CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Quando Sunny Wyler arrivò a scuola lunedì mattina, trovò un biglietto ad aspettarla:
Presentarsi in presidenza.
SUBITO!
Stavolta, quando entrò nel suo ufficio, il signor Brimlow non l’accolse con un sorriso. L’ex acquario del criceto era sulla scrivania. A parte la bestiola, ora conteneva un tappeto di trucioli e una ruota di plastica.
«Venerdì saresti dovuta venire qui dopo la fine delle lezioni. Te ne sei dimenticata?»
«Già» bofonchiò la ragazzina.
«Invece no» replicò il preside. «Non penso che te ne sia dimenticata. Penso che, per qualche misterioso motivo, vuoi essere fuori di qui e stai facendo l’impossibile per convincermi a espellerti.» Le puntò contro un dito. «Be’, ho una notizia per te, Sunny. Se non ti prendi cura di quest’animaletto, farò in modo di non farti lasciare questa scuola fino alla fine dei tuoi tre anni di frequenza regolamentare.»
Mentre preside e allieva si guardavano negli occhi, nel cortile le note della sveglia annunciarono l’alzabandiera.
Dopo un momento, il preside le consegnò un paio di libri. «Tieni. Li ho presi in biblioteca. Leggi la parte relativa ai criceti e a come prendersene cura.»
Poi le indicò un sacchetto in un angolo. «Là dentro troverai tutto quello che può servirti: cibo, trucioli e il resto. Lo lascerò su un tavolo fuori dall’ufficio. Questo criceto appartiene all’intera scuola. E sarai tu a prendertene cura. Ogni giorno. Alla fine delle lezioni. Qui. È chiaro?»
Sunny annuì.
«Molto bene. Ora puoi andare.»
Sunny affrontò la prima ora desiderando che Hillary fosse lì per discutere con lei di questo nuovo sviluppo. Cosa aveva voluto dire, esattamente, il preside? Aveva dichiarato che non l’avrebbe espulsa se non si fosse presa cura del roditore. Significava che l’avrebbe espulsa se lo avesse fatto? Significava che non sarebbe più stata costretta a comportarsi male?
Era approdata ormai alla terza ora, quella di musica, quando decise di non potersi permettere di correre rischi. Si sarebbe presa cura del criceto e avrebbe continuato a comportarsi male. Il preside non avrebbe avuto scelta.
Quel giorno Labbrone cominciò a preparare i suoi allievi per l’assemblea inaugurale. Dedicò un po’ di tempo a ogni gruppo di strumenti, lavorando sulle note loro assegnate. La sezione elastici, per esempio, era composta da quindici ragazzi. Anche se gli elastici erano enormi, ognuno da solo produceva una vibrazione insignificante. Ma, assicurò Labbrone, un coro di elastici avrebbe fatto tutto un altro effetto. Il pubblico avrebbe udito vibrazioni indimenticabili. Il segreto era farli scattare tutti nello stesso momento.
Quel primo giorno, comunque, le vibrazioni lasciarono parecchio a desiderare. Come del resto ogni altro gruppo. I suoni prodotti dai tamburi (compreso quello di Salem) facevano pensare a dei mobili che precipitano giù dalle scale. E quanto a Eddie e ai suoi compagni addetti agli ottoni, sembravano una mandria di mucche stitiche.
C’era una sola suonatrice di piatti: Sunny Wyler. Quando Hummelsdorf la ignorò, passandole davanti per andarsi invece a occupare del gruppo secchi-e-cucchiai, si poté quasi sentire l’intera classe soffocare un’esclamazione stupita. Dopo quello che era successo la volta precedente, si erano aspettati come minimo un litigio; magari, con un pizzico di fortuna, una vera e propria zuffa.
Così quando, alla fine della lezione, il prof ordinò: «La suonatrice di piatti è pregata di trattenersi», parecchi studenti si fecero venire in mente qualche scusa per ciondolare nel corridoio davanti all’aula. Con loro grande delusione, però, Labbrone chiuse la porta.
«Non ti piace stare qui?» chiese.
Sunny scrollò le spalle.
«Certe volte non piace neanche a me. Specialmente con tutti che mi danno addosso, dopo avermi appioppato strumenti vecchi come il cucco.» Per una volta, Sunny si trovò davanti una faccia acida quanto la sua. «Dunque…» proseguì il professore. «Tu dici che non suonerai i piatti, e io dico che non ti permetterò d’essere l’unica allieva di questa scuola a non salire sul palco insieme agli altri, il giorno dell’assemblea. Allora, che possiamo fare?»
Sunny scrollò di nuovo le spalle.
«Sei disposta a suonare qualcos’altro? Elastici?»
«No.»
«Secchio?»
«No.»
Labbrone la fissò. «Come ti chiami?»
«Wyler.»
«Il nome.»
«Sunny.»
Le sopracciglia del professore scattarono verso l’alto. «Sunny? Inteso come solare, gaia, allegra? Sicura che non sia Musona?»
La sola risposta fu un’occhiataccia.
Labbrone si sedette e sospirò: un sospiro tipo cos’ho-fatto-per-meritarmi-questo, che fece sporgere ancora di più il labbro inferiore. Sunny si chiese se era vero che ci si poteva specchiare. Di sicuro era molto lucido.
«Bene» riprese il professore «Se non suoni, non puoi salire sul palco. Però neanche potrai restare in mezzo al pubblico. Non posso permetterti di sfidare in questo modo la mia autorità. Perciò sai che cosa significa, Wyler?»
«No.»
«Che quel pomeriggio ti sentirai male. Andrai in infermeria e là resterai. Non ti farai vedere. D’accordo?»
Sunny stava per rispondere “D’accordo”, ma poi pensò: “Ehi, un momento, perché dovrei essere d’accordo? Se non vuole che stia in mezzo al pubblico, allora è esattamente lì che dovrei essere”. Perciò replicò: «Sto benissimo.»
«Be’, mancano ancora quasi due settimane. Hai tutto il tempo per farti venire un buon vecchio mal di pancia.»
«Non ho mai avuto il mal di pancia.»
«Be’, farai un’eccezione.»
«Non dico le bugie.»
E poi successe l’ultima cosa al mondo che Sunny si aspettasse: il professor Hummelsdorf scoppiò a ridere. Rise per un’eternità, o così le sembrò. E meno male, pensò Sunny, che aveva chiuso la porta. Quand’ebbe finito di ridere, il professore scosse la testa e la guardò come se tutto sommato la trovasse simpatica.
«Sono troppo vecchio per questo» sospirò. «Un tempo pensavo che, arrivato a quest’età, avrei diretto la banda di qualche università importante. La Michigan. O la Oklahoma. Una banda di duecento suonatori.» Scosse la testa. «Sei sempre così belligerante?»
«Eh?»
«Una peste. Sei sempre così?»
«No. Prima ero una brava bambina. Sono diventata una peste da quando sono arrivata qui. Probabilmente sono allergica a questa scuola.»
Questo provocò una nuova risata. «Oh, oh… e va bene…» Le scrisse in fretta una giustificazione per il ritardo col quale sarebbe arrivata alla lezione successiva. «Forse non sono troppo vecchio» aggiunse, ancora ridacchiando, e la spedì fuori dall’aula.
Quel giorno Eddie Mott si era augurato di non incontrare Salem nella mensa, e continuò a sperarlo finché la sua voce inconfondibile gli risuonò alle spalle: «Ehi, Eddie, aspetta.»
Poteva ancora provare a distrarla. Così, mentre si affiancavano, le chiese: «Secondo te cos’ha detto Labbrone a Sunny, dopo la lezione?» Per quanto fosse giù di morale, chiamare un professore “Labbrone” lo fece sentire un pizzico cattivo e un pizzico più grande.
Salem ridacchiò. «Non ne ho la minima idea. Quanto mi sarebbe piaciuto essere una mosca sul muro!» E poi, prima che Eddie potesse farsi venire in mente qualcos’altro da dire, notò l’assenza di qualcosa. «Ehi, dov’è il tuo sacchetto del pranzo?»
«Oh…» Eddie scrollò le spalle. «Oggi ho deciso di mangiare in mensa.»
A Salem basto un’occhiata alla sua faccia per capire. Lo bloccò sulla soglia della mensa. «Non è vero. Te l’hanno rubato, è così?»
Eddie la fissò con quella che sperava fosse la sua migliore espressione non-so-di-che-parli. «Macché.»
«È stato quel bulletto con la testa a pallini, vero? Ti ha beccato quando Pepe non era in giro e ti ha rubato il pranzo.»
A Eddie cominciarono a pizzicare gli occhi. «No, no. Ho solo deciso di mangiare in mensa» ripeté. “Non abbassare lo sguardo” la implorò mentalmente. “Ti prego.”
Salem abbassò lo sguardo. «Oh, no.»
Per quanto Eddie avesse fatto del suo meglio per eliminare le tracce del budino, fra i lacci delle scarpe le macchie di cioccolato erano ancora ben visibili.
Salem rialzò gli occhi. «E ti ha pure fatto quello che Pepe aveva fatto a lui.»
Eddie si sforzò di sostenere il suo sguardo, ma non ci riuscì. Che disgrazia! Essere un ragazzino e non saper dire le bugie in modo convincente. Sua madre gli diceva sempre che portava il cuore sulla faccia, qualunque cosa significasse. Quanto a lui, sapeva soltanto che il mondo intero sembrava accorgersi sempre di ogni sua emozione.
Salem continuò a guardarlo fisso, e solo quando lo vide sbattere le palpebre e incurvare le spalle, capì d’essersi spinta troppo oltre.
Lo guidò verso il tavolo più vicino e si sedettero, mentre metà della scuola si metteva rumorosamente in fila per il pranzo.
«Mi dispiace» gli sussurrò.
Eddie scosse la testa e abbassò lo sguardo sui pugni chiusi. «Sono un imbranato.»
«No…»
«Sì, invece. Sono il più grosso imbranato del mondo.»
«Eddie, sei soltanto un ragazzino di prima media.» Provò a toccargli un braccio, ma lui si ritrasse di scatto.
«Mi hanno lanciato neanche fossi un pallone. Mi hanno sputato addosso. Mi hanno rubato il pranzo. Mi hanno gettato un budino sulle scarpe… e io non ho fatto niente. Come se non bastasse, non riesco neanche a dire una bugia convincente. Lo so che stai scrivendo un racconto su di me, sai? Perché non lo intitoli Eddie l’Imbranato? Sono peggio che imbranato. Sono una vergogna.»
Gli studenti cominciarono a notarli. Alcuni ragazzi dell’ultimo anno sogghignarono.
La mano sinistra di Salem era rimasta appoggiata sullo zaino, sopra il taccuino. Di colpo si sentì un verme. A modo suo, anche lei aveva maltrattato Eddie. Aveva tentato di scomporlo in personalità multiple. Di ridurlo a una serie di pagine in un taccuino. Che cosa offensiva. Per dirla con il signor Brimlow, Eddie Mott non era un intreccio secondario, né principale. Eddie Mott era una persona. Un amico.