CAPITOLO NONO
Una volta in corridoio, Eddie raggiunse l’armadietto più vicino e cominciò a sbatterci contro la testa. «Sono nei guai» gemette. «Grossi guai.»
«Se non la smetti di fare così, finirai in guai ancora più grossi» commentò Salem, allontanandolo dall’armadietto. «Qual è il problema?»
«Qual è il problema? Ogni volta che mi guardo intorno, sono in un corridoio vuoto. Ho già saltato due lezioni, e nell’unica aula in cui sono riuscito a entrare, una tipa mi ha tirato una caccola. Mi sono perso. Non so dove sono. Voglio andare a casa.»
«Però!» Salem tirò fuori matita e taccuino. «Cos’è questa storia della caccola?»
Eddie si limitò a fissarla: lo sguardo più vitreo e inespressivo che Salem avesse mai visto. Perché potesse esserle di qualche utilità, avrebbe dovuto prendersi cura di lui. Perciò, dopo avere scritto in fretta sul taccuino:
Lancio di caccola
Sguardo vitreo, inespressivo
gli disse in tono estremamente gentile: «Va tutto bene, Eddie. Solo un po’ di strizza del primo giorno. Fammi dare un’occhiata al tuo orario.»
Eddie glielo consegnò.
«Ehi, è uguale al mio! Adesso abbiamo Arte in aula 103.»
«Non so dov’è.»
Salem gli restituì il foglio e lo prese per un braccio. «La troveremo insieme. Vieni.»
S’incamminarono fianco a fianco.
«Coraggio» lo invitò Salem. «Chiedimelo.»
«Che cosa?»
«Che ci facevo nel bagno dei maschi?»
«Non m’importa. Voglio solo andare in classe. Qualunque classe.»
«D’accordo, te lo dico lo stesso.» Salem aprì una porta. «Proviamo a scendere per queste scale. Ma prima vuoi sapere come ci sono riuscita, giusto? Perciò chiedimi come.»
«Come?»
La porta in fondo alle scale dava su un altro corridoio deserto. Mentre lo imboccavano, Salem infilò una mano nello zaino e, con gesto teatrale, ne tirò fuori una lunga sciarpa di seta nera. «Grazie a questa» annunciò, tirando su i capelli e avvolgendo la sciarpa attorno alla testa come un turbante.
Eddie cooperò quanto bastava a elargirle un’occhiata riluttante. In effetti, così conciata, poteva passare per un maschio.
«È la mia sciarpa da scrittrice» spiegò Salem, srotolando la sciarpa e tornando a infilarla nello zaino. «La indosso sempre quando scrivo, però ogni tanto mi torna comoda anche per altro. All’inizio pensavo di prenderla bianca ma poi ho pensato no, è troppo comune, proprio la sciarpa che ci si aspetta da una ragazza. Così l’ho comprata nera. Ha un che di misterioso, ti pare?»
Senza risponderle, Eddie continuò ad arrancare nel corridoio mentre Salem gli saltellava accanto chiacchierando allegramente.
«Ora vorrai sapere perché l’ho fatto, giusto? Per farla breve: ricerca! Ho deciso di scrivere la mia storia sul primo giorno di scuola media di un maschio, invece che di una femmina. Così mi sono chiesta: dov’è che si può scoprire qualcosa sui ragazzi? Risposta: nel gabinetto dei maschi, è ovvio. Prima di questa avevo un’ora libera per i compiti, così – via! – mi sono infilata in bagno.» Sventolò il taccuino. «A prendere appunti. Te lo devo dire, i ragazzi sono incredibili. «Ridacchiò maliziosa e, nel tentativo di scuoterlo, tirò una gomitata a Eddie. Lui continuò a trascinarsi nel corridoio con sguardo vitreo, inespressivo. Meglio non rivelargli che lo aveva scelto come modello per il protagonista della sua storia, decise Salem. Aveva capito che sarebbe stato lui appena l’aveva visto seduto in fondo allo scuolabus.
«Allora» gli chiese con vivacità «com’è essere un maschio?»
Nessuna risposta. Non che ci fosse da stupirsi. Era una domanda troppo generica. Meglio scendere nei particolari. «Allora… che effetto fa farsi sputare addosso?»
Eddie non la stava ascoltando. Stava controllando i numeri sulle porte. «Dov’è la centotré?» domandò all’improvviso.
«Oh, da qualche parte laggiù.» Salem accennò a un punto alle loro spalle. «Ci siamo passati davanti un paio di volte, ma stavamo chiacchierando così bene…»
«No! … No!» strillò Eddie, e ricominciò a tirare testate a un armadietto.
“Certo che è matto” pensò Salem. “Ora gli è preso un attacco di collera incontrollata. Forse ha una personalità multipla. È il sogno di ogni scrittore, conoscere una persona del genere!” Aveva letto di una tipa nel Minnesota che aveva diciassette personalità diverse. Fino a quel momento, in Eddie Mott ne aveva contate due:
1. Vitreo, inespressivo
2. Collera incontrollata
Si chiese se ne avesse anche altre. E se lei sarebbe stata capace di tirargliele fuori. Che storia! Per il momento, però, lo staccò dall’armadietto e tentò di calmarlo. Fu in quel momento che sentirono un grido per il corridoio: «Fermate quel criceto!»
Una piccola palla pelosa color marrone correva a tutta velocità verso di loro. Quando i suoi inseguitori svoltarono l’angolo, le loro scarpe da ginnastica stridettero come pneumatici sul pavimento lucido. «Fermatelo!»
Eddie rimase impalato dov’era, quasi aspettandosi che la palla di pelo gli saltasse alla gola e lo azzannasse: era l’unica cosa che non gli fosse ancora successa, quel giorno. Salem, invece, lasciò cadere a terra lo zaino e lo spalancò esattamente sulla traiettoria della bestiola in arrivo. La protezione dell’oscurità e i cantucci accoglienti formati da quaderni e libri si rivelarono troppo invitanti perché il criceto potesse resistere. S’infilò a razzo nella galleria verde, rintanandosi sul fondo buio.
Salem sollevò lo zaino e se lo rimise in spalla. I tre inseguitori si fermarono sgommando sulle suole. «Ce l’hai là dentro?» chiese il più alto, ansimando.
«Sì» rispose Salem.
«Tiralo fuori. È nostro.»
Salem inarcò le sopracciglia. «E come faccio a saperlo?»
«Te lo dico io» ringhiò il ragazzo.
Eddie si spostò alle spalle della ragazzina.
«Non è una prova sufficiente» replicò lei, tirando su col naso.
Lo sguardo del ragazzo andò dai suoi amici a Salem. «L’abbiamo trovato prima noi. È nostro.» Tese una mano e ordinò: «Dammelo.»
«Non ti darei nemmeno un foruncolo del mio naso, se anche ne avessi uno.»
La faccia del ragazzo alto si contorse in una smorfia orribile. Mise il pugno sotto il naso di Salem. «Il criceto, mocciosa. Ora.»
Salem strinse le braccia attorno allo zaino e si sforzò di produrre lo stesso suono raschiante degli sputatori nel bagno. «Crrrr… avvicinati di un altro centimetro e ti sputo in faccia.» Tirò Eddie accanto a sé e gli mise un braccio attorno alle spalle. «E lui farà altrettanto.»
La mossa successiva arrivò dal corridoio. Una porta si aprì, un insegnante gridò: «Ehi, laggiù, andate in classe! Muovetevi.»
Salem e Eddie si avviarono, tallonati dai ragazzi, che erano chiaramente allievi di terza. Arrivati in fondo al corridoio, svoltarono a sinistra e imboccarono un altro corridoio. Finalmente l’aula di arte – la centotré – apparve davanti a loro, insieme alla domanda: era meglio entrare in classe con mezz’ora di ritardo, o proseguire quella passeggiata snervante?
Salem ci pensò su. Eddie non pensava. Eddie non era più in grado di farlo. Il massimo che riusciva a fare era restare cosciente. Sapeva solo che un gruppetto di furibondi studenti di terza – cui era stato detto che avrebbe sputato loro in faccia – lo pedinava in un corridoio deserto. Era sicuro che se non ci fosse stata Salem che gli stringeva le spalle con un braccio e se lo tirava dietro, si sarebbe già accasciato a terra mentre quei tipacci lo finivano, una carcassa, carne da avvoltoi.
E poi svoltarono un altro angolo e si trovarono… davanti a un posto familiare… l’ufficio dov’erano stati quella mattina. Ecco la segretaria, ed ecco che gli studenti di terza se la filavano in tutta fretta lungo il corridoio. E poi il preside, il signor Brimlow in persona, uscì dal suo ufficio sorridendo stupito, ed esclamò: «Bene, bene, guarda chi è arrivato in anticipo per il pranzo!»