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20 novembre
Nora Kelly si rimise in piedi e provò a distendere i muscoli. Erano a pezzi dopo ore in ginocchio tra cazzuole, picconi e pennelli a scavare la quarta e ultima stanza di uno dei resti preistorici pueblo.
«Per oggi, abbiamo finito» disse al suo assistente di campo, Jason Salazar.
L’uomo risalì dal metro quadrato che stava spicconando e si tolse la polvere dai jeans. Poi sollevò il cappello da cowboy, si asciugò la fronte con un fazzoletto e si ricacciò in testa il cappello: malgrado l’autunno inoltrato, la temperatura superava i dieci gradi.
Nora inclinò la sacca dell’acqua appesa allo specchietto del furgoncino da campo dell’Istituto e fece un lungo sorso. Sul sito non c’era granché da vedere, ma il panorama era magnifico. Tutto quanto le antiche popolazioni pueblo avevano realizzato, pensò, aveva sempre avuto quello scopo. Il piccolo rudere si ergeva su un lembo di terra alle pendici del Cerro Pedernal, la montagna dalla cima piatta famosa per i quadri di Georgia O’Keeffe, che si stagliava maestosa alle sue spalle, solcata da profondi canyon, le cime più alte nascoste dagli alberi. Di fronte, il terreno digradava verso una vasta pianura che gli spagnoli avevano battezzato Valle de la Piedra Lumbre, Valle della Pietra Splendente. Sul lato opposto, i contorni rossi, arancioni e gialli del Ghost Ranch erano infuocati dalla luce dorata del pomeriggio.
Mentre si avvicinava al tavolo da lavoro, vide in lontananza una nuvola di polvere avanzare sulla vecchia strada della miniera di uranio che portava al sito.
Salazar le si avvicinò. «Chi sarà?»
«Non ne ho idea.»
Iniziarono a raccogliere gli attrezzi per riporli nel capanno montato ai margini del campo. Poco dopo, il veicolo fu visibile. Arrancava su una salita. Si fermarono a guardarlo mentre procedeva con prudenza sulla strada sterrata, e Nora riuscì a vedere che si trattava di una specie di auto d’epoca. La macchina si affiancò al furgoncino. Il tempo che la nuvola di polvere si depositasse, poi lo sportello si aprì e ne uscì un uomo alto e dal fisico asciutto. Una ciocca di capelli neri gli attraversava il viso, ossuto ma attraente; gli occhi socchiusi, di un blu intenso, osservavano intorno. Indossava la più brutta camicia motivo cashmere che Nora avesse mai visto, piena di ghirigori viola e arancioni. Avrà avuto trent’anni, pochi più dei suoi.
«Si è perso?» gli chiese Nora.
Il suo sguardo si posò su di lei. «Non se lei è la dottoressa Nora Kelly.»
«Sono io.»
«Mi perdoni, sono arrivato senza avvertire. Mi chiamo Clive Benton.» Tirò fuori dalla macchina uno zaino, fece qualche passo e le allungò la mano per una stretta rapida. «Davvero, avrei dovuto chiamare, ma…» Esitò. «Insomma, all’Istituto mi hanno detto che era qui, e sembra che non ci sia campo, e in ogni caso temevo di non riuscire a spiegarle tutto al telefono.»
Nora interruppe garbatamente quel fiume in piena. «Venga a sedersi. Prenda una tazza di cioccolata.» Lo accompagnò verso il tavolo sotto il tendone, su cui c’erano il thermos e dei bicchieri di plastica. Benton si appoggiò appena al bordo di una sedia.
«Che modello è?» gli chiese Nora, provando a metterlo a suo agio.
«Una Ford Futura del ’64» le rispose lui, illuminandosi. «L’ho risistemata io.»
«Non esattamente la macchina adatta a questo tipo di strada.»
«No» rispose lui, «ma la questione di cui devo parlarle non può aspettare.»
Nora si sedette dall’altra parte del tavolo. «Di che cosa si tratta?»
Benton lanciò un’occhiata a Jason Salazar. «Ehm… Per la verità, quello che sto per dirle è riservato.»
«Jason è uno degli assistenti dell’Istituto, posso garantire per la sua discrezione» spiegò Nora. «Molte delle cose che fanno gli archeologi sono riservate. Non ha motivo di preoccuparsi.»
Benton annuì, i capelli neri scompigliati da un alito di vento. Poi indugiò per un momento, come se non sapesse da dove iniziare. Alla fine, si chinò, aprì lo zaino e ne tirò fuori un sacchetto di cellophane. Aprì anche quello, estrasse un vecchio volume avvolto nella carta velina e lo appoggiò sul tavolo, tra loro due, con un atteggiamento quasi di reverenza, scartandolo poi delicatamente.
«Il diario originale di Tamzene Donner» annunciò, infine.
Nora fissò il volume senza capire. Quel nome non le diceva niente. «Tamzene… chi?»
«Tamzene Donner» ripeté l’uomo, e il suo sguardo si spostò da lei a Salazar. «La moglie di George Donner, quello che guidò la spedizione Donner, ricorda? I pionieri che rimasero intrappolati sotto le nevi della Sierra Nevada e furono costretti a darsi al cannibalismo…»
«Ah, quei Donner» collegò Nora. «Devo dedurne che questo diario ha un’importanza storica?» E intanto si chiedeva dove avrebbe portato quella conversazione.
«Un’importanza incalcolabile.»
L’affermazione fu seguita da un breve silenzio.
«Forse è meglio che le dia qualche altra informazione» aggiunse Benton. «Sono uno storico indipendente specializzato nell’espansione verso ovest del XIX secolo. E si dà anche il caso che sia un lontano discendente di alcuni dei sopravvissuti alla spedizione Donner: la famiglia Breen. Ma questo non ha importanza, ho studiato la tragedia per anni. In ogni caso, una delle poche cose su cui i sopravvissuti erano d’accordo è che Tamzene Donner registrò in un diario ogni dettaglio del viaggio. Gli storici hanno a lungo ipotizzato che uno dei sopravvissuti dovesse aver conservato e portato via il suo diario, che però non è mai stato trovato. Finora.» Fece un gesto abbastanza teatrale in direzione del volume macchiato e sfilacciato sul tavolo. «Su, lo apra.»
Nora allungò la mano e lo aprì con il massimo della delicatezza alla pagina iniziale.
«Guardi cosa c’è scritto: “Tamzene Donner, Il mio Diario, 12 ottobre 1846…”. E non riporta la data in cui si chiude, perché morì di stenti e…» Fece una pausa, si schiarì la gola. «Fu mangiata da un certo Keseberg.»
«Keseberg… Non fu anche accusato di averla uccisa proprio allo scopo di mangiarla?» intervenne Salazar.
Benton parve sorpreso. «Sì, esatto. Sembra che la storia le sia familiare.»
Salazar scrollò le spalle. «Trattavano la vicenda dei Donner al corso di storia di Goleta High. La trovai intrigante.» Accennò un sorriso. «A chi non sarebbe sembrata tale?»
Nora sembrava della stessa opinione. «Ma in che modo c’entrerei io?»
«Be’, sono qui per farle una proposta.»
«Continui.»
Anziché rispondere subito, Benton fece una pausa, poi riprese: «Innanzitutto, lei ha diretto molte campagne di scavo sulla Sierra Nevada. Conosce quelle montagne».
«Abbastanza.»
«È un’archeologa di punta del settore che ha anche esperienza di siti in cui si sono verificati casi di cannibalismo, tra cui Quivira, un’abitazione rupestre che ha trovato nello Utah.»
«Vero.»
«E ha l’accreditamento e la copertura dell’Istituto.»
Nora si appoggiò allo schienale della sedia. «Qualcosa mi dice che sto sostenendo un colloquio di lavoro.»
«Il lavoro è già suo, se lo vuole. È perfetta per quello che ho in mente.»
«E cos’ha in mente?» Tutto questo girarci intorno stava iniziando a innervosire Nora.
«Deve darmi la sua parola d’onore che, almeno per ora, quello che le dirò rimarrà tra noi.»
«Non le suona un po’ melodrammatico?»
«Mi dispiace» si affrettò a risponderle agitato Benton. «So come può suonare tutto questo, ma una volta che avrà sentito ciò che ho da raccontarle, capirà perché voglio tenerlo nascosto. È una lunga e – l’avverto – inquietante storia.»
Nora guardò l’orologio. Erano da poco passate le quattro. Avevano ancora mezz’ora di sole, e stare là fuori nel deserto era piacevole. Incrociò le braccia con un sorriso vago. Suo malgrado, era incuriosita dalla serietà dell’uomo. «Sia. Sentiamo questa storia.»
Clive Benton prese un lungo respiro, si poggiò le mani sulle cosce e cominciò a parlare lentamente, misurando il tono della voce. Era evidente che si trattava di una storia che conosceva a memoria.