CAPITOLO SECONDO

— Sonseray…

La voce veniva dalla soglia, fluttuava dentro la stanza insieme al profumo della pancetta arrosto, o erano frittelle? Si rotolò nel letto, stiracchiandosi pigro. Nel sole, granelli di polvere danzavano sul naso d’un orsacchiotto di peluche…

— Sonseray…

Si svegliò di soprassalto e si tirò su, gli occhi spalancati, annaspando, cercando. Era svanita, come al solito. Tutto era svanito: la porta, il profumo di cibo, l’orsacchiotto. Per cuscino non aveva che il braccio, per letto il sedile sfondato dell’auto. Tempo addietro sarebbe schizzato fuori, precipitandosi in strada nel tentativo di acciuffare quella voce, quel viso. Non più. Era cresciuto, ormai.

La colazione era sul cruscotto. Una stecca di cioccolato. Non aveva sentito Jack svegliarsi e uscire. Ma ora sentiva passi in corsa e strilli e una voce che gridava: — Basta! — E poi ci furono tonfi sull’auto e due piccole facce che lo fissavano, il naso schiacciato contro i finestrini. Prese la stecca di cioccolato.

Le facce – appartenevano a due bambini, un maschio e una femmina – si contorsero in smorfie sciocche, incitandolo a uscire. Dietro di loro comparve una terza faccia, una ragazzina più grande.

Lui scartò il cioccolato e cominciò a mangiarlo, masticando apposta a bocca aperta mentre i bambini strillavano e picchiavano sul vetro.

All’ultimo morso ebbe un’idea migliore: finirlo là fuori, davanti a loro, così che lo sentissero sgranocchiare, lo vedessero meglio, ne percepissero l’odore, perfino. Uscì dall’auto. I tre indietreggiarono, incerti. La ragazzina più grande era alta quanto lui. I piccoli a stento gli arrivavano al gomito. Marmocchi.

Il maschietto si riprese per primo, si accigliò e protese la mascella e domandò: — Chi sei?

Lui ignorò l’impertinenza solo perché gli piaceva dire il proprio nome, specialmente agli sconosciuti: — Sonseray.

— Che cosa? — squittì il marmocchio.

— Che razza di nome è? — squittì la marmocchia.

Prima che avesse il tempo di pensare una risposta, l’avanzo di cioccolato gli fu strappato di mano dal marmocchio, che subito fuggì strillando insieme alla sorellina. Scostando bruscamente la sorella più grande, Sonseray scattò all’inseguimento.

Il loro didietro tremolante e il mulinare delle gambe davano un’impressione di grande velocità, ma i ladruncoli erano così piccoli che riuscì a raggiungerli in pochi secondi. Vedendolo avvicinarsi si fermarono, strillando ancora di più, e ripresero a muoversi in direzioni opposte, camminando a ritroso. Sonseray seguì il maschietto lentamente, più guardingo, ora, perché il marmocchio aveva sollevato il cioccolato verso la bocca spalancata.

Sonseray lo minacciò col dito. — Non farlo. — Tese la mano, palmo in su. — Ridammelo.

Incredibilmente, il ragazzino si fermò, si tolse il cioccolato di bocca, glielo tese. I suoi occhi sgranati esprimevano terrore: lo scherzo si era spinto troppo oltre. E poi, quando Sonseray fece per prenderlo, il cioccolato sparì per la seconda volta, volando al di sopra della sua testa, in direzione della marmocchia strillante.

Sonseray si slanciò dietro di lei, poi dietro di lui, di lei, di lui, mentre l’avanzo di cioccolato volteggiava avanti e indietro e infine, naturalmente, atterrava nel sudiciume. Poteva raccoglierlo, Sonseray, ripulirlo e mangiarlo ugualmente? Forse. Però era ancora abbastanza civilizzato da esitare due secondi. I marmocchi no. Si tuffarono sul cioccolato. Un mulinello di polvere si sollevò mentre si azzuffavano strepitando. Il cioccolato, giallo di polvere, riapparve un’ultima volta in mano al ragazzino e poi scomparve per sempre nella sua bocca.

Sonseray non vide il marmocchio ridere e rotolarsi sulla schiena come una tartaruga rovesciata, e nemmeno sentì il frignare della marmocchia che correva dalla sorella maggiore. Sentì soltanto il ribollire del sangue mentre raccoglieva qualcosa da terra e marciava verso l’auto sotto il ponte.