CAPITOLO PRIMO

Quando mio padre annunciò che ci saremmo trasferiti in una fattoria, pensai: “D’accordo, ottimo.”

Ero stufa del gabinetto sempre guasto. Stufa di vedere ogni inverno il mio fiato in camera da letto. Stufa di avere paura ad aprire la credenza perché poteva saltarne fuori un ratto, com’era già successo.

Perciò ero felice di trasferirmi in una fattoria in Pennsylvania. Finché non scoprii che cosa ci coltivavano.

Ci coltivavano funghi.

Ho sempre odiato i funghi. A New York non c’erano problemi: mi bastava non mangiarli. Neanche qui li mangiavo, però non potevo non respirare, ed era lì che mi fregavano. Perché i funghi puzzano. Cioè, non i funghi, ma la roba dove crescono. Perché non li coltivano nella terra, come ogni pianta normale. Oh, no! I funghi li coltivano nella cacca. Cacca di cavallo, per la precisione.

Ce n’è a mucchi dappertutto. Cumuli. Montagne. Si vede l’odore salirne come vapore. La prima volta che mi vide tapparmi il naso, il principale di papà si fece una risata. È cacca solo in parte, spiegò (lui disse “letame”, però). Mescolata con pannocchie e altra roba. Bell’affare. Potrebbero mischiarla con mentine aromatizzate e puzzerebbe comunque di cacca.

— Non prenderla così — mi suggerisce mamma. — Vedila all’opposto. Un profumo. — Arriccia il labbro superiore, solleva il mignolo e come una gran dama francese dice: — O de parfuum.

Rido e sento ancora puzza di cacca.

E queste montagne di concime cavallino se ne stanno forse all’aperto come dovrebbero? Oh, no! Gli operai non fanno che spalarle dentro lunghi edifici bassi, perché è lì che crescono i funghi. Al buio.

Nonostante il sapore e nonostante l’odore, forse sarei riuscita a convivere coi funghi, se almeno fossero cresciuti alla luce del sole come ogni altra pianta. Invece no, ed è questo a renderli così raccapriccianti, sinistri, i lupi mannari del mondo vegetale. Certe volte penso che siano in combutta con la luna. Certe volte, di notte, li sento là, nelle loro lunghe case basse, le piccole bianche facce rotonde che sbucano silenziose dalla scura coltre puzzolente: la luna e i suoi milioni di frugoletti. Da accapponare la pelle.

— Hai troppa immaginazione — dice mia madre.

Forse, ma le storie che circolano da queste parti di certo non mi aiutano. Storie ambigue sui funghi e il loro oscuro potere e come possono crescere dappertutto, dovunque ci siano buio e sporcizia. Una volta ho sognato di svegliarmi e di scoprire che mi erano spuntati fra le dita dei piedi.

Perciò i miei non hanno mai bisogno d’incitarmi a fare la doccia; in effetti, di solito devono incitarmi a uscirne. Cerco di tenere alla luce tutti i miei luoghi oscuri. Prendo il sole in costume. Tengo le braccia sollevate, mi accerto che entrambe le orecchie prendano la loro dose di luce e uso i fagioli per tenere divaricate le dita dei piedi.

Non penso che le cose miglioreranno con l’inizio della scuola, la settimana prossima. Sembra che quelli come me li chiamino “fungosi”.

Forse sarei riuscita a sopportare tutto questo se nelle vicinanze ci fosse stata una biblioteca. A New York ce l’avevo a soli due isolati di distanza. Ci andavo ogni volta che mi sentivo giù. In effetti, ci andavo anche quando mi sentivo su. Ci andavo tutti i giorni. Mi ero imbestialita, scoprendo che a Natale era chiusa.

Amavo la mia tessera della biblioteca. Era grinzosa, macchiata e strappata, con gli angoli arrotondati e incrostati. Ma era l’unica tessera ufficiale che avessi mai posseduto, ed era così malridotta perché, non sapendo quando poteva tornarmi utile, me la portavo dietro dappertutto.

Anche secondo mia madre era un bene che ce l’avessi e potessi portare i libri a casa, altrimenti non sarei mai uscita dalla biblioteca. Sarebbe stata costretta a portarmi da mangiare e a recapitarmi là dentro il mio ippopotamo rosso di pezza in modo che potessi dormire tranquilla. L’idea ci faceva sbellicare dalle risate.

Ce l’ho ancora, la tessera. Ogni giorno me la infilo in tasca, proprio come facevo a New York. Ma adesso vivo a Fungolandia, e non ho visto una biblioteca da quando siamo arrivati.