1° GIORNO
— Cinque minuti!
Brenda si raggelò.
Se un leone arriva vicinissimo a una zebra e la fissa, aveva detto una volta il commentatore di un documentario televisivo, la zebra ne è così atterrita che non tenta di fuggire. Resta lì immobile, in attesa d’essere divorata.
Che idiota, aveva pensato Brenda, senza capire il comportamento della zebra. Ma ora lo capiva. Ora una belva ancora più crudele le si avvicinava, pronta al balzo, a strapparle la vita. E lei era paralizzata dal terrore.
— Quattro minuti!
Quattro minuti. Duecentoquaranta secondi.
Strinse il cuscino al petto. Tentò di concentrarsi sulla televisione, sui suoni e sulle immagini in movimento, ma invano. Lo schermo sembrava il ricordo sfocato di un sogno.
La prima volta che ne aveva sentito parlare, aveva riso. Impossibile, aveva detto. Non sarebbe mai successo. Era stata fissata una data, un’ora, ma così lontane da non sembrare reali. Non era qualcosa che si potesse vedere. Né sentire. Nella sua stanza le cose erano com’erano sempre state. La poltrona a sacco. Il letto. Asso Monahan, ragazzo in gamba, come sempre in onda alle 18.30 di domenica.
Non riusciva a credere che stesse per accadere qualcosa di spaventoso.
— Tre minuti!
Nei film, in momenti simili, alcuni si sforzavano di vedere l’aspetto positivo della situazione. Dicevano qualcosa tipo: «Be’, è stato bello finché è durato.»
Sciocchezze!
Come un condannato a morte, ecco come si sentiva. Le mani sudate aggrappate alle sbarre… lo sguardo atterrito… i passi del prete e del secondino… il ronzio sommesso che segnala il controllo della sedia elettrica… il frenetico ticchettare dei secondi… sì, quello…
— Due minuti!
… riusciva a comprenderlo. In un film, un tizio legato alla sedia urlava: «Un altro minuto soltanto!» Che sciocchezza, aveva pensato allora.
Si sentiva mani e piedi molli. La torturava il pensiero di non aver fatto tutto il possibile per impedirlo. Ma no, aveva tentato di tutto. Aveva pianto? Sì. Tenuto il broncio? Rifiutato di parlare? Di mangiare? Di muoversi? Sì, sì, ma era stato tutto inutile. Come voler fermare un rullo compressore di dieci tonnellate, capace di schiacciare, di sbriciolare ogni protesta.
— Un minuto!
Così in fretta. Non si era mai resa conto che il tempo fosse tanto veloce. E non l’aiutava il pensiero di non essere sola, che lo stesso succedeva in tutta la città. Una volta aveva sentito dire che la paura più grande è la paura dell’ignoto.
— Trenta secondi.
Avvertì i passi sulle scale… in corridoio… dall’altro lato della porta… il secondino, il prete… Un chiavistello! Perché non se n’era procurato uno!
— Dieci secondi.
Era stato bello, finché era durato?
La maniglia si abbassò.
Brenda sgranò gli occhi, deglutì, immergendosi nello schermo scintillante, stupendo.
— Tre… due… uno…
La porta si spalancò. Suo padre entrò. La guardò.
Lei si aggrappò al copriletto, piagnucolò: — Un altro minuto! Ti preeeeeego!
Il secondino le rivolse un sorriso forzato, dolente. — Spiacente, piccola — disse, e premette un tasto: click.
L’immagine si raggrinzì fino a diventare un punto e svanì. Scomparsa. Sparita. Era la sua immaginazione, o davvero aveva sentito diecimila click in tutta la città?
Il Grande Oscuramento Tivù era cominciato.
Domenica, le 7 di sera. Brenda aveva finito i compiti di aritmetica. Doveva resistere senza tivù per centosessantotto ore. Diecimila e ottanta minuti. Seicentoquattromila e ottocento secondi. Una settimana.
Al momento i numeri non avevano significato per lei. Niente aveva significato. Era stordita. Morta.
E così pure la sua tivù. Le voci, le risate, i colori… svaniti con un gesto del padre. Lo schermo che fino a pochi istanti prima mostrava le avventure di Asso Monahan, adesso era un piatto quadrato grigio a diciannove pollici. Un sudario. Una lapide.
Brenda sapeva d’essere sotto shock. Lo sapeva da tutti i drammi ospedalieri che aveva visto. Proprio come la zebra quando si trova faccia a faccia col leone. È così che la natura protegge le sue creature dagli estremi momenti d’agonia.
Ma neanche lo shock è uno stato salutare: se si prolunga troppo, potresti non venirne più fuori. Per questo i medici dicevano sempre: «Tenetelo caldo. Sollevategli le gambe.» Brenda s’infilò sotto le coperte e mise un cuscino sotto i piedi.
Sul suo orologio digitale, le cifre rosse dicevano: 7.01. Ancora diecimila e settantanove minuti. Gemette.
Per le 7.20 Brenda cominciò a riemergere dallo shock. E a sentirsi a disagio.
Di solito era collegata, allacciata… Il flusso di luce della tivù era un cordone luminoso che la nutriva, congiungendola al mondo a diciannove pollici. Ora il cordone era sparito, e lei ruzzolava nello spazio in preda alla nausea.
Si guardò intorno: cassettone, libreria, poltrona a sacco, tendine color lavanda. Dallo sportello dell’armadio penzolava un pupazzo verde: una rana dalle lunghe zampe. Da dove veniva? Brenda sapeva che quella stanza era la sua, ma se la sentiva estranea.
Il panico la colpì alle 7.25.
Mai, da quand’era iniziato tre anni prima, si era persa un episodio di “I gemelli Dennison”, repliche comprese. E ora mancavano cinque minuti alla fine della puntata. Quale esilarante prodezza avevano escogitato quella settimana gli strampalati fratelli intercambiabili? Robby era riuscito finalmente a strappare un appuntamento a Heather? Bobby aveva combinato guai come al solito?
Brenda voleva saperlo. Il non saperlo diventò un rodimento più acuto di ogni desiderio di gelato o pizza. Corse alla tivù, le s’inginocchiò davanti e sollevò il mento, gli occhi chiusi, tentando di sentire i fotoni penetrarle nelle guance, di catturare un fioco pizzicore elettronico di Robby e Bobby Dennison. Riunì le mani e le abbassò verso il pavimento come se fosse un fiume, raccogliendo atomi, spruzzandoseli sul viso, tentando di sentire… di sentire…
Sette e mezzo. L’episodio era finito. Se l’era perso.
E ora stava per cominciare “Perdonami Petunia”.
Di colpo non sopportò più di restare nella sua stanza. Corse a pianterreno. Vagò per casa, tentando di non pensare, di tenere occupati gli occhi. Vide un cestino per il pane sul bancone di cucina, oche sulla carta da parati, una credenza in sala da pranzo.
L’unico suono era la musica proveniente dal mangianastri del padre: sempre lo stesso cantante d’opera italiano, da anni.
Suo padre era in soggiorno. Alzò lo sguardo, sorrise. — Ti senti smarrita, piccola?
— No.
— Sopravviverai. I primi giorni sono i peggiori. Quando si ha una brutta abitudine, il modo migliore è darci un taglio netto, così.
Schioccò le dita. C’era una tristezza sognante nel suo sorriso. Stava diventando insulso come la sua musica.
Brenda tirò su col naso: — Non ho brutte abitudini, io — e se ne andò.
Robby Dennison, ecco chi aveva una brutta abitudine: s’infilava le dita nel naso in pubblico, e se lo coglievano in fallo, fingeva d’essere Bobby.
Uscì in giardino. Erano quasi le otto, ma sua madre zappettava nella luce del crepuscolo. Si girò verso di lei.
— Ciao, Brenda. Mi dai una mano?
— Che fai?
— Traffico con le mie rose.
— Scordatelo.
Brenda rientrò. Lorelei Brindamour di “Perdonami Petunia” era allergica alle rose. Guai al corteggiatore così incauto da mandargliele.
Fece un giro nello scantinato, tornò in cucina. Guardò l’orologio. Petunia era già oltre la metà. Adesso suo padre cantava a voce spiegata, insieme al mangianastri. Aiuto!
Uscì di nuovo e si sedette sugli scalini davanti alla porta d’ingresso. Guardò la strada. Un uomo annaffiava il prato. Una signora portava a spasso il cane. Due tizi facevano jogging. Dei ragazzini giocavano. Da qualche parte, un pallone rimbalzò sul cemento.
Si alzò, percorse il vialetto, il marciapiede, ancora gli scalini, si sedette, si alzò, entrò, uscì di nuovo. Quando guardava la tivù restava immobile per ore, quasi senza respirare. Era come se abbandonasse la propria pelle, come un guscio sulla poltrona, per immergersi nel mondo a diciannove pollici.
Ora, tagliata fuori da quel mondo, si sentiva ribollire come una bottiglia di soda agitata furiosamente e pronta a far saltare il tappo.
In cucina aprì il frigo… e per un istante, avvolta nella sua luce, ebbe la sensazione di una tivù accesa. Ma aveva davanti solo vasetti e contenitori, roba così. Individuò un avanzo di crema di cipolle. Ne spalmò un po’ sui cracker, poi la finì a cucchiaiate. Idem con un avanzo di fagioli stufati. Si fece un panino con mortadella, formaggio, lattuga, cipolla, pomodoro, sottaceti, senape, patatine. Mangiò cinque biscotti al cioccolato. Poi due ciambelle surgelate, tostate, con melassa. Poi una ciotola di cereali misti, una vaschetta di gelato al caramello, tre ciliegie al maraschino (più il succo), una carota, un barattolo di salsiccia viennese, una manciata di patatine, una banana e una cucchiaiata di purè freddo.
Stava davanti al frigo spalancato, il cucchiaio in mano, quando suo padre esclamò: — Brenda! Hai cominciato a mangiare un’ora fa. Che ci fai, ancora qui?
Brenda non sapeva che dire, così prese un’altra cucchiaiata di purè.
Suo padre rise. — Sapevo che se qualcuno smette di fumare si dà al cibo. Suppongo che con la tivù sia lo stesso. — Le tolse il cucchiaio di mano. Le prese la punta d’un orecchio e vi scrutò dentro. — Secondo me — disse serio — sei così piena che ti sta uscendo dalle orecchie.
Brenda abbozzò un sorriso sforzato. — Ah ah.
Andò di sopra.
Si mosse con più naturalezza possibile, considerato quant’era piena, ma una volta in camera crollò sul letto mugolando. Aveva mangiato durante “Bloopermania” e “Malibu”. Adesso andava in onda “Su le chiappe”. Se resisteva ancora, sarebbe finalmente arrivata l’ora di andare a letto.
Dopo un po’ si tirò su e prese a girare per la stanza. Si fermò davanti alla finestra e guardò distrattamente oltre le persiane. Le ci volle qualche minuto prima di rendersi conto di quello che vedeva di là della strada: lo sfavillio azzurrino di uno schermo tivù.
Soffocò un lamento. Spense la luce per vedere meglio e alzò le veneziane. Sì: veniva dalla casa degli Hurley. Logico, perché il Grande Oscuramento Tivù riguardava solo le famiglie con bambini o figli adolescenti, e i ragazzi degli Hurley erano ormai grandi e lontani.
Distinse il profilo dello schermo, un vago agitarsi di ombre. Era da impazzire, come annusare una torta su uno scaffale impossibile da raggiungere.
Poi le venne un’idea: il binocolo! Suo padre ce l’aveva. Dove? In auto! Nel vano del cruscotto. Si precipitò a pianterreno, agguantò le chiavi, si precipitò nell’auto, afferrò il binocolo, si precipitò di sopra. Sollevò la zanzariera, cadde in ginocchio, poggiò i gomiti sul davanzale, si portò lo strumento agli occhi…
L’ingrandimento era sconvolgente. Di colpo si trovò nella casa degli Hurley. Ecco la nuca del signor Hurley, la signora Hurley che stirava, la tivù. Sfocata. Regolò meglio le lenti, mettendo a fuoco lo schermo. Vide una pista da bowling, numeri lampeggianti, il pubblico plaudente…
Lanciò un grido.
Scaraventò il binocolo sul letto, fuori di sé. Gli Hurley guardavano “Birilli e Dollari”.