CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

«Era una specie di… ibernazione, credo» spiegò Sunny a Hillary quella sera. «Quando la temperatura scende sotto i tre o quattro gradi, i criceti vanno in coma. Il cuore batte soltanto una volta al minuto. A guardarli, sembrano morti. Ma a un certo punto dev’essersi scongelato e allora si è svegliato ed è uscito dalla sua bara.»

«E si è infilato in una tuba?» si stupì Hillary, passandosi una spazzola fra i capelli appena lavati.

«Già.» Sunny ridacchiò. «Dovevi vedere la faccia di Labbrone quando ha soffiato nella tuba.»

«Ma come aveva fatto, il criceto, a finire nel congelatore?»

«Va’ a saperlo. Probabilmente ce l’ha infilato qualche cretino di terza.»

Seguì un lungo silenzio.

«Insomma, adesso resterai alla Plumstead.»

Distogliendo lo sguardo, Sunny cominciò a spazzolarsi anche lei i capelli. «Immagino di sì.»

Per un po’ Hillary girellò nella stanza, sfiorando vari oggetti con la punta delle dita. Si fermò davanti alla finestra, guardando fuori.

Non vide Sunny togliersi prima le scarpe e poi le calze. E nemmeno la sentì avvicinarsi a passi felpati. Poi le sue calze le oscillarono davanti al naso. Strillando, Hillary le allontanò bruscamente e quasi travolse l’amica nella sua fuga verso il ripostiglio.

Sunny la seguì, piegata in due dalle risate. Si fermò sulla soglia del ripostiglio e sventolò le calze nell’oscurità. «E dai, Hillary, annusa.»

«No!»

«Su, Hill. Provaci. Sopravviverai, giuro.»

Nell’oscurità risuonò un’annusata rapida, seguita da un’altra più lunga e poi da un respiro profondo. Una mano scattò ad afferrare le calze e infine Hillary uscì sorridendo dal ripostiglio.

«È meglio per tutti, se sono felice nella mia scuola, no?» disse Sunny.

«Giusto» concordò Hillary, respirando a fondo. «Giustissimo!»

Sabato mattina, Eddie Mott guardò solo metà della sua dose abituale di cartoni animati. Poi spense la TV e uscì in strada, alla ricerca di qualcuno per giocare. Percorse un paio d’isolati ma vide soltanto qualche adulto affaccendato e nemmeno un ragazzino della sua età. “Probabilmente stanno ancora guardando i cartoni” pensò.

Era pronto ad arrendersi quando sentì lo sferragliare allegro di uno skateboard sul marciapiede alle sue spalle. Poi una voce chiamò: «Ehi, Mott!»

Si voltò proprio mentre Pepe Johnson lo bloccava in una presa avvolgente.

«Ehi» esclamò Eddie, lo sguardo fisso sul pepe-skateboard. Era la prima volta che lo vedeva così da vicino.

«Che combini?» gli chiese Pepe.

«Niente di che. Non c’è nessuno in giro.»

Pepe allargò le braccia. «Scusa, io sono diventato invisibile?»

Eddie scoppiò a ridere.

Poi Pepe spinse la tavola verso di lui. «Ti va di provare?»

«Stai scherzando?»

«No, davvero. Salta su.»

«Potrei romperlo.»

«Macché. È più robusto d’un carro armato.»

«Non sono un granché, con lo skateboard.»

Per tutta risposta, Pepe gli sollevò a forza il piede destro e lo piazzò sulla tavola. «Vai!»

Eddie andò.

Non riusciva a credere di filare sul famoso pepe-skateboard. Era più largo di quanto avesse creduto. Era come volare su una gigantesca pantofola verde. E scorreva così bene. Scivolava sul terreno come panna che ti si scioglie sulla lingua.

In quel punto il marciapiede era liscio e Eddie continuò a viaggiare senza problemi, mentre l’amico gli trotterellava accanto.

«Che te ne pare?» chiese Pepe dopo un po’.

«Super!»

Andarono avanti così per un paio di isolati, poi Pepe saltò sulla tavola davanti a lui e gli ordinò: «Dai una spinta col piede e tieniti stretto a me!»

Il ragazzino gli strinse obbediente la vita e il pepe-skateboard si slanciò in una corsa spensierata. Eddie non si sarebbe potuto sentire più fiero se avesse fatto un giro sul mantello di Superman.

Dopo una decina di minuti arrivarono in un quartiere che Eddie non conosceva. Pepe risalì un vialetto e si fermò in un cortile. «Casa mia» annunciò, parcheggiando la tavola. «Vieni, ti faccio vedere una cosa.»

Precedette Eddie giù per una breve rampa di scale e nel seminterrato. «Questo è il mio bancone da lavoro» spiegò, indicando un lungo tavolo di legno coperto di attrezzi, contenitori e cianfrusaglie d’ogni genere. Guidò Eddie verso un capo del tavolo e sollevò un vecchio barattolo di marmellata pieno per metà di una poltiglia grigio-verdastra.

«Che schifo» fece Eddie. «Che roba è?»

«Spazzatura frullata» rispose Peperoncino «mischiata con latte acido e succo di pesce marcio.» Gli tese il barattolo. «Vuoi assaggiare?»

Eddie fece un salto indietro.

«Non posso darti torto. Potrebbe essere fatale. Il segreto è il pesce marcio. Papà lo usa per fertilizzare i pomodori a primavera.»

«Ma a che serve?» chiese Eddie.

Pepe lanciò un’occhiata fiera alla poltiglia. «È una trappola anti-bulli.»

«Che cosa?»

«Finora ti hanno attaccato due volte per fregarti il pranzo, giusto?»

«Giusto.»

«Appena questa roba sarà pronta, la prossima volta che ci provano, avrai una sorpresa per loro. Devo trovare il cibo giusto dove infilarla. Sto pensando a un Mars tagliato a metà e svuotato al centro» continuò a spiegare, gli occhi scintillanti. «Lo riempio con questa schifezza e rimetto insieme le due metà. Dopodiché tu te la porti dietro a scuola. Il bullo ti frega il pranzo. Il bullo azzanna la barretta. Il bullo…»

«… ci resta secco!» conclusero all’unisono.

«O almeno ne è convinto» ridacchiò Pepe. «E quella sarà l’ultima volta che qualcuno proverà a fregarti il pranzo.»

Scoppiarono a ridere. Eddie aveva quasi le vertigini. Prima un giro sul pepe-skateboard, e ora questo. Chi avrebbe pensato che un giorno Pepe Johnson avrebbe messo il suo genio all’opera per aiutare proprio lui?

Era questo che emozionava Eddie più di ogni altra cosa. Non la trappola anti-bulli in sé, ma il fatto che Pepe l’avesse escogitata apposta per lui. Pepe era diventato più che un collega di alzabandiera o un salva-pranzi. Era diventato un nuovo amico.