CAPITOLO SETTIMO

Non riusciva a crederci. Dopo quanto era successo ieri, riecco quelle due cacchette di topo che infilavano la testa nel finestrino aperto.

L’odore della pancetta del sogno gli si arricciolò un’ultima volta nella mente e svanì.

— Ehi, Sonnononno, vieni fuori e giochiamo.

Lui chiuse gli occhi al sole abbagliante. — Mi chiamo Sonseray.

Quelli picchiarono sull’auto. — Ehi Scemoscemo! Ehi Soppopoppo!

Sghignazzarono. Dov’era la sorella maggiore?

Non furono gli insulti a tirarlo fuori dall’auto; furono le voci strepitanti, acute, che, lo sapeva, non gli avrebbero concesso un altro secondo di pace. Stavano accanto alla lavatrice capovolta, e il marmocchio pestifero agitava qualcosa.

— Guarda questo! Io ce l’ho e tu no.

Sonseray sbadigliò e si stiracchiò. — Che sarebbe?

— Un disco da hockey. L’ho trovato io. Ah ah.

Il ragazzino si voltò, spinse in fuori il didietro grande quanto un pallone e lo dimenò. La marmocchia pestifera lo imitò.

Sonseray s’incamminò verso la città.

Sentì alle spalle i loro passi in corsa.

— Mia mamma ha detto che sei matto — ringhiò il maschietto, in tono non più scherzoso. — Ha detto che sei svitato.

— E che non dovresti andartene in giro — ringhiò la bambina.

— Sicuro. Dovresti essere rinchiuso.

— In gabbia.

— Sì!

— Proprio! E sai un’altra cosa? Eh?

Camminavano a ritroso davanti a lui, la testa che scattava in avanti a ogni parola.

— Sei un vagabondo! — strillò il marmocchio.

— Un vagabondo! — ululò la marmocchia.

— Un vaga vacca cacca bombo dondo!

Si rotolavano dalle risate sulla polvere gialla, e adesso la sorella maggiore arrivava di corsa, gridando, atteggiandosi a mamma: — Lasciatelo in pace!

L’allegria li rese imprudenti. Con due falcate Sonseray raggiunse il marmocchio, gli strappò di mano il disco da hockey e si rimise in marcia. Subito i due gli si aggrapparono alle gambe, graffiando e strillando finché la sorella maggiore non li trascinò via e il chiasso svanì in lontananza. Sonseray scaraventò il disco lontano.

Chilometri, minuti significavano poco per Sonseray. Sapeva soltanto di avere camminato a lungo e di trovarsi davanti a un grande magazzino. Entrò.

Alla gastronomia, una brunetta grassoccia gli sorrise quando si fermò davanti a un vassoio pieno di dadini di salsiccia trafitti da stecchini. Gli rivolse un cenno d’approvazione mentre lui ne sollevava uno e lo tuffava nella ciotolina di senape, e ridacchiò mentre catturava delicatamente il pezzetto di salsiccia fra gli incisivi e ne estraeva lo stecchino con la grazia d’uno spadaccino. Poi inarcò le sopracciglia, in attesa del suo giudizio.

Sonseray inclinò la testa e chiuse gli occhi, masticando pensosamente. Inghiottì, annuì: — Buono.

La brunetta sorrise raggiante.

Al quarto o quinto assaggio aveva smesso di sorridere. Al dodicesimo, quando per la dodicesima volta Sonseray annuì e proclamò: — Buono — fissò gelida il vassoio vuoto. E quando lui, con un ghigno diabolico, tuffò il dito nella senape, d’istinto si protese e gli allontanò la mano con un colpo secco.

Sonseray si allontanò, soddisfatto di sé, leccandosi il dito, un altro adolescente maleducato. La donna si allontanò col vassoio e la ciotola contaminata. Quando tornò, lo vide a tre negozi di distanza, immobile, che la fissava. Si chiese se dovesse avvertire la sicurezza.

Sonseray riprese a girellare. Non gli piaceva quel tipo di centro commerciale. Era fasullo. Imitava un ambiente naturale, coi suoi alberi e le piante dalle lunghe foglie simili a lingue e il cielo oltre i grandi lucernari che si aprivano nel soffitto a volta. E c’erano madri dovunque. Camminavano sui lucidi pavimenti neri, facevano compere, si mettevano in coda, riposavano sulle panchine. E tutte indossavano sandali o scarpe da ginnastica. Gli piacevano soprattutto quelle coi calzini a colori vivaci.

Poche tenevano i figli per mano. Ma, come Sonseray sapeva da innumerevoli ore di osservazione, anche se non avevano un legame fisico con la madre, erano collegati a lei da un cordone invisibile che li trascinava indietro come tanti yo-yo.

Tese l’orecchio. Come certi ascoltano i richiami degli uccelli, lui ascoltava le madri. Le sentiva tutt’intorno: davano ordini, rimproveravano, elogiavano, minacciavano, promettevano, cedevano, negavano e brontolavano “aspetta-che-siamo-a-casa”.

Dietro di lui una chiamò: — William… vieni qui.

Sonseray si voltò e puntò verso la voce, aprendosi la strada tra la folla. Era un gioco che faceva ogni tanto. Mentre gli occhi di quella madre si posavano su di lui, il vero William la raggiunse di corsa. Le braccia della donna accolsero il figlio, ma i suoi occhi si soffermarono sul ragazzo che veniva verso di lei fissandola così direttamente, così audacemente. Sonseray aspettò fino all’ultimo prima di deviare… L’aveva annusata, assaporata.

Due ragazzine arrivarono trafelate. — Mamma! — chiamarono, sollevandosi in punta di piedi verso una donna con una tuta lucida color lavanda e i capelli stretti da un nastro dello stesso colore.

Smaniando, la ragazzina più alta si aggrappò alla madre. — Le abbiamo trovate! Ne sono rimaste due. Appena trenta dollari.

La madre color lavanda continuò a camminare, scrutando le vetrine. — Tutt’e due? — chiese.

La ragazza strillò. — No, mamma, l’una. Ma non è niente. Sono in svendita. Possiamo comprarle subito. L’avevi promesso. Ti prego!

Sonseray, fermo accanto a un negozio di ciambelle, mormorò fra sé: — Vedremo.

La madre diede alla ragazza frenetica un colpetto sulla testa.

— Vedremo — disse, ed entrò in una cartoleria.

La ragazza del negozio di frittelle arrotolava funi di pasta e le tagliava, annodandole in ciambelle. Sonseray ne prese una e la tirò dietro di lei: l’impasto finì contro lo sportello del forno e si afflosciò come il corpo di un serpente sbattuto contro un muro.

Più avanti, entrò in un negozio di giocattoli e ne perlustrò i corridoi: quando ne uscì, aveva rotto le gambe di un’asse da stiro di plastica, spezzato tre cannoncini, infilato il dito in innumerevoli finestrelle di plastica e decapitato due bambole.

Un’esposizione di libri tascabili nella vetrina d’una libreria, le copertine sgargianti come uccelli esotici, attirò la sua attenzione. Sonseray restò fermo per un minuto, fissandoli, poi salì con la scala mobile al secondo piano, accelerando il passo.

Raccolse una manciata di sabbia da un posacenere e la versò nel caffè d’una signora seduta davanti a un negozio di focaccine dolci. Strappò un berretto da baseball da una testa dai capelli biondo-rossicci e lo lanciò oltre la ringhiera, al primo piano. Tirò un calcio alla busta gonfia di acquisti di una ragazza e strappò un gelato dalla mano d’un bambino. Si lasciò dietro una scia di strilli. La musica di sottofondo s’interruppe e una voce che sembrava scendere dal cielo oltre i lucernari annunciò: — Codice nove… codice nove…

Di nuovo al primo piano, Sonseray sfrecciò oltre una sala giochi, premendo pulsanti, strattonando barre di comando, mettendo il locale sottosopra. E poi, davanti a un negozio tutto-per-un-dollaro, vide la scena che, se aspettava abbastanza, vedeva sempre: ragazzino, madre. Il ragazzino che tendeva un sacchetto di plastica bianco e piagnucolava: — Tieni.

E lei che diceva: — È roba tua. Tienila tu.

Non c’era niente che facesse ribollire altrettanto il sangue di Sonseray. Li superò di volata, strappando il sacchetto all’ingrato, poi ruotò su se stesso, tornò indietro e ringhiò dritto in faccia al ragazzino sbigottito: — Razza di vermiciattolo.

Tempo di filare. Alle sue spalle sentì i passi della madre che accorreva in difesa del suo cucciolo. Si sarebbe piantata davanti a un camion di cemento, per salvarlo. Sonseray l’amava per questo e, mentre sfrecciava oltre le porte e nel parcheggio, dovette lottare contro l’impulso di voltarsi e correrle fra le braccia. Cinque minuti dopo era a un chilometro dal centro commerciale e ciondolava su un marciapiede luminoso fiancheggiato da prati ben rasati e viole gialle.