5° 6° 7° GIORNO
Il mattino seguente neanche si parlò di andare a scuola. Brenda si precipitò in cucina e lanciò le chiavi dell’auto alla madre, che alzò lo sguardo stupita, lasciando colare la marmellata dal coltello.
— Centro commerciale — ordinò, tirandola su dalla sedia.
Andò dritta alla boutique, dov’erano le magliette colorate. Si piantò davanti al cartello. E, con una voce che fece voltare tutti i commessi, disse: — Giallo. — Sollevò le mani e annunciò alle rastrelliere di vestiti: — Giallo!
Guidò sua madre alla parete di schermi televisivi e tremò alla vista moltiplicata all’infinito della stessa presentatrice che assaggiava lo stesso sformatino alla ciliegia dello stesso pasticciere. Un gruppetto di clienti era fermo lì davanti. Brenda marciò dritto verso gli schermi e per un momento sembrò sul punto di attraversarli. Rimase immobile per tutta la durata della pubblicità. Quando infine si voltò, sorrideva gioiosa, un sorriso che sua madre non vedeva da anni. Spalancò le braccia e proclamò: — Mi chiamo Brenda! Ero una bambina simpaticissima. Una volta mi sono rovesciata in testa un piatto di spaghetti, e il mio colore preferito è il giallo.
Un cliente accennò un applauso; gli altri si allontanarono. Sua madre era senza parole.
Per il resto del giorno e della sera, e il giorno dopo e quello dopo ancora, non conobbero tregua. In alcuni posti ci andarono in auto, ma di solito Brenda preferiva camminare, anzi correre, trascinando sua madre come un cucciolo per troppo tempo chiuso in casa, che si vede finalmente concedere una passeggiata al guinzaglio.
La madre la seguì fino alla loro vecchia casa grigia di Burnside Street, dalla quale avevano traslocato quando Brenda aveva sei anni. La tallonò nervosamente mentre lei marciava decisa nel cortile sul retro, lo ispezionava e si accovacciava per spostare i rami, scrutando fra le ombre degli arbusti come alla ricerca di giocattoli smarriti. La guardò inginocchiarsi davanti a un dente di leone e stropicciarne i petali gialli fra le dita, chiudere gli occhi, portarsi al naso il fiore raggrinzito e ridacchiare.
Quando dalla casa uscì una donna dai capelli bianchi con un portavaso, Brenda corse da lei e le tese la mano.
— Salve! Io sono Brenda Foster e vivevo qui quand’ero piccola. Lo sa che un tempo ci crescevano le fragole? E laggiù avevo seppellito un topo e sulla tomba avevo messo una croce di tappi.
La donna dai capelli bianchi annuì e disse: — Capisco… capisco… — e il suo sorriso perplesso si rilassò, mentre Brenda continuava a chiacchierare. Seguendo la sua giovane ospite, di tanto in tanto la donna lanciava un’occhiata divertita alla signora Foster come per dire: “Cos’è che mangia, tua figlia?”
Era circa mezzogiorno quando Brenda si batté una mano sulla fronte e disse: — Oh! Devo controllare… — Corse alla biblioteca pubblica, nella Sezione Biografie. Salì su una sedia, prese un libro dall’ultimo scaffale, lo aprì al punto segnato da un cartoncino blu, sfogliò diverse pagine, sollevò un pugno, rimise a posto il segnalibro, lanciò un — Sì! — trionfante e corse di nuovo in strada.
Andarono al parco, al laghetto dove sua madre l’aveva portata da piccola. Mamme sgranarono gli occhi allibite e bimbetti strillarono deliziati quando Brenda ci si tuffò dentro e diede inizio a una festa di spruzzi.
Andarono in centro, fermandosi in tutti gli uffici, compresi studi legali e assicurazioni: — Salve, mi chiamo Brenda. Il mio colore preferito è il giallo. — Passanti, impiegati. — Salve, mi chiamo Brenda. — Dopo cena scorrazzarono per il quartiere: — Salve!… Salve!…
Brenda prendeva contatto con ogni cosa. Accarezzava il marmo lucido di un palazzo in centro. Annusava il paraurti di un’auto, assaggiava un filo d’erba, scuoteva un nero guscio di noce, scrutava il cielo. Sentiva e annusava e tastava e ascoltava e guardava e rideva.
Quando non era impegnata a presentarsi a sconosciuti, tempestava la madre di domande: — Che cosa…? Come…? Perché…?
Quando non sparava domande, non faceva che parlare, chiacchierare, scoccando parole col gusto ritrovato di un bimbetto immerso in una vasca piena di palline da ping-pong.
E sempre tornava alla biblioteca, allo stesso libro, per spostare il segnalibro blu, per lanciare un nuovo strillo trionfante.
Sabato, il padre di Brenda chiese alla moglie: — Che succede?
— Non ne sono sicura — fu la risposta. — Quando lo scoprirò, te lo dirò.
— Ti sta spremendo. Sembri uno straccio.
— Lo so.
— Ma stai bene?
Lei gli sfiorò una mano. — Benissimo. Meglio di quanto sembri.
— E lei?
La donna curvò un dito intorno a uno del marito e gli sorrise incerta. — Chiedimelo domani sera dopo le sette.
Ridacchiando, chiacchierando, esultando, infaticabile, inarrestabile… Brenda? Possibile? Sua figlia che tornava dopo tanti anni? È questo che succede, questa valanga, quando una vita rimasta in sospeso si rimette improvvisamente alla pari? La madre di Brenda era così abituata ad affliggersi che a stento sapeva come rallegrarsi.
Ma sarebbe durato?
Che cos’era esattamente il Grande Oscuramento Tivù, quella settimana senza televisione? Un nuovo traguardo, un incantesimo, una stregoneria? Cosa sarebbe accaduto, domenica sera alle 7?
Temeva un tiro mancino. La magia poteva altrettanto facilmente essere cancellata… oppure no? Mentre le ore della domenica sgocciolavano lente, studiò l’orologio con crescente timore. Però, quando nel tardo pomeriggio suo marito le chiese: — Rimetto a posto la tivù? — gli rispose: — Sì. — Perché doveva sapere se era tutto proprio vero.
Passò l’ultima ora nella stanza di Brenda. Sua figlia non c’era, era sparita subito dopo cena. Dalle 7, quale Brenda avrebbero avuto in casa?
Svuotò sul letto la scatola di fotografie che da molto tempo avrebbe dovuto sistemare negli album, e ne cercò una che ricordava meglio di ogni altra.
La trovò e rise perché i suoi ricordi rispecchiavano alla perfezione il momento immortalato dall’obiettivo: Brenda, la mattina del suo quarto compleanno, ferma nel pigiamino giallo sul marciapiede davanti a casa, che cantava a squarciagola “Buon compleanno a me” nel caso qualche vicino si sentisse invogliato a farle un regalo. Rise di nuovo e baciò la foto.
Per quanto stordita dalla stanchezza, si costrinse a restare sveglia. Non aveva il coraggio di stendersi sul letto.
Accarezzò i vestiti della figlia, le sue cose, il pupazzo appeso allo sportello dell’armadio. Andò avanti e indietro. Guardò la foto. Dovunque si voltasse, sentiva la tivù, una presenza palpabile che risucchiava tutto lo spazio, come una palla da bowling gettata su un lenzuolo. Guardami… sembrava dire. Guardami. Scoprì che aveva paura di farlo.
Andò alla finestra. Fece scorrere le dita sulle veneziane. Sentì la musica. A pianterreno, suo marito ascoltava Pavarotti e cantava anche lui, con entusiasmo, stonando comicamente come al solito.
6,59 disse l’orologio.
Diede le spalle alla finestra. Brenda era nella stanza, appena oltre la soglia. Sembrò non accorgersi della madre. Fissava la tivù senza battere le palpebre, come raggelata. Di colpo si slanciò nella stanza e premette con forza il tasto d’accensione. Luci si rimescolarono sullo schermo, le lambirono il viso mentre la voce spumeggiante di un annunciatore strillava: «E ora, ecco “I Gemelli Dennison”!»
Il suo telefilm preferito.
A pianterreno, l’improbabile duo tuonava un’aria del “Rigoletto”.
L’espressione di stordito stupore sul viso di Brenda, come se non fosse lì, ma là, agghiacciò lo spirito della madre. Quante volte l’aveva vista in quello stato. Ma poi la mano di Brenda si mosse e… click… l’immagine svanì. Brenda veniva da lei, dritta da lei, ad abbracciarla, a stringerla forte.
— Ciao, mamma — disse d’impulso e corse via.
Questione di secondi, e qualcosa cambiò nella musica al pianterreno. Ora Pavarotti era accompagnato, quasi sopraffatto, dal canto acuto di Brenda, stonato quanto quello del padre: — LALALA LALALA LALALA! — seguito da applausi e strilli di: — Bis! Bis!
La madre di Brenda barcollò in corridoio fino alla propria stanza, troppo sfinita per riuscire a fare altro che sorridere. Si addormentò molto prima che sua figlia smettesse di cantare.