CAPITOLO QUINTO

— Perché?

Jack imprecò fra sé. Da anni gli poneva quella domanda, e da anni riceveva la stessa risposta: — Ne avevo voglia.

Era una domanda stupida. Migliaia di volte si era detto: “Non chiedere” ed ecco che, non avendo ottenuto risposta alla prima, insisteva: — Perché?

— Ne avevo voglia.

Già, be’, anche lui aveva voglia di fare qualcosa, ma l’omicidio era contro la legge.

Era buio. Sentiva il ragazzo mangiare sul sedile posteriore. Qualunque cosa fosse, aveva un buon odore. Carne, formaggio. Il ragazzo mangiava sempre bene, aveva sempre soldi. Mentre Jack tirava avanti in attesa della paga, il ragazzo viveva da re, s’ingozzava.

— Ho dovuto comprare un foglio di plastica nel negozio di ferramenta. Costa un dollaro e trentanove. Sai quanta roba si può comprare, con un dollaro e trentanove?

Il ragazzo sbuffò. — Come no, dieci scatole di quel tuo cibo per cani.

— Non è cibo per cani. Ed è buono. — Per provarlo, Jack ne ingoiò un’altra manciata. — Niente guai, avevo detto. È la prima cosa che ho detto, prima ancora di spegnere il motore. Niente guai.

— E io ho disobbedito.

— Esatto.

— Mi hai dato un ordine e io ho disobbedito. Ho fatto esattamente l’opposto.

Jack non replicò. Si faceva beffe di lui, rivoltandogli contro le sue stesse parole, e come al solito se n’era accorto in ritardo.

— Un giorno o l’altro taglierai la corda e mi abbandonerai come un cane bastardo. Sarai in un altro stato prima che mi sia accorto di cosa succede. Questo mi servirà di lezione.

Jack sogghignò nel buio. Era un mistero come quel ragazzo riuscisse a impossessarsi delle sue parole furibonde e a farle sembrare ridicole.

— Come un cane bastardo.

Jack quasi scoppiò a ridere. Per tenerla occupata, s’infilò in bocca un’altra manciata di cereali.

Il ragazzo lanciò fuori dal finestrino l’involto, carta e plastica, di qualunque cosa avesse mangiato e lo seguì nell’oscurità. Pochi secondi, e i suoi passi furono inghiottiti dalla sinfonia degli insetti.

Non un suono proveniva dall’altra auto, i bambini finalmente silenziosi. Perfino lì, non si discuteva sull’ora di andare a dormire.

Jack fu svegliato dallo sbattere incurante dello sportello: il ragazzo era tornato. Sembravano passate ore e la luna era alta sopra il parabrezza, quando dal sedile posteriore venne una domanda: — Andava sui pattini, lei?

Lei.

Come sempre, la prima reazione di Jack fu di sorpresa. Al massimo una volta al mese, il ragazzo faceva una domanda del genere. Tutto qui: una domanda al mese. E naturalmente, durante il lungo intervallo di silenzio, Jack finiva per credere che se ne fosse dimenticato, ci avesse rinunciato. Così, l’arrivo della domanda successiva lo coglieva sempre alla sprovvista.

Eppure il fatto che non una volta dicesse “mia madre”, soltanto “lei”, e che Jack sapesse sempre di quale “lei” si trattava… no, non arrivava del tutto alla sprovvista.

Andava sui pattini?

Ah! Non importava la risposta, lì, ma la storia. Come: “Ha mai provato ad andare sui pattini?”

Lo ricordava come se fosse ieri; meglio, in effetti. Lui e Noreen avevano trovato dei vecchi pattini di metallo, del tipo che si fissa alle scarpe. Due paia, nella spazzatura di qualcuno. Così se li erano messi e si erano lanciati, la prima volta per entrambi. E Jack stava filando sul marciapiede come se l’avesse fatto per tutta la vita, quando aveva sentito un tonfo e un grido alle sue spalle e si era fermato su un prato per voltarsi indietro e guardare, ed eccola lì, in mezzo alla strada e per metà sotto un’auto parcheggiata. E rideva.

Era tutto lì: rideva. Si era rialzata, e l’istante dopo era di nuovo per terra. Ecco come era andata: Jack che sfrecciava su e giù, e Noreen che rimbalzava da un’auto a un palo a un pedone come in un flipper, e ridevano tutt’e due, ma specialmente Noreen, rideva come se non potesse smettere, rideva come non l’aveva mai sentita prima. In effetti, ora che ci ripensava, era stato il giorno più bello della sua vita.

Andava sui pattini?

Sapeva che la domanda non sarebbe stata ripetuta. Sarebbe rimasta lì, lustra come una Cadillac da esposizione, per anni se necessario, in attesa di una risposta.

Però ci sono risposte e risposte. E suo era il potere di rinviarle. In pratica il suo unico potere, e sapeva come usarlo, lesinando le risposte e gli aneddoti che avrebbe potuto raccontare al ragazzo sulla madre. Prima della follia, della ribellione, delle droghe, dell’overdose. Jack era il solo che la ricordasse da bambina, e forse tutto era già lì, ma che poteva saperne lui, era soltanto un ragazzino e se una mattina sua sorella lo svegliava avvolgendogli un verme intorno all’alluce, be’, Noreen era fatta così.

Avrebbe potuto raccontare della volta che Noreen aveva tirato un pugno sul naso a un ragazzo, o della volta che aveva dipinto l’erba di rosso, o della notte che loro due erano sgusciati fuori di casa per strepitare come gatti davanti alla finestra di un vicino. Avrebbe potuto parlare per ore, per giorni, e ne era tentato, altroché se ne era tentato. Ma perché, poi? Che aveva fatto, il ragazzo, per lui? Gli aveva mai offerto il suo cibo? L’aveva mai ringraziato? Si era mai scusato per essere un vulcano itinerante? Per avergli fatto perdere il lavoro in sette stati?

Così Jack elargiva le risposte una parola alla volta, una per mese, ricevendo in cambio la piccola, torva soddisfazione che almeno in quel campo le carte migliori erano sue, anche se il ragazzo non lo sapeva.

Andava sui pattini?

Aspettò ancora, e infine consegnò la sua risposta alle tenebre.