Voi perché siete giovani, avete tutta la vita davanti e non dovete viverla da malati. E io perché sto per morire, e rischio di non morire da filosofo. Sto parlando della malattia per la quale, quando si discute con una persona, non si tenta di cercare la verità insieme a lei, ma di convincerla delle nostre opinioni.

Questo comportamento è folle. Che senso ha? Se io sono in errore, che vantaggio ho nel convincere un altro della mia opinione? Rimango nella mia ignoranza e ci trascino qualcun altro. Quando io dialogo con un’altra persona, devo capire che essa per me è un alleato, non un rivale; anche se ha un’opinione diversa dalla mia.

Abbiamo lo stesso scopo: cercare la verità. Siamo come due che cercano insieme un tesoro. Che cosa importa se il tesoro è più vicino al punto da cui io ho iniziato la mia ricerca, oppure più vicino al punto da cui l’ha iniziata il mio compagno, o ugualmente distante da entrambi? L’unica cosa che importa è riuscire a trovare il tesoro, riuscire a trovare la verità. Insieme.

Quindi, rimettiamoci a dialogare. E ricordatevi, voi non dovete avere riguardo di me (e trattenervi così dall’esprimere opinioni contrarie alle mie), ma avere riguardo solo per la verità”.


Socrate si rimette a discutere così, con l’obiettivo di sapere e non di convincere. Discute cercando la verità, fino alla fine. Fino alla fine. E allora, con l’ultimo respiro in gola, può pronunciare la frase: “Dobbiamo un gallo ad Asclepio”.

Che vuol dire, secondo me: “Sono guarito! Ho cercato la verità fino alla morte! Sono morto da filosofo! Ce l’ho fatta! Ho vinto! Ho vinto! Ho vinto!”

O Kriton, to Asclepiò ophèilomen alectruòna!

Queste parole bisbigliate dalle labbra di un uomo morente sono, per me, il più grande grido di vittoria mai uscito da bocca umana.