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29 marzo
«Agente Swanson?»
Nella stanza lunga, che doveva essere stata una corte di qualche tipo, ora divisa in un labirinto di cubicoli da ufficio, riecheggiava il silenzio, a parte il basso bip di un’apparecchiatura elettronica e il rumore delle dita sui tasti.
«Agente Swanson!»
Corinne Swanson alzò la testa di scatto, facendo cadere le carte che stava sfogliando dalla sua scrivania.
«Sì?» rispose.
La voce era quella di Robert Wantaugh. La sua testa sporgeva da un cubicolo all’estremità di quello che lei aveva definito il loro blocco di celle. I capelli corti e biondi, le ciocche laterali all’indietro, alla Elvis, avrebbero potuto rendere orgogliosa una comparsa degli Intoccabili.
«Sei viva. Bene. Pensavo che fosse successo qualcosa e fossi morta come quelli dei fascicoli a cui stai lavorando.»
«Non ancora.» Wantaugh lavorava solo da sei mesi più di lei, ma da quando era avanzato di livello aveva assunto un’aria superiore da veterano disinvolto. Almeno quando non c’erano agenti più anziani nei paraggi.
«Volevo solo farti sapere che sono arrivate le pizze. Sala riunioni B.»
«Grazie. Va’ avanti, arrivo.» Wantaugh non solo voleva fare il sapientone, ma Swanson sapeva che ci avrebbe anche volentieri provato con lei.
Riprese i fogli – testimonianze oculari di vittime di un rapinatore di banche che tre anni prima aveva scorrazzato per un bel tratto dell’interstatale 25 – e provò a concentrarsi di nuovo. Quindi si voltò verso la tastiera e iniziò a scrivere il suo rapporto. Non che ci fosse molto da appuntarsi. Sapeva già tutto a memoria e non c’era niente di significativo da aggiungere. Cinque banche rapinate in due mesi. Due scontri a fuoco senza vittime. Il delinquente sapeva della presenza delle telecamere di sicurezza, e faceva il suo ingresso nelle banche indossando una varietà di cappelli da cowboy sotto i quali era nascosto un passamontagna che si abbassava sul viso appena entrava. Maltolto: 694.000 dollari. Ultimo avvistamento alla Third National Bank di Alamogordo, appena fuori dalla riserva di Mescalero. Niente carta d’identità, niente patente, niente di niente. I testimoni erano d’accordo solo sul fatto che sembrasse bianco e sulla quarantina. Secondo un informatore, aveva passato il confine, ma anche quella soffiata risaliva a due anni prima.
Swanson staccò le mani dalla tastiera, impilò ordinatamente i fogli sulla scrivania e sospirando li fece scivolare nella cartella del caso ufficiale. Che ironia: la ragione per cui non aveva sentito Wantaugh chiamarla era che non si era ancora abituata a sentirsi chiamare «agente».
Agente speciale Swanson. Per quanto tempo aveva sognato di essere chiamata così… Un sogno che l’aveva portata da Medicine Creek, in Kansas, dritta alla facoltà di giustizia criminale del John Jay College a New York, al tirocinio obbligatorio, nel suo caso un anno come assistente addetto alla libertà vigilata nella parte bassa della Hudson Valley, e finalmente all’Accademia dell’FBI di Quantico per venti settimane di addestramento per nuovi agenti. Venti settimane di interminabili esercitazioni e «addestramenti», a sgobbare e a sgobbare ancora sul percorso a ostacoli, mentre le piogge invernali trasformavano la terra in fango gelido, ad affinare le sue abilità con le armi da fuoco e le tattiche di combattimento sul «set» di Hogan’s Alley, a eseguire testacoda e tecniche di inseguimento fino a quando si sentiva più una stuntman che una tirocinante delle forze dell’ordine. E aveva amato ognuno di quegli istanti dannatamente faticosi. Perché ogni istante la portava più vicino a diventare un’agente speciale. E alla fine erano arrivati: grado, giuramento e distintivo. Il momento in cui era stata più orgogliosa nella sua vita. Nessuno l’avrebbe mai detto: Corrie Swanson, la dark sboccata dai capelli viola, gioventù bruciata venuta su in un cesso di prateria. Sua madre non si era scomodata ad andare alla cerimonia di laurea – ubriaca, probabilmente – e l’aveva ferita che il primo motore della sua carriera in erba, l’agente speciale Aloysius Pendergast, non avesse potuto assistere. Ma suo padre, Jack, era stato lì, raggiante di orgoglio malgrado il suo evidente disagio a essere circondato da così tante persone con il potere di arrestare. E poi era finita. Le era stata consegnata la sua arma di servizio – una Glock 19M con quattro caricatori da quindici round equipaggiati con elevatori arancio, insieme a diverse scatole di Winchester PDX1 +P 124 a punta cava – ed era iniziata la sua nuova vita.
All’epoca, non sapeva che la sua «nuova vita» sarebbe consistita nel riferire ogni mattina alle otto e trenta al distaccamento del 4200 di Luecking Park Avenue NE, Albuquerque, New Mexico, su mansioni amministrative. Aveva conosciuto l’agente speciale Hale Morwood, il tutor che avrebbe supervisionato la prima parte dei suoi due anni di prova, il suo «burattinaio», chi le avrebbe mostrato i trucchi del mestiere, l’avrebbe valutata e… a quanto pareva, avrebbe ridimensionato le sue aspettative. Erano ormai tre mesi che rivedeva casi irrisolti e lavorava con il responsabile dell’ufficio per le Pubbliche relazioni con la comunità. Di tanto in tanto, per cambiare, avrebbe dovuto accompagnare i tecnici… quando montavano nuove telecamere.
Non era quello che si aspettava. Di sicuro, non tutti i neolaureati di Quantico trascorrevano i loro periodi di prova in quel modo. Non poteva immaginare di ottenere mansione peggiore, fino a quando Morwood non l’aveva portata a visitare il dipartimento di Farmington, al confine con il Colorado. Se Albuquerque era il polveroso culo del nulla, Farmington era il foruncolo infiammato che ci stava sopra. Se fosse mai finita in un ufficio periferico come quello, avrebbe potuto decidersi a rapinare delle banche anche lei.
Poteva sentire lo schiamazzo degli scambi provenienti dalla sala riunioni, dove i suoi giovani colleghi stavano chiacchierando mentre mangiavano. Ma Swanson non aveva fame. Fissava l’ufficio di Morwood, la porta chiusa, e la parete di vetro oscurata come sempre dalle tende beige abbassate fino a terra. Morwood era in videoconferenza: il punto settimanale sulle operazioni. Diede uno sguardo all’orologio: ormai, avrebbe dovuto essere finita. Fece un profondo respiro. Poi, anticipando le sue intenzioni, la porta si aprì e Morwood venne fuori, scrollando le spalle nella giacca del suo abito blu scuro. Lei lo seguì con la coda dell’occhio, fino a quando non scomparve nel labirinto di cubicoli. Basso, sulla cinquantina, un po’ sovrappeso e con una rada corona di capelli rossi, quando lo aveva visto la prima volta a Swanson era sembrato che somigliasse più al macchinista di un treno che a un supervisore dell’FBI. Ma quello era stato prima che avesse la possibilità di osservare per un paio di mesi quel suo modo di tenersi le sue opinioni e l’intelligenza sorniona che lampeggiava a tratti negli assonnati occhi castani.
Ora Morwood era riapparso dalla zona dei cubicoli e stava tornando con una tazza di caffè fumante in mano. Stando al suo schema solito, non sarebbe stato impegnato in un’altra chiamata per almeno quindici minuti. Swanson fece un altro profondo respiro, si ricompose, prese la cartellina, si alzò e uscì dal suo cubicolo.
Morwood, seduto alla scrivania, stava girando il dolcificante nel suo caffè. Vedendo Swanson arrivare, le fece cenno di entrare.
«Buon pomeriggio, Swanson.»
«Buon pomeriggio, signore. Ha un minuto?»
Morwood le indicò una delle due sedie identiche contro la parete di vetro. «Prego.»
Swanson si sedette, cartellina in grembo. Qualcosa nel modo in cui Morwood la osservava la metteva sempre a disagio, come se avesse avuto i capelli in disordine o la camicetta al rovescio e si vedesse l’etichetta. Senza dubbio, la conseguenza di troppi anni di jeans strappati e magliette nere quasi tutte identiche. Resistette all’impulso di lisciarsi la gonna.
«Ho finito di controllare le rapine dell’interstatale 25, signore» disse.
Morwood bevve un sorso di caffè. «Qualcosa da evidenziare?»
Swanson esitò. Non voleva risultare inadeguata, e d’altra parte non voleva continuare a farsi scaricare addosso casi irrisolti. «Nessuno sviluppo significativo. Ho interrogato di nuovo i testimoni e gli impiegati delle banche per essere sicura che le ricostruzioni non fossero cambiate. Ho esaminato il filmato di sorveglianza: anche processandolo con il nostro ultimo software di riconoscimento, non ha prodotto risultati utili. Con il potenziamento dell’immagine sono riuscita a identificare la marca di uno dei cappelli da cowboy del ricercato: un produttore che forniva Texas, New Mexico e Arizona che ha recentemente chiuso l’attività. I registri si sono rivelati inutili.»
«Altre rapine che si adattino al modus operandi?»
«No, signore. Ho controllato attentamente, sia a nord sia a sud del confine. Un sacco di rapine in banca, ma nessuna con più di una semplice corrispondenza.»
«Capisco. Bene, ottimo lavoro, Swanson. Mi mandi il tuo rapporto?»
«Lo sto completando.»
Morwood annuì, quindi fece per parlare, poi si mise una mano in tasca e tirò fuori un fazzoletto in tempo per coprire una serie di forti colpi di tosse con tanto di rantolo. Swanson aspettò educatamente che la crisi passasse. Morwood era un po’ un mistero. Lei aveva sentito la sua parte di pettegolezzi. A quanto pareva, a suo tempo, quando era ancora un agente semplice a Chicago, era stato una specie di fuoriclasse, con encomi a sufficienza da riempire il cassetto di una scrivania. Qualcuno diceva che i suoi movimenti lenti, quasi letargici, e lo sguardo pesante fossero recenti. Altri dicevano che era stato coinvolto in un grave incidente mentre inseguiva un sospettato in una fabbrica di tintura industriale a Gary che gli aveva rovinato sia i polmoni sia la promettente carriera. Quale che fosse il caso, eccolo lì: un uomo di chiara intelligenza e lunga esperienza a finire come istruttore per gruppi di nuovi agenti.
Morwood si rimise il fazzoletto nella tasca della giacca. «C’è altro, agente Swanson?»
Era arrivato il momento. Swanson fece un altro profondo respiro. «Questo è il quinto caso che ricontrollo, signore.»
Morwood annuì. «E ho visto un costante miglioramento nel tuo approccio e nella tua efficienza.»
«Grazie.» Dio, ricevere dei complimenti rendeva tutto ancora più difficile. «Signore, apprezzo l’opportunità di accumulare esperienza rivedendo questi casi, ma speravo… penserei che…» Si fermò. Sperava che Morwood finisse la frase al posto suo. Non lo fece. «Insomma, mi piacerebbe una nuova sfida, signore.»
«Una nuova sfida. Intendi un’indagine sul campo?»
«Sì, signore.»
«Ritieni di aver imparato abbastanza da questi casi irrisolti e di essere pronta per andare là fuori a giocare ai cowboy e agli indiani?»
Crescendo, il caratterino di Swanson era venuto fuori sempre più chiaramente, ma gli anni spesi al John Jay College, e specialmente la disciplina instillata a Quantico, assieme al fatto che era andata maturando sempre di più, l’avevano aiutata a tenerlo a freno. Guardò Morwood. Non c’era una briciola di sarcasmo o di condiscendenza nei suoi occhi sonnacchiosi.
«Sono sicura che ci sia ancora qualcosa che quei casi irrisolti possono insegnarmi, ma nei tre mesi in cui ci ho lavorato non ho fatto veri progressi né scoperte utili. Ho un’approfondita formazione in antropologia forense. Penso…»
Stavolta, Morwood la aiutò. «Pensi di aver già lavorato a casistiche come queste a Quantico.»
«Sì, signore.»
«Che dopo tre mesi come soldatino al forte hai fatto il tuo dovere e ora sei pronta per qualcosa di più utile. Di più interessante.»
Morwood amava le metafore western. O forse, trasferito da Chicago, era solo cinico. Swanson non riuscì a capire quale delle due. «Si potrebbe dire così, sì.»
L’agente Morwood venne avanti sulla sedia. «Swanson, posso risponderti in due modi. Potrei dire che, come novellina appena uscita dall’Accademia, quello che speri e quello che credi non contano niente, per me o per chiunque altro in quest’ufficio. E questa sarebbe la risposta formale, d’ufficio.»
Mentre parlava, una fredda lama tagliente si insinuò nella sua voce calma. Swanson si irrigidì.
«O potrei dire che capisco perfettamente.» Morwood poggiò i gomiti sulla scrivania e intrecciò le dita. La sua voce si ammorbidì un po’. «Mi sentivo allo stesso modo, un tempo. Di solito, è anche peggio adesso, dopo tre mesi. Non dovrei dirtelo, ma gli psicologi dello staff di Quantico hanno persino una definizione per questo.»
Swanson, sempre rigida sulla sedia, non capiva dove volesse arrivare.
«Essere un agente dell’FBI non è come essere un dottore o un poliziotto. Non esiste un unico modo per maturare la giusta esperienza. È pieno di agenti – avvocati, programmatori – che non portano mai con sé un’arma e passano tutta la carriera seduti alla loro scrivania. Anche il posto fa la differenza. A te è capitata Albuquerque. Da queste parti, molti degli interventi sono collegati alla droga, così la DEA tende a prendere il sopravvento.» Si sporse ancora un po’ più in avanti. «Ma ti dico ancora due cose, Swanson. Uno, io sono il tuo istruttore. Questo significa che sono il tuo giudice e il tuo angelo custode. Mentre tu valuti quei casi irrisolti, io valuto te: le tue capacità, i tuoi punti forti, i punti deboli su cui lavorare ancora.»
Swanson provò a non tradire la sorpresa. Non aveva mai preso in considerazione, e certo non aveva mai notato, che Morwood potesse stare lì a osservarla e a valutarla con una qualsivoglia attenzione.
«In secondo luogo, e devi credermi, arriverà il tuo momento. E sarà, probabilmente, quando meno te lo aspetti. Potrebbe non essere ancora un incarico ufficiale. Potrebbe succedere qualcosa mentre sei fuori a installare telecamere. O di notte, mentre guidi verso casa. E potrebbe rivelarsi l’indagine che sei nata per risolvere. O essere il caso più noioso e frustrante della tua carriera. Posso comunque assicurarti questo: i casi irrisolti che stai ricontrollando ti torneranno utili.»
Prese ancora un sorso di caffè. Dopo qualche momento di silenzio, Swanson capì che il colloquio era finito e che era stata congedata.
Si alzò. «Grazie per il suo tempo, signore.»
«Figurati.» Morwood prese la cornetta del telefono e compose un numero.
Swanson tornò pensierosa alla scrivania. Quando ci arrivò, si accigliò. C’era sopra qualcosa che prima non c’era, un pacchetto sigillato in un grosso involucro marrone. Lo prese e lo aprì. Dentro c’era una voluminosa cartellina consunta piena di fotografie e rapporti.
Caso irrisolto numero 6.
Si sedette sospirando, tirò fuori la cartella e, sbattendo leggermente le palpebre, la mise da parte per completare il rapporto sul rapinatore dell’interstatale 25, ancora a piede libero e ricercato dall’FBI.