CAPITOLO TERZO
Già da lontano Jack scorse il parabrezza rotto dell’altra auto e capì all’istante cos’era successo. Lanciò il pacco di cereali sul sedile anteriore, prese fiato e attraversò lo spiazzo incolto e riarso dal sole.
Una donna e tre bambini interruppero il loro lavoro per fissarlo. La donna cominciò a inveire prima ancora che lui l’avesse raggiunta.
— Guardi cos’ha fatto! Ma guardi! — Gli mostrò i pezzi di vetro. — Che diavolo ha, quel ragazzo? È matto? È pieno di schegge, qua dentro. I miei bambini potevano morire dissanguati.
Il maschietto arrivò di corsa, strillando: — Ha preso una batteria e: sbam, sbam, sbam! C’è vetro dappertutto! È matto?
— Potevamo morire dissanguati! — protestò vivacemente la bimbetta.
La sorella maggiore raccoglieva vetri dal pavimento dell’auto. Mai, da com’erano vestiti i piccoli, si sarebbe creduto che vivessero in un’auto. Jack si chiese da quanto tempo fossero lì.
La madre indossava una maglietta verde e una gonna sformata color cachi. Le unghie erano incrostate di sporcizia come una scavatrice. Gli si piantò davanti. — Non li lascio mai soli, i piccoli. Mai. — Scosse la testa. — So dove si trovano ogni minuto del giorno e della notte — aggiunse in tono di sfida. — Se non ci sono io, con loro, c’è Hilary. Sono bravi bambini. Educati. Normali.
Jack ebbe la tentazione di voltarsi per vedere se dietro di lui ci fosse un giudice o un’assistente sociale. Invece si limitò ad annuire. — Sì, signora. Mi dispiace per quanto è successo.
— Con “mi dispiace” ci facciamo il brodo, amico — ringhiò il maschietto.
— Tyler, sta’ zitto! — sbottò sua madre. Tornò a rivolgersi a Jack. — Non può permettere a suo figlio di comportarsi così. Che faccio, ora? Non c’è più il vetro.
“Non è mio figlio” avrebbe voluto dire Jack “è il figlio di mia sorella. Mia sorella è morta di overdose tre anni fa” avrebbe voluto dire “però il ragazzo stava con me già da un pezzo. Poi mi hanno licenziato dalla fabbrica di gelati, e da allora siamo stati in cinquanta città e in tutte si è cacciato nei guai. Perde la testa, combina qualche guaio e dobbiamo andarcene.” Ecco che cos’avrebbe voluto dire, invece mormorò: — Ho trovato lavoro, oggi. Le comprerò un parabrezza nuovo. Fino ad allora, le procurerò della plastica da metterci sopra.
Tornò verso la propria auto. Avrebbe potuto strangolare quel ragazzo. Era una vera carogna. Il nervosismo, la collera sempre in agguato. Sua madre non era mai stata una carogna. Debole, sì. Incasinata, svanita, sì… ma non una carogna. Ed era anche svelto, il ragazzo. Non perdeva tempo a conoscerti. T’incontrava e ti odiava.
Fondamentalmente, il ragazzo era una zavorra. Anche se Jack aveva trovato un lavoro quasi in ogni città, doveva aspettare una settimana, a volte due, per riscuotere la prima paga e poter affittare una stanza. Però non ci arrivavano quasi mai, a quel punto: il ragazzo si cacciava nei guai ed erano costretti a ripartire.
Tornato nell’auto, Jack prese una manciata di cereali. Aveva trovato i suoi preferiti, i più economici. Naturalmente il ragazzo sarebbe morto di fame piuttosto che mangiarli. In questo era uguale a tutti i ragazzi, i soldi non significavano niente per lui. Per quanto povero fosse.
Jack doveva ammettere che a volte perfino lui si stufava di quella roba ed era tentato di concedersi un cibo più costoso. Ma poi pensava a quanto li detestava il ragazzo, e li comprava per puro dispetto.
Prima di andare a cercare qualcosa per riparare il parabrezza, prese un’altra manciata di cereali.