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«Ero ancora un ragazzo, cresciuto fuori San Francisco, quando ho sentito per la prima volta la storia della spedizione Donner» iniziò Benton. «Le ho accennato che la mia famiglia, la famiglia di mia madre, è discendente della famiglia Breen, che fece parte della spedizione. Mia madre mi raccontò la storia come si può raccontarla a un bambino, e io ne fui catturato. Mi ha portato a studiare la storia e, alla fine, a un dottorato a Stanford.
«Quella catastrofe fu una delle più grandi calamità dell’immigrazione verso ovest. Iniziò con un gruppo di pionieri che avevano deciso di civilizzare una terra selvaggia, la California, e finì in un’inenarrabile barbarie. Il sogno americano capovolto.
«I due personaggi principali erano George Donner e sua moglie, Tamzene. George era un grand’uomo con una grande fame di terra. Per tutta la vita, non aveva desiderato che lavorarne sempre di più. La moglie, una maestra piccola e snella, nascondeva sotto i modi e l’educazione di una signora un senso ferreo di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Avevano tre figlie, ma George ne aveva avute altre due da un matrimonio precedente.
«Nel 1846, la California faceva ancora parte del Messico, ma si stava preparando la guerra, e tutti si aspettavano che gli Stati Uniti l’avrebbero conquistata presto. Donner intravide la possibilità di “cogliere la terra al volo”, per così dire, e mettere le mani su un po’ di quella nuova ricchezza. Era un buon parlatore, e riuscì a coinvolgere nel suo progetto il fratello Jacob e la sua famiglia.
«Nella primavera del 1846, George, Tamzene e le loro cinque figlie lasciarono Independence, nel Missouri, assieme a un folto gruppo di altri pionieri. Non erano coloni dell’ultima ora. Soldi da spendere ne avevano. Era una carovana di pionieri benestanti, persino ricchi, forniti di ogni ben di dio. Tamzene stabilì di aprire una scuola per signore, e portò libri, materiale scolastico, lavagna e gessetti, opuscoli e Bibbie, persino colori a olio e acquerelli. Caricò su un carro pezze di velluto, seta e raso da vendere ai californiani per ricavarne begli utili. Alcuni portarono somme di denaro con sé. Un certo Jacob Wolfinger, per esempio, portò una cassaforte contenente dell’oro, con il quale intendeva comprare la terra, costruire una casa e avviare gli affari.
«Il fatto è che, ricchezza a parte, si trattava di un normale convoglio per emigranti diretto a ovest che avrebbe potuto essere dimenticato dalla storia, non fosse stato per la decisione fatale che presero durante il viaggio. In Wyoming, Donner e altri decisero di prendere una scorciatoia, la Hastings Cutoff, di cui aveva scritto all’epoca un certo Lansford Hastings. Donner e un’altra novantina votarono per la scorciatoia, gli altri per non cambiare il loro programma.
«Così si separarono, la spedizione Donner andò a sudovest, nello Utah, seguendo la scorciatoia, e il nuovo itinerario li portò sulle aspre montagne Wasatch. Donner e gli altri cominciarono a intuire che qualcosa non andava quando le montagne si rivelarono molto peggio di come le aveva descritte Hastings, ma era troppo tardi per tornare indietro. Lasciate le montagne, furono costretti ad attraversare il deserto del Gran Lago Salato. In mezzo a mille altre difficoltà, iniziarono a soffrire terribilmente per la mancanza d’acqua. Ad alcuni dei bambini furono dati dei proiettili piatti da succhiare, per alleviare la loro sete disperata. Erano a corto di cibo, le provviste iniziavano a esaurirsi e si scatenarono delle liti. Come se non bastasse, gli indiani rubarono dei buoi e colpirono alcuni di loro con le frecce. Furono molti i viaggiatori a essere feriti da colpi vaganti che provenivano da dietro rocce e alberi. Uno dei superstiti, impossibilitato ormai a camminare, fu fatto scendere dal convoglio e lasciato a morire. E, per tutto il tempo, Tamzene Donner registrò accuratamente gli eventi nel suo diario.
«Mentre attraversavano il deserto del Nevada, il convoglio di Wolfinger si impantanò. Gli altri continuarono mentre lui cercava di liberarlo. Poco dopo, due uomini, Reinhardt e Spitzer, si offrirono di tornare indietro per aiutarlo e rimasero via alcuni giorni. Raggiunti nuovamente gli altri, spiegarono che erano stati attaccati dagli indiani e che Wolfinger era stato ucciso.
«Quando i pionieri raggiunsero le colline delle Sierre, a fine ottobre, erano molto in ritardo e soffrivano la fame. Ma sulle montagne non c’era ancora neve e speravano di riuscire ad arrivare prima dell’inverno inoltrato.
«Erano quasi sul punto di riuscirci, ma a meno di un giorno di viaggio dalla cima del passo li sorprese un’improvvisa bufera di neve. A quel punto, si sistemarono con i convogli lungo il sentiero della montagna. La bufera li inchiodò letteralmente tutti sul posto, e lì rimasero. Cinquantanove persone, nell’avanguardia, sorprese vicino al lago Truckee, furono costrette a fermarsi. Altre ventidue, tra cui George, Tamzene e le loro cinque figliolette, rimasero bloccate dieci chilometri scarsi più indietro, in una radura di Alder Creek. Questi due campi sono stati trovati e scavati dagli archeologi.
«Le testimonianze storiche menzionano, però, un terzo campo, cui ci si riferisce generalmente come al “Campo perduto”. Si trattava di un piccolo gruppo nelle retrovie, costituito in parte da Reinhardt e Spitzer, una famiglia di nome Carville e un certo Albert Parkin, che aveva lasciato la sua, di famiglia, per rifarsi una vita in California. Nessuno sa con certezza che cosa successe, ma è verosimile che, nella confusione della tormenta, il gruppo perdette l’orientamento e risalì per un canyon cieco oltre la foce del fiume Little Truckee. Finirono bloccati dalla neve, imprigionati tra le montagne, a chilometri di distanza dal gruppo più nutrito della spedizione. Qualcuno ha sostenuto che il Campo perduto fosse in una valle buia, tagliata fuori dai raggi del sole, circondata da pareti di roccia. Sono proliferate così tante leggende su quel campo che è difficile distinguere la fantasia dalla verità.
«A ogni buon conto, tutti i dispersi rimasero sepolti dalla neve per mesi. Intanto, una tempesta dopo l’altra, si ammassavano dai sette ai dieci metri di neve sulle loro teste, seppellendo le baracche rudimentali e i ricoveri approssimativi che erano riusciti a costruirsi. E rannicchiati in quei tuguri si indebolirono e iniziarono a morire, uno dopo l’altro. Mangiarono le ultime provviste. Poi mangiarono buoi e cavalli. Poi i cani. E poi cominciarono a dissotterrare i corpi congelati dei compagni di viaggio.
«Staccarono la carne e la cucinarono, a partire dagli organi: fegati, cuori, intestini, polmoni. Spezzarono le ossa per estrarne il midollo e aprirono i crani per prendere i cervelli. Quando fu finito tutto, fecero bollire le ossa per il grasso.»
Benton si prese un momento per cambiare posizione sulla sedia e gettare uno sguardo all’orizzonte. Nora e Salazar tacevano.
«Dovrei aggiungere che non tutti presero parte a quelle… pratiche. Molti si rifiutarono di mangiare carne umana. Ancora oggi, gli storici discutono su quanti della spedizione si diedero al cannibalismo. Siccome furono in tanti a morire di fame, questo significa che fu disponibile una maggiore quantità di cibo per quelli che sopravvissero. È quasi impossibile immaginare cosa abbia voluto dire, giorno dopo giorno, rimanere stipati in quelle specie di lager sovraffollati, soffocanti, in cui l’aria era così nauseante per via dei rifiuti fecali e la carne umana in decomposizione da non riuscire quasi a respirare. Disperati, una quindicina di uomini si incamminarono per le montagne verso la California in cerca di aiuto. Sette ce la fecero, ma solo mangiando i resti dei compagni che morirono lungo la strada.
«A febbraio, arrivò la prima squadra di soccorso. E vide scene raccapriccianti, al di là di ogni immaginazione. In seguito, un soccorritore raccontò di aver trovato dei bambini seduti su un tronco, i visini imbrattati di sangue, mentre mangiavano il fegato e il cuore semiarrostiti del loro stesso padre, con parti del suo corpo sparse intorno a loro.
«Grazie a quei primi soccorsi poterono salvarsi solo alcuni. I soccorritori stessi erano quasi morti attraversando la Sierra per cercare i dispersi. Tamzene e George Donner erano ancora vivi quando la prima squadra partì, ma Tamzene si rifiutò di lasciare il marito, in fin di vita a causa di un’infezione a una mano. Una seconda squadra riuscì a far lasciare le montagne ad altri dispersi, e così una terza, ma Tamzene continuò a rifiutarsi di lasciare George anche quando furono portate via le figlie.
«A un certo punto, un tal Asher Boardman si presentò al campo in cui si trovavano i Donner, ad Alder Creek. Era la fine di febbraio. Era fuggito dal Campo perduto. Raccontò qualcosa a proposito di come quel posto fosse precipitato verso una specie di follia cannibale. Boardman, che era un pastore itinerante, disse che era fuggito quando la moglie Edith aveva cercato di ucciderlo per mangiarlo. Sfinito, morì di fame qualche giorno dopo, all’epoca della terza spedizione di soccorso.
«Tamzene registrò nel suo diario tutto questo e altro ancora.
«Ad aprile, arrivò la quarta e ultima squadra di soccorso, ma già dopo la partenza della terza molti altri erano morti e le pratiche di cannibalismo avevano addirittura subito un’accelerazione. Ciò in cui si imbatterono i soccorritori fu anche più scioccante. Nel campo di Alder Creek non trovarono vivo nessuno. George Donner era morto, il suo corpo giaceva in mezzo alla neve sciolta, macellato e parzialmente smembrato, la testa spaccata e il cervello rimosso. Ma non c’era traccia di Tamzene. I soccorritori raggiunsero un accampamento di fortuna nelle vicinanze, dove trovarono un solo uomo ancora in vita, un tal Keseberg. Accanto a lui c’era una padella con dentro un fegato umano e dei polmoni. Interrogato, ammise che si trattava dei resti di Tamzene. Aveva mangiato parti del suo corpo per settimane, disse, e il fegato e i polmoni erano tutto quello che rimaneva.
«In ogni caso, l’ultima squadra di soccorso portò in salvo i superstiti. La vicenda della spedizione Donner diventò una storia raccontata, riraccontata e ristampata per secoli, e sensazionalizzata al punto da essere quasi irriconoscibile. Il suo fascino macabro non è mai tramontato.
«E questo mi porta al motivo per cui sono qui. Come le ho già detto, i due campi principali furono identificati, quello vicino al lago Truckee e quello lungo l’Alder Creek, ma il Campo perduto non è stato mai trovato. Vi ha avuto accesso un solo membro della terza squadra di soccorsi, ma sono comunque molti i dettagli che non conosciamo su quello che ha visto. Ciò che sappiamo è che, dopo esserci stato, si è rifiutato di tornarci. Per quanto orribile potesse essere stato quanto era accaduto negli altri due, sembrava che nel Campo perduto fosse stato anche peggio, molto peggio. Il soccorritore ci aveva trovato un unico superstite, che aveva portato in salvo, ma che morì delirando non molto tempo dopo.
«Tutti quei dettagli misteriosi sul Campo perduto sono diventati la mia ossessione. Per cinque o sei anni, ho inseguito una falsa traccia dopo l’altra, finendo ogni volta in un vicolo cieco… fino a quando mi sono dedicato alla ricerca del diario di Tamzene. Naturalmente, c’era abbondanza di storie sui giornali sensazionalistici, lettere, resoconti di seconda mano di dubbia provenienza, ma questa fonte primaria cruciale è andata smarrita per quasi due secoli. Tutti credevano che si fosse perduto, che fosse ormai concime per il suolo della foresta, e così nessuno ha mai intrapreso una ricerca sistematica. Le risparmierò i dettagli, ma la mia perseveranza è stata finalmente premiata non una, ma ben due volte. Anzitutto, sono riuscito a trovare il diario, e al momento giusto. In secondo luogo, il diario non solo include una lista di tutti i dispersi del Campo perduto, ma anche delle indicazioni per arrivarci. Prima di morire, Asher Boardman, l’uomo scappato dal Campo perduto, aveva passato delle informazioni a Tamzene. E il diario contiene note con punti di riferimento e il disegno di una mappa che mostra la posizione di tutti e tre i campi. Il Campo perduto potrà anche essere tristemente noto, e si potrebbe non arrivare mai a scoprire fino in fondo quali orrori vi si sono consumati, ma ora abbiamo una mappa per raggiungerlo.»
Benton fece un’altra pausa e si sporse in avanti. «Ed è il lavoro che le sto offrendo: guidare una spedizione per trovare il Campo perduto.»