CAPITOLO NONO

Quando Edwina vide il ragazzo aprire la porta, pensò che si fosse sbagliato e che sarebbe andato via subito. Invece entrò senza esitare. Un’emergenza in famiglia, pensò lei, cerca una madre. E invece si sedette e basta. Era un adolescente, quello. Aria scontrosa. Un bagno non gli avrebbe fatto male. E nemmeno un taglio di capelli.

Ormai Edwina stava leggendo a una dozzina di nuche, dato che tutti i bambini si erano girati a fissare la creatura dinoccolata in ultima fila. Aveva forse intenzione di disturbare “L’Ora di Favolella”?

Mentre le madri richiamavano i bambini all’attenzione, Edwina voltò pagina e continuò a leggere. Anche se lavorava gratis per la biblioteca, andava fiera della propria professionalità. Quando, ogni mercoledì all’una, indossava la veste di seta blu e oro e diventava Favolella, niente e nessuno – né un bimbo frignante, né un ritardatario, né un arrivo sgradito – poteva distoglierla dal suo compito di lettrice.

Una vocetta fra il pubblico squittì: — Favolella! Favolella!

Una volta, a un identico richiamo, Edwina aveva messo giù il libro, fissato il bambino e detto “Sì?”, ma senza ricevere risposta. Negli anni successivi era accaduto molte volte: — Favolella! Favolella! — e infine aveva compreso che era il semplice sfogo di piccoli incapaci di trattenere l’emozione di trovarsi nella stessa stanza insieme a lei. Ora, in quei casi, Edwina rispondeva sollevando appena un sopracciglio e continuava a leggere.

Era lì per farsi beffe di lei, il ragazzo? Con gli adolescenti, tutto era possibile.

Finì Babar e iniziò un altro libro.

Il ragazzo era seduto scompostamente, la testa dai capelli stopposi inclinata su una spalla in una posa da ubriaco, gli occhi chiusi, le scarpe piantate sulla sedia davanti a lui, le braccia afflosciate sulle sedie ai lati: in breve, il tipico adolescente arrogante.

Forse era inseguito dalla polizia. A chi sarebbe venuto in mente di cercare un delinquente fra i bambini che ascoltavano Favolella?

Dormiva, forse?

Edwina lesse le ultime righe, mostrò l’ultima illustrazione, chiuse con fare teatrale il libro e s’inchinò. Fu inondata dal calore degli applausi. Come al solito, una o due vocette uggiolarono: — Ancora, Favolella! — Ma le madri si erano già messe in moto, spostando le sedie, e in pochi minuti se n’erano andati tutti.

Tranne il ragazzo.

Che doveva fare, adesso, sola con un adolescente villano grosso il doppio di lei e che, per quanto ne sapeva, poteva essere un assassino? Aveva voglia di scappare. D’infilare la veste da Favolella nello zaino e filarsela. Però le sue mani non si mossero, e nemmeno il ragazzo si mosse e sul tavolo c’era ancora un libro… il quarto.

Ogni settimana la bibliotecaria le lasciava sul tavolo tre libri illustrati, ma quel giorno Edwina ne aveva trovati quattro. Il quarto, comunque, era chiaramente un errore. Non si trattava di un libro illustrato, ma di un tascabile per adulti, un romanzaccio dalle pagine grinzose intitolato, controllò, Amore, chiama il mio nome. Di sopra ce n’era uno scaffale pieno, e quel libro con la sua tipica copertina – una prosperosa bellezza dai capelli scompigliati e un ardente giovanotto bruno – veniva certamente da lì.

Il villanzone, la faccia nascosta dalle suole sudicie delle scarpe da ginnastica, non stava dormendo. Edwina lo sapeva, come sapeva che il tascabile sul tavolo non era in realtà uno sbaglio.

Da una distanza remota le giunse il canto che i piccoli – almeno loro la guardavano – intonavano all’inizio di ogni ora: “Favolella, Favolella, una storia!”

Le sue dita tremanti percorsero incerte una guarnizione dorata della veste di seta e infine si tesero verso il libro. Cominciò a leggere a voce alta.