CAPITOLO SESTO
I campi erano pieni di zucche (dapprima le avevo prese per palloni da pallacanestro) quando ricevetti la prima lettera da Nanette. Diceva:
Cara April…
o è settembre o gennaio? Che è un mese lo so.
Lui non c’era. Non che a te ti freghi o altro però dicevi che volevi un po’ di posta (non un POSTO… cuelli sono io a perderli di continuo) così dato che sono splendida e magnifica ecco che ti mando ’sta lettera. Ho aspettato finché hanno chiuso. La mattina sono tornata e di nuovo ho aspettato che era chiuso e il giorno dopo e cuello ancora. Non che mi freghi solo non mi va che uno mi pianta in asso dopo tanta strada che ho fatto. È propio un verme, cuello là, e tremo a pensare che potevo sposarmelo. Me la rido e rido mi senti? “AH AH” perché penso a me stesa (ah! a chi altro ci ho da pensare?) e che facio? Sto qui che raconto tutta ’sta roba a una di 11 anni sai cuanto gli frega? Così ecco d’accordo? ecco la tua lettera. Non dire che non ho mai fatto niente per te. Addio. Divertiti.
Nanette
(la dirotatrice)
La rilessi un centinaio di volte. Mi dispiaceva che Walt Pintero l’avesse piantata. Piansi ricordando Nanette ballare nel bibliobus. Ma quello che più mi preoccupava era il tono della lettera… come se pensasse di non scrivermi mai più.
Però probabilmente desiderava una risposta, perché aveva messo l’indirizzo del mittente. Così le risposi. Le scrissi che mi dispiaceva perché il fidanzato l’aveva piantata. Le chiesi se aveva altri anelli nuovi. Non le parlai dei miei problemi, mi sembrava che ne avesse già abbastanza. Sulla busta misi semplicemente «Nanette». Ancora non conoscevo il suo cognome.
Passò una settimana, due. Nessuna notizia. Le scrissi di nuovo. Ancora niente. Poi, il giorno prima del Ringraziamento, ricevetti tre lettere. E grosse, per giunta. Tre grosse lettere.
Corsi sul letto e stracciai le buste. Non riuscivo a credere ai miei occhi. La maggior parte delle parole era illeggibile. Erano più scarabocchi che scrittura, squarci d’inchiostro che andavano da un capo all’altro della pagina, pugnalate d’inchiostro che foravano la carta. Il venerdì e il sabato successivi al Ringraziamento ricevetti altre cinque grosse lettere. Non riuscii a decifrarne una parola, neanche il mio nome.
Allargai le pagine sul letto. Lo coprivano tutto. Sembrava uno di quei quadri moderni che non somigliano a niente. Le fissai finché, attraverso le lacrime, vidi gli squarci inchiostrati riunirsi in un’unica grande sbavatura.
Continuavo a pensare alle cicatrici che aveva ai polsi e al sacchetto di cuoio appeso alla cintura. E alle parole dell’autista: «Ha bisogno d’un futuro.»
Ripiegai le lettere, me le infilai in tasca e le portai a scuola e dovunque andassi. Camminando sotto gli alberi al confine della fattoria, sussurravo il suo nome. Guardavo in direzione di Dorcas Road. Avrei voluto poterla rendere di nuovo felice. Avrei voluto poterle regalare un futuro.
E, dopo giorni di desideri e camminate, tutto quello che potei darle fu una lettera. Avevo paura di accennare a quelle illeggibili che mi aveva spedito. Avevo paura di chiederle che cosa combinasse. Così mi limitai a parlarle di me stessa:
Cara Nanette,
a scuola mi chiamano Fungosa. Volevo dirti che non m’importa, ma invece sì. Non ho molti amici, solo qualche altro Fungoso. Frequento parecchio la biblioteca scolastica. A volte, quando usciamo da scuola e soffia il vento, gli altri ragazzi si tappano il naso e mi indicano e strillano “Iiiiiiiiii!”. Sono circondata da funghi e cacca di cavallo. Continuo a sognare di scappare di casa.
La tua amica
April
Cominciai a prendermi mentalmente a calci appena la ebbi impostata. Che mostro ero, a opprimere coi miei problemi qualcuno già incapace di cavarsela coi propri? Mi detestavo.
La sua risposta arrivò quattro giorni più tardi. Era leggibile.
Cara Fungosa,
tu provati a scappare e ti chiamo così X sempre. FUNGOSA! FUNGOSA! FUNGOSA! E poi ti ammazzo, pure. Non fare la scema.
Nanette
PS Fungosa!
Non sapevo se ridere o piangere, così feci tutt’e due. Nella lettera di risposta le scrissi quanto mi mancava New York. Sapevo di essere troppo giovane per scappare di casa, scrissi, però non riuscivo a smettere di pensarci.
La sua risposta fu più lunga. Ancora una volta mi insultava e mi minacciava. Poi diceva:
Dacci un taglio a cuesta storia che ti manca qualcosa. Se no non vedi cuello che hai di fronte. Senti che ti dico. Tu smetti di sentire la mancanza di NY, e io smetto di sentire cuella di Tu-Sai-Chi. Affare fatto?
Affare fatto, risposi.
Mi scrisse che viveva con gli zii. Scrisse che le dispiaceva per tutte quelle lettere illeggibili.
Mi sa che per un pezzo ero fuori di testa, scrisse. E firmò Nanette McSorley.
Le chiesi se aveva amici.
Buffo che glielo chiedessi, mi rispose:
Un giorno mia zia mi ha visto piangere e ha detto che cuello che serve è qualcuno con che parlare. E io ho detto che ce l’avevo già, qualcuno.